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È morto Vince Zampella, l’uomo che con Call of Duty ha contribuito a fare dei videogiochi un’industria multimiliardaria Figura chiave del videogioco moderno, ha reso gli sparatutto mainstream, fondando un franchise da 400 milioni di copie vendute e 15 miliardi di incassi.
A Londra è comparsa una nuova opera di Banksy che parla di crisi abitativa e giovani senzatetto In realtà le opere sono due, quasi identiche, ma solo una è stata già rivendicata dall'artista con un post su Instagram.
Gli scatti d’ira di Nick Reiner erano stati raccontati già 20 anni fa in un manuale di yoga scritto dall’istruttrice personale d Rob e Michele Reiner Si intitola A Chair in the Air e racconta episodi di violenza realmente accaduti nella casa dei Reiner quando Nick era un bambino.
Il neo inviato speciale per la Groenlandia scelto da Trump ha detto apertamente che gli Usa vogliono annetterla al loro territorio Jeff Landry non ha perso tempo, ma nemmeno Danimarca e Groenlandia ci hanno messo molto a ribadire che di annessioni non si parla nemmeno.
Erika Kirk ha detto che alle elezioni del 2028 sosterrà J.D. Vance, anche se Vance non ha ancora nemmeno annunciato la sua candidatura «Faremo in modo che J.D. Vance, il caro amico di mio marito, ottenga la più clamorosa delle vittorie», ha detto.
A causa della crescita dell’industria del benessere, l’incenso sta diventando un bene sempre più raro e costoso La domanda è troppa e gli alberi che producono la resina da incenso non bastano. Di questo passo, tra 20 anni la produzione mondiale si dimezzerà.
È appena uscito il primo trailer di The Odyssey di Nolan ed è già iniziato il litigio sulla fedeltà all’Odissea di Omero Il film uscirà il 16 luglio 2026, fino a quel giorno, siamo sicuri, il litigio sulle libertà creative che Nolan si è preso continueranno.

Seaspiracy è la conferma che Netflix ha un problema con i documentari

Il lavoro di Ali Tabrizi, come altri presenti sulla piattaforma, non si preoccupa di verificare le informazioni e ha il solo scopo di far credere allo spettatore di essere vittima di una cospirazione.

06 Aprile 2021

È possibile che dopo aver guardato Seaspiracy su Netflix smettiate di mangiare pesce. Per un giorno o due, per una settimana, un mese. Poi l’effetto dello shock si riassorbirà come un ematoma e tutto tornerà come prima. D’altra parte, non abbiamo buttato via lo smartphone dopo The Social Dilemma, altro shock metabolizzato e dimenticato. Il documentario diretto (e «interpretato») da Ali Tabrizi prova a condensare il lungo percorso di cambiamento che spinge le persone a diventare vegane dentro un tunnel dell’orrore di novanta minuti su tutti i mali della pesca. Seaspiracy è la pillola rossa super concentrata per accorciare il processo, anzi, per sostituirlo. Nessuna sfumatura, nessuna complessità, perché la complessità porta complicazioni narrative e non si sminuzza o digerisce facilmente. È il problema del documentario contemporaneo, militante ma di massa: le piattaforme come Netflix (dove potete guardare Seaspiracy, Cowspiracy, What the Health, The Social Dilemma) hanno spalancato gli orizzonti al genere, ma lo hanno anche modificato geneticamente. Oggi i documentari devono essere esperienze trasformative, un’ora e mezza ad alta intensità radicale, con la call to action finale, per uscire rinnovati e in missione, come al termine di una beauty farm etica. Il problema delle pillole rosse, però, è che esistono solo in Matrix o nelle metafore dei fanatici. Non si diventa vegani per effetto di intense cure Ludovico e comunque non è per questo che esistono i documentari. 

Seaspiracy mette il dito su un problema enorme: l’industria della pesca è insostenibile dal punto di vista ambientale, sanitario e sociale. Non c’è altro modo di definire l’overfishing se non come una catastrofe e non esiste transizione ecologica senza un cambiamento sostanziale nel modo in cui il cibo viene prelevato dagli oceani. Però Seaspiracy non vuole informarci su questo, vuole trasformarci, e questo slittamento ha una prima vittima collaterale: la scienza. Si potrebbero fare cinque ore di debunking sui novanta minuti di Seaspiracy. Il suo dato più forte, l’architrave del ragionamento, è falso. Tabrizi ci dice che gli oceani saranno vuoti nel 2048 se continueremo così. Ha preso il dato da una ricerca del 2006, ritrattata dal suo autore (l’ecologo canadese Brian Worm) già nel 2009. Inoltre, la pesca collaterale e per errore di specie protette non è il 40 per cento ma il 10 per cento del totale, secondo Nazioni Unite e Fao. Un solo studio ha parlato di 40 per cento, forzando le unità di misura, mescolando specie in via di estinzione e spreco alimentare, che è un problema, ma è un altro problema. Certo, Onu e Fao potrebbero mentirci, potrebbe essere tutta una cospirazione, come suggerisce il titolo, ed è uno degli effetti di questo tipo di documentari, metterci nella posizione di dover pensare: mentono, tutti mentono, e solo io posso cambiare le cose.

Il padre di questi filmmaker in missione è ovviamente Michael Moore. In primo piano lui e tutto il resto dietro. Ogni tanto verrebbe da dire a Tabrizi quello che Dini Risi diceva a Nanni Moretti: “spostati e facci vedere i pesci”. Come Moore, Ali è affabile con lo spettatore ma spietato con i cattivi, è coraggioso ed emotivo, quando cerca informazioni sensibili su Google ha il cappuccio della felpa sulla testa, come nelle foto di stock per illustrare una pagina Seo su come diventare giornalisti investigativi. Il film è il suo viaggio trasformativo di un bambino che amava le balene. Dal primo minuto ci tiene a farci sapere che sta rischiando la sua vita per cambiare la nostra. Verso la prima mezz’ora si nasconde dietro un muro, indica la scena alla sua compagna di viaggio e di vita Lucy Tabrizi e ci fa sapere che in quel momento ha scoperto davanti ai nostri occhi la multimiliardaria industria del tonno. Seguono immagini brutali. Ce ne sono tantissime, spesso d’archivio, fanno male a vedersi: tartarughe fatte a pezzi, squali morti buttati in mare, delfini maciullati. Il linguaggio visivo di Seaspiracy sarà familiare a chi guarda ancora Le Iene: allegria apocalittica, dress code fisso, inseguimenti, immagini sfiancanti, manipolazioni e interviste tagliate sulle pause e le esitazioni dei colpevoli, perché quale migliore prova di una cospirazione che un’esitazione alla domanda: dovremmo smettere di mangiare pesce e basta? È ovviamente una domanda legittima, il problema è nel percorso tracciato dal documentario per indurci a una risposta. 

Kip Andersen è il produttore di Seaspiracy ed era il regista di Cowspiracy e What the Health, altre due pietre miliari del documentario trasformativo. Sono di fatto una sola saga, con la stessa forzatura di ricerche e dati (in What the Health si parla dei danni alla salute di una dieta e non vegana, si dice che il latte causa il cancro e che le uova fanno male quanto le sigarette) e lo stesso obiettivo, non tanto i consumatori o i produttori, ma quella complicata terra di mezzo, fatta di miglioramenti, cadute, rischi e compromessi, che è la sostenibilità. È una parola sulla quale nutrire la giusta diffidenza, il greenwashing è uno dei prodotti più nocivi della contemporaneità e non c’è grande inquinatore globale che oggi non parli di sostenibilità. Eppure è l’unico terreno di evoluzione e incontro che abbiamo tra produzione, consumo e ambiente. La sostenibilità è fallata e imprecisa come la democrazia, ma è anche senza alternative migliori su larga scala. Kip Anderson e Ali Tabrizi non sono d’accordo e usano ogni mezzo possibile per convincerci del fatto che la sostenibilità vada bombardata e che lo scopo etico di quel bombardamento consenta qualsiasi distorsione retorica o scientifica. Non si può stare in mezzo, o con noi o contro di noi. 

Alla fine di Seaspiracy viene intervistato un baleniere delle isole Far Oer che, come ogni baleniere, usa questo argomento standard: che differenza c’è tra mangiare una balena pilota e un pollo d’allevamento? Lì dove gli estremi si incontrano, l’ecologista vegano e il baleniere scandinavo sono d’accordo: non c’è differenza. O stai col baleniere, e allora vale tutto, o stai con Seaspiracy. In mezzo ci sono tutti gli altri: Onu, Fao, le organizzazioni ambientaliste a destra di Sea Shepard e Peta, i certificatori di sostenibilità. La terra di mezzo è dove stanno i dubbi, la complessità, la scienza, gli onnivori, gli errori, i compromessi e chiunque creda che la pesca vada radicalmente riformata ma non abolita.

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