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Salvini, compagno di scuola

Intervista a Giovanni Robertini, autore della Solitudine di Matteo, romanzo basato sull’esperienza vera di aver frequentato lo stesso liceo del leader leghista.

di Cristiano de Majo

Foto di Alessandro Treves

Da giovedì 16 luglio si trova in libreria questo libro che potrebbe essere la sorpresa letteraria dell’estate. L’ha scritto un autore tv (Avere vent’anniLe invasioni barbaricheL’InfedeleCarta bianca), ex direttore di Rolling Stone (oltre che collaboratore di Studio), alla sua prima prova romanzesca; il suo primo libro, intitolato L’ultimo party era un bestiario delle professioni creative e culturali. La solitudine di Matteo (Baldini+Castoldi) è un romanzo houellebecqiano che parte da una premessa vera: l’autore ha avuto Matteo Salvini come compagno di liceo, un’esperienza che riporta sul protagonista del libro, Teo, consulente di una casa discografica, alle prese con l’elaborazione del lutto di una separazione. È un romanzo breve, piccolo in un certo senso, ma potente, con dentro molti temi che parlano del nostro presente: la crisi del maschio e della sinistra, il populismo, la nostalgia, sullo sfondo della Milano post Expo che nessuno ha ancora voluto o saputo raccontare dal punto di vista di quella vituperata borghesia radical chic, nemica del capo della Lega. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Com’è nata l’idea del libro?
È nata un anno e mezzo fa, quando il nome di Salvini iniziava a moltiplicare la sua eco ed è nata dalla voglia di indagare due caratteristiche che vedevo in Salvini e che secondo me accomunano molti ex-ragazzi della nostra generazione, che sono l’individualismo e il narcisismo, ma è nata anche per provare a ragionare sul populismo con un romanzo invece che con un saggio. Il populismo vive di emozioni, fa leva sulle emozioni (odio, paura), e allora il tentativo era capire quanto le emozioni (la vita affettiva, la vita privata) potessero avere influito sulla vita politica di un protagonista della scena, che è Matteo Salvini.

E tutto origina dagli anni del liceo.
Sì, ho sentito nominare la parola Lega proprio perché nel mio liceo c’era Matteo Salvini. Non leggevo i giornali come faccio oggi per lavoro, ero anche abbastanza ignorantello, e soprattutto ero conformista, negli anni ’90 andavo in un liceo, il Manzoni di Milano, che era un liceo di sinistra, fortemente connotato, nel senso che per venire accettato dovevi avere un certo dress code anche, i pantaloni di velluto, le Clark’s, la giacca militare che si comprava alla Fiera di Sinigaglia, e quel conformismo era accettato più o meno da tutti, tranne che da due o tre alieni, che avevano catturato la mia attenzione, alieni e anche un po’ punk, lo faccio dire anche da uno dei personaggi del romanzo, punk nel senso che mettersi in una posizione così scomoda e dire io non appartengo al vostro mondo è un gesto quasi punk. Questo secondo me non nasceva da una convinzione politica o ideologica, ma da una pulsione di antipatia per quella comunità di radical chic, ovvero quei ragazzi e ragazze, tutti belli, tutti di zona 1, il famoso popolo della Ztl con cui ce l’ha Salvini, un popolo molto sicuro di sé, giovane, borghese, di sinistra, conformista, che si vestiva tutto uguale e andava alle stesse manifestazioni.

Ma quindi tu ti sentivi un po’ come lui?
No, io ero conformista, diciamo però che sono un borghese mancato. Mia madre dice sempre che se fosse stato vivo mio padre saremmo stati una famiglia ricca, con padre ingegnere e madre psicologa, mentre siamo stati dei piccolo borghesi, non eravamo quelli della canzone degli Afterhours «sabato in barca a vela/lunedì al Leoncavallo». Al Leoncavallo sì, ma in barca a vela non ci si andava.

Che effetto ha avuto quel mondo su Salvini?
Il protagonista del libro, che sta vivendo un momento di crisi dopo una separazione, si immagina una teoria del complotto che associa la fine della sua relazione, tra l’altro con una compagna di liceo, con l’ascesa di Matteo Salvini e si immagina un Matteo Salvini modello Joker, un incel. Cioè uno che, nel periodo fondante dal punto di vista affettivo della propria vita, è stato rifiutato dalle donne che desiderava, quelle donne non guardavano lui che si vestiva con le magliette della Oviesse o la camicia dell’Upim, per loro era una sfigato e questo non essere accettato, esattamente come Joker, gli ha scatenato un disprezzo per quel mondo su cui ha costruito un’identità politica. Il rifiuto di quelle ragazze, nel romanzo, è il primo step che dà a Salvini un’identità politica, dice “non mi vogliono e allora io mi rifugio in un altro mondo”, quel mondo poteva essere Dungeons & Dragons e invece Salvini sceglie la Padania, che è comunque un mondo altro. Insomma, attraverso il romanzo, un po’ di responsabilità la volevo mettere anche sulla mia bolla, come a dire: non è tutta colpa sua.

Visto che te lo chiederanno sicuramente, quindi è una storia vera?
È una storia quasi vera. Come la Bestia di Salvini anche quella è una deformazione della realtà. Ecco, il romanzo è un tentativo di deformare la realtà tenendo dentro delle cose vere.

Tornando al passato, quando è finita la scuola, tu poi Salvini lo hai visto più? Non hai continuato a pensare lui, a immaginare magari che sarebbe diventato qualcuno?
Non ci conoscevamo, io lo vedevo soltanto. In realtà non ho mai pensato che sarebbe diventato qualcuno. Però, lavorando in tv, mi è capitato di incontrarlo come ospite e insieme abbiamo ricordato di avere la stessa prof di italiano, lui non si ricorderà, ma io mi ricordo che l’ho incontrato. La sua ascesa mi ha stupito, soprattutto mi sono sempre chiesto il perché di questa sua battaglia puntuta contro i radical chic, cioè sei di Inganni, che è un quartiere di centro-perifera medio, perché ce l’hai tanto con quel mondo lì? Poi mi sono ricordato che un po’ ce l’avevo anche io quel mondo lì, per il suo voler essere sempre nel giusto.

Sono ripetibili secondo te oggi le condizioni per cui in un liceo politicizzato milanese possa nascere un personaggio come Salvini?
Secondo me no, un po’ perché da dopo la Pantera e le manifestazioni contro la guerra in Iraq, le scuole sono diventate sempre meno politicizzate, e da allora è iniziato un altro riflusso, un po’ perché ai tempi del liceo si diceva che per scopare “o facevi musica o facevi politica”, e adesso probabilmente è diventato “o fai la trap o qualcos’altro”, ma sicuramente non c’è più la politica.

A parte Houellebecq, che è dichiaratamente (a leggere l’esergo) un nume tutelare di questo libro, c’è qualche altro autore, magari italiano, che ha provato a raccontare il populismo usando, per citare le tue parole, le emozioni?
Nei romanzi italiani c’è molta più auto-analisi e quasi sempre, essendo l’autore uno di sinistra, c’è molta auto-analisi sul perché non ce l’abbiamo fatta, pure troppa. Il protagonista del mio libro fa il consulente di un casa discografica che si è data alla trap, perché la trap è la cosa che funziona… All’inizio mi sarebbe venuto più semplice che fosse uno scrittore, poi mi sono reso conto della sfiga che circonda la figura dello scrittore in Italia, nei film, nelle commedie, dove lo scrittore è sempre un po’ zozzo, un po’ sfigato, sovrappeso, abbrutito… per me lo scrittore è quello della Notte di Antonioni, un fico pazzesco che va a delle feste bellissime, per cui mi sono detto che forse non valeva la pena.

Non hai paura che l’ossessione per le donne del protagonista possa infastidire in un momento come questo?
Mi sono posto il problema quando ho iniziato a scrivere. Ma io volevo parlare di scopare. Uno perché il narcisismo e l’individualismo spesso hanno questa base qui. Due perché leggo tantissimi romanzi italiani e mi stava sulle palle che il parlare di sesso lo abbiamo delegato ai trapper e non siamo più capaci di raccontare il sesso etero (penso a Guadagnino che ha raccontato benissimo il sesso omosessuale). Il sesso etero nei romanzi italiani puzza un po’ di sfiga invece. Abbiamo appunto i trapper, o il cantante indie che si strugge e diventa emotivo per qualsiasi cosa. Mi è venuto facile farlo con un personaggio deluso da una storia d’amore. Perché bruciata la steppa del sentimento, il sesso si vede di più. Lo testimoniano tutti i racconti di quelli che dopo che si sono lasciati vanno su Tinder, che magari dopo aver voluto e costruito una famiglia, passano a una roba brutale che è una app per scopare.

Ma hai timore di come le donne leggeranno questo libro?
La prima paura che ho è di ricevere un messaggio che dice “ecco un libro scritto da un uomo che parla di uomini, ci sono solo scrittori uomini, basta, vaffanculo, non ti leggo” così a prescindere.

Se ti dico che è un libro maschile sei d’accordo?
Sì nel senso che è un libro che parla di un uomo innamorato, un po’ deluso, che vorrebbe ritornare con quella donna… non so quanto ci sia di maschile, il protagonista è innamorato di questa Tilla che l’ha lasciato, si perde nell’ossessione per Salvini, cerca di tornare alla vita scopando, però dipende dalla donne, e probabilmente questa dipendenza un po’ drogata è molto maschile.

Avevi paura che mentre scrivevi la stella di Salvini si sarebbe offuscata?
Ho scritto l’ultima parte del libro in pieno Papeete e lo davo per spacciato politicamente, e un pochino così è stato. Ma è più forte di noi, è la nostra generazione di giornalisti che lo tiene in vita perché ha bisogno delle sue cose anche per fare dibattito culturale e malgrado tutto è ancora molto presente nell’immaginario. Salvini è già la statua di se stesso, c’è chi dice che la vuole tirare giù, chi che bisogna tenerla lì.

Pensi che se Salvini leggesse il romanzo ci rimarrebbe male?
Mi sembra che potrebbe fare più male a quella sinistra radical chic che lo odia tanto e che forse all’inizio l’ha preso per una bestia diversa da quella che era.

La prima presentazione del libro si tiene giovedì 16 luglio alle 18.30 da Fuori in via Argelati 40 a Milano con Alberto Piccinini, Luca Bottura e la musica di Leila Rufus