Cultura | Moda

Come non usare Dante in una sfilata

Le polemiche sulle (finte) teste di animali della sfilata di Schiaparelli dimostrano, ancora una volta, come la moda spesso rimanga vittima dei messaggi che vuole mandare.

di Angela Bubba

Dal 2021 è passato del tempo, ma non dovremmo fare fatica a ricordare quanto successo in quel periodo, al di là delle varie ondate di Covid intendo, insieme ai relativi lockdown e relativa frenesia da vaccino. Mi riferisco alle celebrazioni legate ai 700 anni dalla morte di Dante. Parlo cioè della fioritura bulimica per non dire mostruosa di convegni, congressi, seminari, pubblicazioni, approfondimenti di ogni genere dedicati al poeta di Firenze. Ma parlo anche di altro: Dante proposto in qualsiasi salsa da parte di aziende che potevano vendere gelati, gioelli o mobili, senza soluzione di continuità; Dante inglobato suo malgrado in strategie e campagne marketing, alcune originali altre ridicole; Dante finito dentro a tantissimo altro, incluso un numero spropositato di giochi da tavola e videogiochi: insieme a Virgilio, Beatrice, insieme a Dio stesso, il personaggio-autore della Commedia è costretto a passare per scenari improbabili e a lottare peggio di un forsennato, tanto da risultare quasi comico, come la versione maschile di una Lara Croft qualunque. Ma la Dante-mania non è rimasta circoscritta, non si è esaurita, ha arrogantemente travalicato i perimetri e con la sua ansia da prestazione abbiamo a che fare ancora oggi. L’esempio più recente lo ha offerto Daniel Roseberry, direttore creativo del brand di moda Schiaparelli, che per la sua ultima collezione, presentata al pubblico lo scorso 23 gennaio e apripista dell’Haute Couture a Parigi, ha dato vita a degli abiti memorabili: tre ideazioni da donna, nella fattispecie, sulle quali sono state appuntate le teste finte e a grandezza naturale di un leone, un lupo e un leopardo, più o meno corrispondenti alle tre celebri fiere descritte nel primo canto dell’Inferno e portate in passerella rispettivamente da Irina Shayk, Naomi Campbell e Shalom Harlow.

Roseberry, travolto subito da comprensibili polemiche, mosse in primo luogo dai movimenti ambientalisti, ha motivato la sua scelta agganciandosi a una ragione creativa: simile a Dante, che si smarrisce nell’ormai leggendaria selva oscura poiché preda del dubbio e del peccato, allo stesso modo il designer è immerso in un orizzonte di incertezza, un mare frammentato di oscurità e indecisione che precederebbe l’avvio di una nuova creazione: “tutto molto bello”, verrebbe da dire, almeno nelle premesse, in una teoria che pare smarrirsi anch’essa, dantescamente magari?, in cerca della sua migliore applicazione pratica. Può reggere infatti (solo) un’equazione di questo tipo? E soprattutto: è giusto augurarsi una più profonda considerazione del tema?; mettendo in conto la ricezione mondiale dell’operazione Schiaparelli, è lecito aspettarsi, se non pretendere, un maggiore rispetto nel maneggiare determinati elementi, letterari e visuali? Un simbolo non è mai solo un simbolo, dovremmo saperlo, è molto di più. Ma è pur vero che se parliamo di moda ad alti livelli il discorso è da collegare anche ad altre varianti, a logiche che in generale differiscono dal ready to wear e in particolare, per quel che riguarda Schiaparelli, si radicalizzano nell’impronta surrealista che da sempre caratterizza il marchio. Il tentativo di Roseberry tuttavia, promettente in potenza, che da scommessa immaginativa avrebbe potuto incarnare una fantasia più matura, non pare andare al di là dell’acerba superficie, producendo un palinsesto, una riscrittura stonata che a quanto pare ha riscosso un certo fastidio, e non solo tra gli animalisti.

Roseberry vorrebbe quindi in primis evocare Dante, con un movimento di riduzione eccessivamente semplicistica; vorrebbe poi richiamare l’Africa, secondo quella fastidiosa rappresentazione olografica da cartolina di safari, che tutti ben conosciamo; e perché no, vorrebbe anche rimarcare il carattere di un nuovo tipo di femminilità in corso di affermazione, forte, aggressiva, e di cui avere possibilmente paura: del resto una belva ruggisce, non miagola; ma se lo fa in maniera posticcia raggiunge comunque un risultato apprezzabile?, oppure rischia di schiantarsi in mezzo a un incrocio di incomprensioni?

Oltre a una buona dose di disappunto suscitata tra gli addetti ai lavori, come dicevamo, lo stilista si è guadagnato anche l’ira degli attivisti, che vedono nel suo lavoro l’ennesima umiliazione inflitta al mondo animale, esposto in questo caso a mo’ di premio, in tutto e per tutto somigliante a un trofeo appeso sul camino dal più becero dei bracconieri. D’altra parte c’è anche chi minimizza e perfino applaude all’invettiva del designer, abile per aver realizzato dei manufatti eccelsi, con occhi, zanne e criniere assolutamente verosimili, ma ancora più abile per aver reso virale una proposta tanto audace e aver raggiunto quello che in ultima analisi è l’obiettivo primario di qualsiasi brand: far parlar di sé, o detto in altri termini, vendere.

Il fatto poi che i capi, mai parola fu più azzeccata, d’imputazione siano una serie di indumenti che ricordano delle pellicce, fa ugualmente pensare, costituendo queste il rimando più iconico, e quindi più aspro, a una lotta che non pare avere finestre di reale confronto, ma soltanto estremizzazioni via via inaspritesi col tempo, a parole, sulla carta stampata e infine, ultimo ma non meno importante luogo, sui social, in una liturgia ripetitiva di discussioni, meme e vignette non di rado sguaiati, santificati da un lato e maledetti dall’altro, solo all’apparenza volatili – come vorrebbe far credere la virtualità – ma anzi sempre più sedimentati nell’opinione corrente, che sembra sempre più incapace, e questo va detto, di cogliere le metafore ed è spesso imbrigliata in una “lettaralità” punitiva. Per non parlare dello stesso Dante, del suo messaggio più autentico e straripante, tuttora rivoluzionario, che in un panorama come questo logicamente scompare, eclissato com’è da altre dinamiche e finalità, e se rimane lo fa in forma di timido ologramma, una macchietta comoda in cui infilare vagamente le proprie intenzioni: perché le cose acquistano un tono più elevato in questo modo, come per magia diventa tutto più alternativo, più luccicante, più cool, o forse solo più triste.

L’evolversi di questi sviluppi non è chiaramente imputabile al solo caso Schiaparelli e a Daniel Roseberry, il quale tra l’altro ha fatto finora un ottimo lavoro, che sono infatti gli ultimi di una lunga, lunghissima fila di candidati. Focalizzarsi però sull’approssimazione con cui anche un paradigma come quello dantesco viene ripreso e stereotipato è utile, almeno per arrivare a delle conclusioni, qui riguardanti una casa d’alta moda: lo straniamento a cui Schiaparelli ci ha abituati nel corso del tempo avrebbe potuto essere riproposto sotto forme e modelli migliori?; e ancora, a livello universale: se si facesse più attenzione al modo con cui ci si approccia al passato, che paradossalmente – avendolo noi in larga parte dimenticato – vediamo spesso come un’avanguardia, si raggiungerebbero risultati più rispettabili, fruibili da una platea di gente e sensibilità più larghe? Anche il Surrealismo, per rimanere in tema, mirava a riformulare ciò che era esistito prima della sua venuta, si affidò al sogno e all’inconscio distruggendo il reale, il passato appunto, e ci riuscì davvero perché quel passato lo conosceva come le sue tasche. Possiamo dire lo stesso anche in questo caso? Può fare paura porci questi interrogativi, ma potrebbe farci anche molto bene.