Attualità

Rossa terra di Parigi

Prima puntata di un diario dal Roland Garros - L'arrivo a Parigi, i campi austeri, e poi: cosa vuol dire terra rossa? Vuol dire battaglia.

di Fabio Severo

Parigi mi accoglie subito con un cielo apocalittico e una temperatura da torneo indoor, come quelli che si giocano in autunno in Europa, a Stoccolma o Basilea. Non c’è l’atmosfera festosa della vigilia dell’Australian Open, con il sole accecante e i manifesti sin dall’autostrada verso Melbourne, il maxischermo in centro e tutti i tram con i faccioni dei giocatori. Qui il glamour del grande evento si perde nella foschia di una città troppo piena di sé, e in un torneo che non presta il proprio volto a nessuna gloria effimera.

Sul bus dall’aeroporto un uomo sulla sessantina, capelli lunghi grigi e disordinati, giacca di pelle nera, tiene in mano un vecchio libro sulla nascita del cinema sonoro. Sembra un bohémien stagionato, assieme alla compagna che ha circa la stessa età. Lei appare più curata, un caschetto grigio incornicia gli occhi azzurri, porta un paio di orecchini eleganti. Me li immagino mentre fumano sigarette a ripetizione seduti dentro un bistrot dove si cicca per terra, mentre discutono animatamente dell’ultimo film visto, con il trasporto con cui si difendono le grandi idee. Quando i parigini ti dicono che sono andati al cinema lo fanno con il tono di chi è andato a fare qualcosa di importante, mica a passare il tempo. Guardo ancora la coppia di anziani gauchistes e mi trovo a pensare ai diversi modi in cui lasciamo mutare la nostra immagine con il passare del tempo, tra l’ostinazione dell’uomo di voler restare uguale al sé di allora e il gentile ingrigirsi naturale della sua signora.

Qualche panchina, i tavolini dei bar dove si compra un’acqua a 5 euro o una baguette a 10, ma neanche un prato o un piazzale dove rilassarsi un attimo. Quest’anno poi si sono aggiunti il gelo e la pioggia.

Anche il Roland Garros lotta tra la fedeltà alla propria tradizione e il bisogno di cambiare, di modernizzarsi: da qualche anno la Federazione Francese di Tennis sta sviluppando un piano di espansione delle infrastrutture del torneo, dotare il campo centrale Philippe Chatrier di un tetto per ovviare ai capricci meteorologici, costruire un nuovo campo n.1 e ampliare gli spazi verdi di decompressione. Ma il problema è che la struttura si trova accanto alle serre d’Auteuil, patrimonio storico-artistico del paese, e non c’è verso di risolvere la questione senza sconfinare un po’ nei sacri giardini adiacenti. Già alcune associazioni locali sono riuscite a mettere i bastoni tra le ruote bloccando tutto, e proprio alla vigilia del torneo la Federazione ha rilanciato il progetto, che prevede un nuovo stadio proprio dentro i giardini, ma la cui struttura esterna sarebbe composta da serre, a ovviare all’invadenza dell’impianto. Una cintura di fiori ad avvolgere un campo da tennis: una quadratura del cerchio probabilmente solo apparente, che il tempo dirà se potrà o meno accadere.

Fatto sta che l’area del Roland Garros rasenta davvero il claustrofobico: già dall’arrivo in metropolitana si fatica a scorgere dove il tutto si trovi realmente, e non rimane che seguire gli adesivi di palline da tennis incollati a terra che conducono lungo le avenue costeggianti il Bois de Boulogne, dentro cui i campi si nascondono. Superate le famigerate serre d’Auteuil cominciano i varchi di ingresso, e una volta dentro ci si trova di fronte a un dedalo di stradine e piazzette attorno cui sorgono le strutture degli stadi principali e poi i campi secondari. Le mura degli impianti in alcuni punti sembrano quasi sfiorarsi, e non c’è alcuno spazio previsto per i visitatori se non quello per andare da un punto all’altro: qualche panchina, i tavolini dei bar dove si compra un’acqua a 5 euro o una baguette a 10, ma neanche un prato o un piazzale dove rilassarsi un attimo. Quest’anno poi si sono aggiunti il gelo e la pioggia dei giorni delle qualificazioni, una cornice ingrata per assistere a (e disputare) degli incontri di tennis.

Qui si deve giocare alle condizioni del luogo, non è uno di quei tornei minori pieni di soldi e dal clima temperato, fatti per mettere a loro agio i giocatori. Gli incontri vanno avanti sotto l’acqua, i raccattapalle senza neanche un cappellino in testa, mentre capannelli di francesi stanno assiepati a bordo campo, emettendo ruggiti di approvazione per i colpi di giocatori sconosciuti. Se togli al tennis una cornice meteorologica favorevole resta qualcosa di profondamente austero, quasi brutale: i gesti perdono grazia, avvolti nel genius loci espresso dal grigio cemento degli stadi principali, impreziosito solo da merlettature sugli orli superiori. Poi grate metalliche, freddo, umidità. Dal vivo non sembra più neanche intrattenimento, è solo gloria da conquistare a caro prezzo. Persino le statistiche in tempo reale che appaiono sui tabelloni dopo ogni punto giocato (retours gagnant: 6, fautes directes: 13, faute de coup droit: 7) suonano minacciose, come un memento di colpe e meriti.

L’erba è la tradizione, la mistica del tocco e della sensibilità, l’archetipo del terreno di gioco. La terra battuta è un campo di battaglia, dove si depositano tutti i segni del combattimento, sul suolo e sui corpi dei giocatori.

Le superfici del tennis esprimono ognuna un diverso senso del gioco: il cemento appare come un luogo neutro, fatto solo per accogliere il gioco, freddo e senza storia, soprattutto nella sua attuale variante blu scelta per il migliore contrasto con il giallo della pallina visto dalla televisione. L’erba è la tradizione, la mistica del tocco e della sensibilità, l’archetipo del terreno di gioco. La terra battuta è un campo di battaglia, dove si depositano tutti i segni del combattimento, sul suolo e sui corpi dei giocatori. Li vedi quando sbagliano, in maglietta e pantaloncini a dieci gradi di temperatura che guardano per una frazione di secondo nel vuoto, provando a ricacciare indietro il disgusto per tornare a pensare al match, un punto alla volta. Come nell’incontro Schmieldova–Kudryatseva, dove la prima chiude al secondo match point sotto rete, e a meno di un metro di distanza dall’avversaria si china su se stessa e caccia un urlo tremendo, i pugnetti chiusi. Si stringono la mano, l’altra fa un sorriso perplesso. Poi qualcuno passa il tappeto sul campo, a cancellare le tracce.

Mi allontano da questa sofferenza collettiva per andare a seguire il sorteggio del tabellone principale dei singolari femminile e maschile. Al piano inferiore del Museo del Roland Garros, passata un’enorme parete espositiva con centinaia di racchette di tutte le epoche, nel buio della sala si sente la voce del direttore del torneo che con un “Chers amis” apre la cerimonia. «Spero di rimettere la coppa in mano a un francese», dice poi senza remore, con il consueto sciovinismo naturale dei transalpini. Siamo nel trentennale della vittoria di Yannick Noah, ultimo francese a alzare la Coppa dei Moschettieri, e giustamente il direttore poggia le speranze di un popolo sulle spalle del nutrito gruppo di tennisti di media-alta classifica, tutti peraltro dotati di bel gioco, che la Francia possiede. Ma non vincerà mai nessuno di loro, lo sa lui, lo sappiamo noi.

L’atmosfera è da casa d’aste. Un cestello con quattro-cinque bottiglie di Moët & Chandon sotto ghiaccio a attendere la conclusione delle procedure, musichetta di pianoforte mentre dei pallini digitali rotolano sullo schermo andandosi a posizionare nelle varie zone del tabellone, gente che si saluta, ciarla e ridacchia a bassa voce. Qualche “bof” e “oh” sui piazzamenti in tabellone dei francesi, l’unica persona che mi rivolge la parola mi ha scambiato per un altro. Poi vengo parzialmente ripagato dell’attesa sorseggiando calici di champagne, mentre fogli alla mano rifletto sulle implicazioni dei sorteggi appena effettuati.

Piove e la terra assorbe, assorbe, diventa un pantano dove sprofondano i colpi e le caviglie dei giocatori. La palla nel gioco sulla terra non è più un proiettile da indirizzare, diventa un oggetto persecutorio di cui non ci si riesce a liberare.

Roger Federer ha un’autostrada verso la finale: Novak Djokovic e Rafael Nadal sono capitati tutti e due dall’altra parte del tabellone. Aggiungiamo che Andy Murray e Juan Martin del Potro non partecipano per infortunio e al Maestro dalla sua parte, prima della finale, restano solo il francese Jo-Wilfried Tsonga e il gregario di lusso David Ferrer. Tsonga è a forte rischio per la suddetta psicosi patriottica, Ferrer è semplicemente 0-14 con lo svizzero nei confronti diretti. Federer lo trovo che si allena sul Philippe Chatrier col francese Benoit Paire, sotto la pioggia. Dopo un vincente del francese lo sento che urla «Ah, le soleil, le soleil!!», mentre il suo staff sta a bordo campo imbacuccato e lui porta una t-shirt bianca con righe blu orizzontali e taschino, molto rive gauche, mentre parla in francese col compagno di allenamento, svizzero-tedesco con l’allenatore in seconda e inglese col coach vero e proprio. Piove e la terra assorbe, assorbe, e prima che il gioco venga sospeso è già diventata un pantano dove sprofondano i colpi e le caviglie dei giocatori. La palla nel gioco sulla terra non è più un proiettile da indirizzare, diventa un oggetto persecutorio di cui non ci si riesce a liberare, che costringe all’ennesimo allungo, scivolata, colpo.

Vado a seguire qualche conferenza stampa, ma sembrano solo un tappeto sonoro indistinto, non riesco a cogliere una cosa detta che non sia di circostanza. Mi sembra un esercizio simile a osservare per ore un monitor di sorveglianza, cercando di mantenere l’attenzione desta nel caso accada qualcosa in un angolo dell’immagine che scorre sempre uguale. Subito fuori dalla sala conferenze, mentre sto seduto a cincischiare col telefonino mi passano davanti tutti i top player. Faccio fatica a capire il senso profondo dell’ecosistema composto da media, giocatori e p.r. : tutti si danno un tono e conversano amabilmente, tutti sembrano aver fatto buoni studi e puntellano le loro conversazioni enunciando i nomi dei giocatori quasi con uno schiocco di lingua. Come se una piccola magia si producesse ogni volta che uno di quei nomi viene pronunciato, nobilitando qualsiasi cosa dicano.

Poi il giorno dopo c’è il Kids Day, la tradizionale giornata di partitelle e svago alla vigilia degli Slam. Dopo una serie di incontri di un set tra vari giocatori arriva il momento di Bob Sinclair, che fa un dj set nel centrale, con la console posizionata sugli spalti dietro al campo. La situazione è surreale, il campo è vuoto e lo stadio pieno, con l’80% delle persone che neanche balla mentre Sinclair spara a tutto volume la commerciale più cafona che ci sia. Quasi tutti stanno lì solo a passare il tempo, visto il biglietto pagato e la gita fino a Bois de Boulogne, guardando sui maxi schermi i giocatori che a turno fanno finta di divertirsi accanto al dj. Al bar dei giornalisti mi lasciano un Cd omaggio di Sinclair, Paris by Night. La seconda traccia del disco si chiamaGroupie, la sesta Far l’Amore, la tredicesima Samba in Hell.

La domenica comincia il torneo del tabellone principale, dove Federer passeggia sul suo primo turno, anche se nessuno continua a darlo per favorito nella vittoria finale. Anche il suo look in campo è all’insegna dell’understatement, niente colletti principeschi o rifiniture chic, giusto una maglietta azzurrina, per passare inosservato. Il campo Suzanne Lenglen invece ha visto aspre battaglie già in questa prima giornata, con Gilles Simon che ha battuto in cinque set il veterano Lleyton Hewitt dopo aver perso i primi due, e Venus Williams che ha ceduto dopo più di tre ore alla sua forma precaria e alla tigna della polacca Ursula Radwanska. L’architettura brutalista del Lenglen è il teatro perfetto per le battaglie all’ultimo sangue: il freddo del cemento nudo della struttura, il contrasto tra il profilo curvo delle tribune laterali e la secca linea retta di quelle dietro le linee di fondo, gli spalti a picco sul campo.

Ce ne saranno molte altre di battaglie, mancano ancora quattordici giorni alla fine.