Cultura | Fotografia

L’estate in cui Dominique Tarlé fotografò i Rolling Stones

Incontro con il fotografo che nel 1971 riuscì a entrare nella villa in Costa Azzurra dove il gruppo registrava Exile on Main Street restandoci per 6 mesi.

di Enrico Ratto

Tutte le foto sono di Dominique Tarlé

È il 2006 quando i Rolling Stones sostano qualche giorno a Nizza per la tappa del loro tour mondiale riservando interi piani del Palais de la Mediterranée e Ronnie Wood si fa portare su una limousine di fronte al cancello di Villa Nellcôte, incastrata tra la ferrovia e la baia Villefranche sur Mer. Abbassa il finestrino senza scendere, saluta qualcuno che scatta una foto, poi la limo fa inversione a U per tornare al presente.

Era dall’estate del 1971 che gli Stones non si facevano vedere da quelle parti. Ci erano arrivati un po’ perché il sud della Francia è sempre stato un rifugio molto amato da inglesi e americani, un po’ perché il fisco inglese aveva iniziato ad interessarsi alle sterline accumulate da Mick Jagger (formazione London School of Economics) e Keith Richards, per cui l’intero gruppo decise di girare al largo per qualche tempo.

Così, all’inizio degli anni ’70, “Keef” e Anita Pallenberg affittano per due anni questa immensa proprietà appartenuta prima a Samuel Goldenberg, milionario americano sopravvissuto al naufragio del Titanic, e poi ad un armatore che ne fece un giardino botanico con piante arrivate da tutto il mondo. Nessuno di questi dettagli sarebbe diventato storia se gli Stones, temporaneamente in esilio, non si fossero chiusi per un anno e mezzo nelle umide e torride cantine di Villa Nellcôte per registrare il loro disco più elaborato: Exile on Main Street.

E, d’altra parte, niente di tutto questo sarebbe entrato nella leggenda se un fotografo parigino di ventidue anni, Dominique Tarlé, all’inizio dell’estate del 1971 non fosse sceso in Costa Azzurra per suonare al campanello della villa. Sarebbe dovuto restarci una settimana, ci rimase dentro sei mesi. E documentò tutto.

«Per me Villa Nellcôte è stata come la stazione MIR», ci racconta Dominique Tarlé, quando lo incontriamo un sabato pomeriggio a Parigi, nel Marais, in una brasserie a pochi passi dalla sua galleria di riferimento, la Galerie de l’Instant, «per sei mesi è stato un luogo isolato da ogni cosa. Sono arrivato nel sud della Francia con due macchine fotografiche ed uno spazzolino da denti, dopo una settimana Keef mi chiede “ma tu hai tutti i giorni la stessa maglietta?”, così ha aperto il suo guardaroba e mi ha vestito. In questi quarant’anni si è raccontato di tutto su ciò che poteva essere successo a Villa Nellcôte, ma gli Stones sono sempre stati bravi a costruire un immaginario intorno alla loro vita reale».

Un immaginario che, secondo il fotografo, nasce dal vuoto. Già, perché probabilmente è il vuoto ad aver generato queste fotografie, questa musica, tutte le storie vissute e immaginate. «Il vuoto permette la libertà, l’immaginazione, la creazione», riflette Dominique Tarlé, «la base di tutto è stato il vuoto nella cultura degli adolescenti. All’inizio degli anni ’70, nessuno aveva previsto che i ragazzi nati prima della guerra avrebbero avuto il desiderio di vivere un loro specifico momento culturale. Sono stati anni di vuoto. Avevo vent’anni e, sui giornali che compravo ogni settimana, non trovavo nulla che mi appartenesse. Oggi sono un adoratore del vuoto, perché il vuoto è uno spazio di libertà e creatività, se non ci fosse stato il vuoto non avremmo avuto i Rolling Stones. Quando ho sentito che gli Stones si erano trasferiti nel sud della Francia, mi ha affascinato il fatto di poter incontrare un gruppo di inglesi che aveva deciso di costruire una carriera artistica su una musica che non aveva alcun potenziale commerciale, il blues».

Il blues, quel Ventilator Blues che gli Stones mettono insieme nelle cantine della Nellcôte, dove tutto viene registrato in presa diretta, prima di portarlo negli Stati Uniti per ripulirlo. In Francia gli strumenti non sono mai accordati a causa dell’eccessiva umidità, «un inferno che solo Keith Richards poteva trovare un luogo adatto per suonare», dice Dominique Tarlé, «ma anche un luogo di grande gioia. Keef aveva invitato alcuni amici inglesi con i loro figli, in modo che suo figlio Marlon non fosse mai solo. La casa era piena di bambini, saranno stati una mezza dozzina. Questo era l’ambiente, poi le fotografie possono essere interpretate in ogni direzione, ma questa era la realtà che ho vissuto. Sono fotografie che non avevano alcuna destinazione commerciale, non erano state commissionate da nessun giornale e, ancora oggi, non le cedo volentieri, se non per i libri che posso controllare nei dettagli».

Nessuna decadenza, nessun senso di abbandono agli eventi e agli eccessi. Quindi anche quella foto icona di un certo rock, con Keith Richards sdraiato sul pavimento con una chitarra elettrica tra le mani, Anita Pallenberg e le sue gambe sulla sinistra, Gram Parson che osserva, non vuole raccontarci tutto ciò che ci era piaciuto immaginare? «Posso solo dire che era un momento di felicità, nient’altro, tutto era davvero rilassato», racconta Tarlé, «una mattina Anita Pallenberg accompagna Keith all’aeroporto di Nizza, vanno a prendere Eric Clapton. Quando tornano alla Nellcôte, Eric Clapton ha con sé sette chitarre e ne regala una a Keef. Quella chitarra è appartenuta a Muddy Waters, che Keef ascoltava sempre. È stato davvero un bel momento per tutti».

Certo, registrare tutte le notti in una cantina calda ed umida, dedicare un’intera settimana a ciascun pezzo per trovare un ruolo a ogni membro del gruppo senza una vera e propria produzione, non era del tutto in linea con l’approccio strategico di Mick Jagger, molto attento a gestire le correnti e le scelte che avrebbero potuto compromettere il funzionamento di quella macchina perfetta che sono sempre stati gli Stones. «Quando prendevano in mano gli strumenti», ricorda Tarlé, «Mick iniziava a registrare ed archiviare. Voleva poter usare tutto il possibile, “bisogna pur pagarle tutte queste persone”, diceva. La musica di Exile è di Keef e di Gram Parsons. Mick Jagger era inquieto, perché l’idea di Gram era che Keith Richards producesse il suo album solista. Se Keef si fosse lanciato in questa avventura, il modello dei Rolling Stones si sarebbe rotto. Così Mick porta il gruppo fuori dalle cantine della Nellcôte e trasferisce tutto negli Stati Uniti. Il risultato è che in Exile c’è un incontro tra la musica dei bianchi con la musica nera americana, anche all’interno di uno stesso brano. Ma questo era esattamente l’album che Keef e Gram volevano ottenere».

Trasferirsi negli Stati Uniti significa tornare in una dimensione di mercato, e le fotografie di Dominique Tarlé non possono entrare nel progetto. Così la documentazione dei mesi trascorsi alla Nellcôte resta a Parigi, sigillata nella carta 30×50 dell’archivio personale del fotografo, in quel momento è priva del valore commerciale che oggi ha ritrovato grazie alle stampe per i collezionisti.

Per la copertina di Exile on Main Street viene scelto Robert Frank, che dopo il grande lavoro di The Americans è tra i più accreditati fotografi degli Stati Uniti. Il tour americano del 1972 viene seguito da Annie Leibovitz per la rivista Rolling Stone, la quale in molte interviste ricorda come il suo caporedattore le sconsigliò di partire per questo viaggio, ne sarebbe tornata devastata. Sull’aereo degli Stones salgono anche Truman Capote e Jim Marshall per Life. Un tour che frutterà incassi per quattro milioni di dollari, un tour fatto di record, molto americano, molto distante dall’improvvisazione e dall’isolamento dietro l’enorme cancello nero ed il giardino botanico di Villa Nellcôte.

Prima che il gruppo parta definitivamente per gli Stati Uniti, Dominique Tarlé torna a Parigi e fa sviluppare i suoi scatti «Avevo scattato le foto senza mai svilupparle perché non c’era nessun laboratorio di cui avessi fiducia nel sud della Francia», ricorda il fotografo, «una volta ottenute le stampe, sono tornato a Villefranche con una scatola, lì c’erano tutti i negativi, i provini a contatto, le diapositive e le ho mostrate a tutto il gruppo. E ho promesso ai miei amici che le avrei tutelate. Quelle erano le loro foto di famiglia».