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Il ministro della Sanità Usa vuole che i social abbiano avvertenze come sigarette e alcol

«Una delle lezioni più importanti che ho imparato alla facoltà di Medicina è stata che in caso di emergenza non puoi permetterti il ​​lusso di aspettare informazioni perfette. Valuti i fatti disponibili, eserciti al meglio le tue capacità di valutazione e agisci rapidamente. La crisi della salute mentale tra i giovani è un’emergenza e i social media sono emersi come un importante contributo. Gli adolescenti che trascorrono più di tre ore al giorno sui social media corrono il doppio del rischio di mostrare sintomi di ansia e depressione e l’utilizzo quotidiano medio in questa fascia di età, nell’estate del 2023, era di 4,8 ore. Inoltre, quasi la metà degli adolescenti afferma che i social media li portano a sentirsi a disagio con il proprio corpo»: così inizia l’editoriale di Vivek H. Murthy pubblicato dal New York Times, dal titolo “Surgeon General: Why I’m Calling for a Warning Label on Social Media Platforms”.

Parole che confermano le teorie a cui Jonathan Haidt ha dedicato il suo bestseller, Anxious Generation, non ancora tradotto in Italia, di cui abbiamo parlato nel nuovo numero di Rivista Studio, che trovate in edicola e nel nostro store, tutto dedicato agli adolescenti di oggi. Riassumendo moltissimo, nel suo libro Haidt sostiene che la responsabilità dell’epidemia di ansia e depressione che ha colpito e continua a colpire gli adolescenti (soprattutto le femmine) è da imputare al fatto che sono la prima generazione cresciuta tra iPad, smartphone e social media, a cui hanno avuto accesso già da piccolissimi. Haidt propone delle soluzioni pratiche che andrebbero adottate da tutti i genitori: vietare l’uso dello smartphone prima dei 14 anni, vietare di aprire account sui social media prima dei 16 anni, vietare del tutto lo smartphone a scuola (anche durante le pause), concedere ai propri figli più indipendenza e libertà di giocare senza supervisione e affidare loro maggiori responsabilità.

Al suo appello adesso si aggiunge quello di Vivek H. Murthy, che sul New York Times sottolinea la gravissima assenza di misure per proteggere i più giovani, e propone di apporre sui social delle etichette come quelle che ci sono sul fumo e sugli alcolici, delle “warning label”, delle avvertenze, che avvisino i genitori dei rischi che corrono sottoponendo i loro figli all’uso precoce di dispositivi e piattaforme.

«La legislazione del Congresso», scrive Murthy, «dovrebbe proteggere i giovani dalle molestie, dagli abusi e dallo sfruttamento online e dall’esposizione alla violenza estrema e ai contenuti sessuali che troppo spesso appaiono nei feed guidati da algoritmi. Le misure dovrebbero impedire alle piattaforme di raccogliere i dati sensibili dei bambini e dovrebbero limitare l’uso di funzionalità come le notifiche push, la riproduzione automatica e lo scorrimento infinito, che sfruttano lo sviluppo del cervello e contribuiscono a un uso eccessivo. Inoltre, le aziende devono essere obbligate a condividere tutti i loro dati sugli effetti sulla salute con scienziati indipendenti e con i cittadini – attualmente non lo fanno – e consentire controlli di sicurezza indipendenti. Mentre le piattaforme sostengono che stanno rendendo i loro prodotti più sicuri, gli americani hanno bisogno di qualcosa di più delle sole parole. Abbiamo bisogno di prove».

Già a maggio, Murthy, che ricopre il ruolo di Surgeon General degli Stati Uniti (il responsabile del governo federale americano in fatto di salute pubblica), aveva lanciato l’allarme sui rischi che i giovanissimi corrono sui social. Un tipo di comunicazioni che in passato ha riguardato le sigarette, l’Aids, l’obesità, la violenza in televisione e nei videogiochi, le armi da fuoco e la solitudine.