Attualità

Sabine Lisicki

Storia (quasi morte e molti miracoli) della tennista tedesca finalista di Wimbledon, che ha eliminato anche Serena Williams.

di Gianluca Didino

Va detto: complice è stata una delle edizioni più sfortunate che Wimbledon ricordi, se è vero che è stato addirittura necessario ammantare di superstizione quel “Black Wednesday” che si è portato via in un solo colpo per infortunio sette ex numeri uno delle classifiche ATP e WTA, tra cui Maria Sharapova, Lleyton Hewitt, Victoria Azarenka, John Isner e Jo-Wilfred Tsonga. Ma quando all’una di pomeriggio di lunedì primo luglio al Center Court sono scese in campo la campionessa in carica Serena Williams e la numero ventitré del mondo Sabine Lisicki erano in pochi a credere che la trentaduenne superstar di Sagingaw nel Michigan avrebbe interrotto la sua straordinaria scia di trentaquattro vittorie consecutive. E non perché la tedesca non fosse un avversario temibile, essendo già arrivata quattro volte ai quarti di finale nel torneo londinese, ma perché con l’Azarenka e la Sharapova fuori dai giochi la strada verso la vittoria sembrava spianata per Serena. Di sicuro non l’avrebbe pensato nessuno quando dopo un primo set vinto 6-2 dalla Lisicki la Williams aveva risposto con 9 game consecutivi chiudendo il secondo 1-6 e portandosi nel terzo sullo 0-3. E invece qualcosa è successo, qualcosa capace di far esplodere Henman Hill di applausi non soddisfatti come quelli che hanno salutato l’uscita di Federer (una manna per un pubblico di tifosi di Murray) ma di stupita incredulità. Eliminando Serena con una straordinaria rimonta fino al 6-4 finale, quella ragazzina tedesca dall’energia incredibile aveva compiuto l’impossibile.

La prima parola che viene in mente guardandola è “ritmo”: un ritmo costante, pulsante, vitale, che ogni tanto si spezza per trasformarsi in qualcosa di disordinato e cacofonico.

Di Sabine Lisicki si comincia a parlare dal giorno dopo, come da copione e come se non fosse già esplosa quattro anni fa per poi essere più volte riscoperta e dimenticata. La ragazza deve ancora compiere ventiquattro anni (lo farà il 22 settembre), è figlia di una coppia di polacchi immigrata in Germania nel 1979 ed è nata a Troisdorf, tra Colonia e Bonn. Come capita spesso a chi arriva ai numeri alti del ranking mondiale, gioca a tennis praticamente da tutta la vita ed è allenata dal padre, che l’ha introdotta allo sport all’età di sette anni e continua a seguirla tuttora in Florida, dove abita. Le quattro volte in cui ha raggiunto i quarti di finale a Wimbledon l’ha sempre fatto battendo le vincitrici del Roland Garros: il fatto che l’erba londinese sia la sua superficie preferita suona come un ricorso storico, se è vero che il suo stile di gioco è stato accostato a quello del “bombardiere” tedesco Boris Becker, che resta tuttora il più giovane vincitore di Wimbledon (a diciassette anni, nel 1985). Che la Lisicki ricordi Becker è vero almeno in parte: ha un gioco aggressivo e una prima di servizio che arriva spesso sopra le 120 miglia orarie, ma al serve-and-volley del grande padre spirituale preferisce un gioco fatto di fendenti angolati acceso ogni tanto da improvvise palle corte. Gioca a tennis con un’energia quasi soprannaturale, che ha a che vedere con l’agonismo tanto quanto con una forma superiore di equilibrio. La prima parola che viene in mente guardandola è “ritmo”: un ritmo costante, pulsante, vitale, che ogni tanto si spezza per trasformarsi in qualcosa di disordinato e cacofonico. Poi, come è successo contro la Williams, si riprende. E a quel punto la macchina da guerra diventa praticamente inarrestabile.

Ogni tennista, come ogni altro sportivo, ha una storia. Non la propria storia biografica o atletica, ma una narrazione che trasmette con il proprio gioco. Così come John McEnroe parlava di genialità individuale e Björn Borg di egualitarismo utopistico, anche i campioni di oggi raccontano la propria versione di sé e del mondo, in parte autonomamente e in parte grazie all’apparato mediatico che li circonda. L’uniformità tennistica dei nostri tempi di cui parla Carlo Magnani nel giustamente citatissimo Filosofia del tennis (Mimesis, 2011) ha forse spinto questo complesso meccanismo a conferire più potere all’interpretazione rispetto al fatto, e basti come esempio la dicotomia ormai classica tra la vitalità di Rafael Nadal e il raziocinio di Roger Federer iniziata nientemeno che da David Foster Wallace. Tuttavia al di sotto del topspin da fondocampo e del dominio della tecnica sul talento restano pur sempre le persone, e non è necessario che arrivino libri come Open (Einaudi, 2012) a spiegarcelo. E dunque, qual è la storia che racconta Sabine Lisicki, che oggi si giocherà la finale del più importante torneo tennistico del mondo? Quella raccontata dalla ventitreenne tedesca è essenzialmente una storia di morte e risurrezione, il racconto di un’onda che sale e che scende, di un ritmo che si spezza e si ritrova per spezzarsi di nuovo, pericolosamente, su un abisso di confusione. E alla fine, quando tutto va bene, torna a pulsare.

Quella raccontata dalla ventitreenne tedesca è essenzialmente una storia di morte e risurrezione, il racconto di un’onda che sale e che scende, di un ritmo che si spezza e si ritrova per spezzarsi di nuovo, pericolosamente, su un abisso di confusione.

Intervistata dopo la vittoria sulla Williams, Sabine Lisicki ha detto di sentirsi contenta soprattutto per essere tornata ad alti livelli dopo il brutto infortunio alla caviglia riportato al primo turno del torneo di Indian Wells nel 2010, che l’aveva fatta piombare dal ventiduesimo posto del ranking WTA alla posizione numero 175. Da quell’episodio la tedesca si era ripresa in maniera eccellente, con uno strabiliante balzo nel corso del 2011 dalla posizione 216 di marzo alla numero 15 di dicembre, dopo essere stata eliminata in semifinale a Wimbledon dalla Sharapova e dopo aver rischiato letteralmente la morte per un’intossicazione alimentare riportata durante il torneo di Pechino. Poi l’onda scende di nuovo: nel 2012 ai quarti di finale del torneo di Charleston, proprio contro Serena Williams, appoggia male la solita caviglia sinistra ed è costretta a lasciare il campo tra le lacrime. Alle Olimpiadi di Londra gioca tra alti e bassi, venendo eliminata agli ottavi sempre da Maria Sharapova, mentre agli US Open esce al primo turno. Stessa cosa capita a Sydney, mentre a Parigi cede al terzo turno alla nostra Sara Errani. E alla fine arriva Wimbledon, la prima finale della sua carriera a un torneo del Grande Slam e la prima a Londra per una donna tedesca da quella persa da Steffi Graf nel 1999 contro Lindsay Davenport.

La storia di infortuni e guarigioni, crolli e risalite non è soltanto parte della normale vita tormentata di un’atleta contemporanea, in un sistema sportivo in cui il corpo viene costantemente spinto oltre i propri limiti: è anche una vera e propria epistemologia che si riflette in ogni partita importante che la tedesca si trova ad affrontare. Battuta la Williams, in semifinale Sabine Lisicki si è trovata un’avversaria altrettanto temibile perché portatrice di un gioco (e di una storia) antitetico rispetto tanto al suo che a quello di Serena: la polacca Agnienszka Radwanska, praticante cattolica, protagonista di spot televisivi per far conoscere la figura di Gesù, esile e veloce come un uccellino, numero quattro al mondo e maestra assoluta di quello che è probabilmente il tennis più intelligente, strategico e calcolatore del circuito femminile contemporaneo. Uno straordinario primo set faceva sperare una rapida risoluzione del match, con la Lisicki che metteva tutta la sua esplosiva energia nel neutralizzare i servizi della polacca, che arrivavano a una velocità dimezzata rispetto ai suoi. Ma ecco che fatalmente il copione si ripete, e questa volta anche per merito della Radwanska che intuisce come il punto forte dell’avversaria sia anche il suo tallone d’Achille: per sconfiggerla bisogna spezzare il ritmo, quell’incessante palpitare che regola il suo tennis e lo colora di tanta straordinaria emotività. In questo Agnienszka è una maestra e, come contro Serena, il 6-4 del primo set si trasforma in un 2-6 del secondo. Ci vogliono due pause, una quantità impressionante di unforced errors e parecchi match-point sbagliati perché Sabine riemerga dall’inferno di confusione in cui è crollata, ma alla fine il ritmo, come per magia, ritorna. Anche di fronte a un’avversaria così ostica il palpitare si fa sempre più intenso, e una partita stupenda si chiude alla fine 9-7 al terzo set.

Oggi alle due del pomeriggio Sabine Lisicki scenderà in campo al Center Court contro Marion Bartoli, classe 1984, francese, numero 15 del ranking e portatrice di un tennis la cui grinta sconfina spesso e volentieri nella selvaggia potenza degli istinti profondi. L’attenzione su Sabine sarà massima: la parola più usata dai commentatori della BBC per definirla è “confident“, “sicura di sé”, una sicurezza che va di pari passo con l’alchimia che la connette a quel battito dell’anima che si esprime nei momenti del suo migliore tennis. Morte e risurrezione sono facce di una stessa medaglia, il fluire e l’interrompersi brusco del battito vitale, lo scomporsi e il ricomporsi della realtà per fare del corpo un emblema di efficienza, armonia, potenza e aggressività. Vedremo cosa capiterà: Marion Bartoli è un’avversaria imprevedibile, e il peso di una finale a Wimbledon potrà avere un’influenza su quella che, la si guardi da dove si vuole, resta pur sempre una ragazza giovane piena di talento e sospesa sulla lama di rasoio di uno straordinario ma (ancora) fragile equilibrio.

 

Foto: Dennis Grombkowski / Getty