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A lezione di poesia con Robert Frost

A un secolo dall'uscita della sua prima raccolta, con la quale vinse il Pulizter, Adelphi pubblica la più rilevante antologia italiana dedicata alle opere di uno dei grandi poeti americani.

22 Febbraio 2022

Il 1922 è un anno decisivo per la letteratura mondiale. Nel giro di pochi mesi escono La terra desolata di Eliot, l’Ulisse di Joyce, le Elegie duinesi di Rilke, Il castello di Kafka, Sodoma e Gomorra di Proust, solo per citare la proverbiale punta dell’iceberg. Il modernismo tocca il suo zenit. Per la poesia americana l’anno decisivo sembra però essere il seguente. Nel 1923 Wallace Stevens licenzia la sua raccolta d’esordio, Harmonium, che contiene “Sunday Morning”, una delle poesie più belle che vi capiterà di leggere nella vita. Lo stesso anno escono Spring and All di W. C. Williams e New Hampshire di Robert Frost. A praticamente un secolo da quella data, proprio di Frost Adelphi pubblica la prima antologia di una certa rilevanza (le precedenti, una oscura del 1962 a quella mondadoriana dell’88, con traduzione di Giovanni Giudici, erano abbastanza esigue), Fuoco e ghiaccio, a cura di Ottavio Fatica e tradotta (davvero bene) da Silvia Bre.

Frost è nato a San Francisco nel 1874, ma è cresciuto (come Stevens) nel New England. Si diploma, si sposa, fa prima l’operaio poi il maestro di scuola. Nel 1897 si iscrive ad Harvard (come Stevens), dove al tempo insegnavano due tra i maggiori filosofi americani: William James e George Santayana (in The Rock di Stevens c’è una bellissima poesia su un incontro con Santayana a Roma). Frost si interessa soprattutto di letterature classiche. Ha un carattere strano, ombroso, è incline a frequenti depressioni e malattie nervose. Non stringe rapporti con nessuno, lascia Harvard senza alcun titolo e inizia a fare l’allevatore di polli a Derry, nel New Hampshire, dove aveva ereditato un appezzamento di terra. Ha un primo figlio, che muore a quattro anni (dei sei figli che avrà solo due gli sopravviveranno). Il commercio delle uova non va bene e per arrotondare deve riprendere a insegnare a scuola.

Nel 1912 Frost vende la fattoria di Derry, riceve un modesto vitalizio del nonno paterno e sposta l’asse della sua esistenza dedicandosi unicamente alla poesia. Si trasferisce in Inghilterra e pubblica il suo primo libro sulla soglia dei quarant’anni. Lo recensiscono (favorevolmente) Amy Lowell e Ezra Pound. Ne pubblica un secondo. Nel 1915 torna negli Stati Uniti, compra un’altra fattoria, è abbastanza famoso da ricevere inviti per conferenze e incarichi nelle università. Nel 1923 esce, come detto, la sua terza raccolta, New Hampshire, che vince il Pulitzer. Nel giro di pochi anni Frost diventa il poeta più famoso d’America, il Senato vota mozioni augurali per il suo settantacinquesimo e il suo ottantacinquesimo compleanno, nel 1961 John F. Kennedy lo invita a tenere una lettura durante la cerimonia del suo insediamento come presidente, viene mandato in Unione Sovietica per parlare con Chruščëv, finisce in un episodio dei Griffin.

Secondo molti il successo di Frost è dovuto all’apparente semplicità delle sue poesie, tutte di tema rurale e bucolico, seguendo quella linea della letteratura angloamericana che va da Wordsworth a Heaney, e che passa soprattutto per Emerson, il nume tutelare di Frost. I boschi, i ruscelli, le colline, gli uccelli, di questo è fatta la sua scrittura. Il contrasto con lo sperimentalismo e l’avanguardismo della grande poesia di quegli anni, molto spesso incentrata sulla tossicità della vita cittadina e su un’energia formale che manca a Frost, non può essere più netto. In realtà, come dimostrano gli importanti studi di Jarrell e Trilling, Frost è un poeta «terrificante», è il cantore della paura (non so quante sue poesie si intitolano “Fear of” qualcosa) e della mortalità dell’esistente, la sua trasformazione in icona yankee, nel santo protettore della vita genuina della Vecchia America Di Un Tempo, è una sorta di lapsus (a cui, come appare evidente dalle sue dichiarazioni, anche lui ha contribuito).

Ai lettori abituali di poesia capita spesso di avere dei versi o degli spezzoni di versi in testa, che si ripetono come dei motivetti scemi, un jingle, la sigla di una serie o una pubblicità. Personalmente, sono abbastanza ossessionato dall’incipit di una poesia di Montale, che recito a voce bassa, come una liturgia, tutte le volte che torno a casa in motorino:

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera

Un effetto simile me lo fa l’attacco di una delle poesie più famose di Frost, “Stopping by Woods on a Snowing Evening”

Whose woods these are I think I know
His house is in the village though

Bisogna leggere questi versi seguendo la loro scansione metrica. Si tratta di una tetrapodia giambica, ossia nel testo c’è una prima sillaba non accentata (whose) seguita da una accentata (woods), così per quattro volte ogni verso. Il ritmo è perciò saltellante, simile a quello delle filastrocche per bambini (di queste questioni si occupa Paul Chowder, il poeta imbranato del romanzo L’antologista di Nicholson Baker). Frost è un maestro della versificazione. I suoi versi sono incredibilmente memorabili. Usando un’espressione di Rilke, possiamo dire che Frost è uno di quei poeti che «costruisce templi nell’orecchio». E lo fa servendosi molto spesso di parole semplici, di espressioni colloquiali se non gergali, che inserisce in una prosodia altamente elaborata e in una metrica tradizionale, generando una frizione tra senso e suono. La sua immaginazione è di tipo acustico, non di tipo lessicale o metafisico (Stevens). Frost dice di essere l’unico poeta a cantare «the sound of sense». Nelle sue poesie c’è di solito una voce base e una situazione base (rurale, bucolica) che contrastano con il tono e con il metro. La scrittura semplice di Frost è tremendamente ambigua.

Prendiamo sempre “Stopping by Woods on a Snowing Evening”. Si tratta di una specie di sonetto di 16 versi (il meglio Frost lo dà nelle misure brevi) diviso in 4 strofe, dove un io racconta di essersi fermato a contemplare un bosco nel freddo della «notte più buia dell’anno», mentre tornava verso casa a cavallo. Niente di particolare. Le prime tre strofe hanno uno schema rimico curioso (sì, Frost è uno di quei poeti che usa ancora le rime, e lo fa benissimo), cioè aaba bbcb ccdc: il che significa che in ogni strofa c’è un solo suono che si ripete alla fine di ogni verso, fatta esclusione per il terzo, che anticipa la rima della strofa seguente. Ma nell’ultima strofa il movimento in avanti si ferma, le quattro rime sono uguali, non c’è più dinamismo, l’encefalogramma è piatto: dddd.

The woods are lovely, dark and deep,
But I have promises to keep,
And miles to go before I sleep,
And miles to go before I sleep.

Questa foto è del 1940. È stata scattata a Key West, in Florida, in un albergo affacciato sull’Atlantico che ha un orrendo nome italiano: Casa Marina. Stevens trascorreva lì molto tempo, prima che la località venisse invasa da artisti e letterati provenienti da ogni parte degli Stati Uniti. È la testimonianza del suo ultimo incontro con Frost. Non so da chi sia stata scattata, forse da Lawrence Thompson, biografo di Frost, da cui il poeta si fece seguire nei suoi ultimi ventitré anni di vita (non so se sia stata una buona idea, visto che Thompson usa ripetutamente una sola parola per definire Frost nel privato: «Mostro»). Frost ha l’aspetto di un druido o di un ex giocatore di football, è uno di quegli uomini che invecchiando finiscono per avere il volto simile alla corteccia di un albero. Le sue rughe hanno qualcosa di vegetale. L’aspetto di Stevens è invece una proiezione ortogonale della sua vita, assomiglia a quello che è: un pingue assicuratore con problemi di alcolismo. La foto ha qualcosa di statico e di innaturale, come se i due poeti non stessero davvero insieme, e le loro due sagome fossero state photoshoppate in modo da sembrare vicine, in un deepfake ante-litteram.

I due si erano già incontrati 5 anni prima, sempre a Key West. Nonostante Frost avesse più volte detto di non essere interessato alla poesia di Stevens, «non mi piacciono le poesie che mi fanno pensare», Stevens lo invita a cena. Frost ha vinto già due premi Pulitzer (ne vincerà in totale quattro, nessun altro poeta riuscirà a eguagliarlo), Stevens è rimasto fermo alla sua prima raccolta, Harmonium. Prima della cena c’è un cocktail party nell’albergo e Stevens, come sempre, beve troppo. Scrive ad Harriet Monroe, la direttrice di Poetry, che teme che Frost si sia scandalizzato e che dopo averlo visto abbia fatto degli esorcismi per purificarsi. Frost pochi giorni dopo tiene una conferenza all’Università di Miami, e la apre criticando Stevens e il suo alcolismo. Dopo invia una lettera di scuse a Stevens, giustificandosi per il suo comportamento (era solo un gioco), aggiungendo che il loro incontro era andato piuttosto bene e che le sue (di Stevens) condizioni non erano poi così pessime. «Mi creda, non c’è stato nessun conflitto ma un simpatico pari e patta […]. Se io sono più didascalico (sono più rurale), lei è un po’ dirigenziale [executive]. Tanto meglio. Questo ci salva dall’essere letterari e dall’esibire parole fatte di parole». Nel 1954 Stevens viene invitato a tenere una lettura per l’ottantesimo compleanno di Frost, ma risponde di non conoscere sufficientemente bene la sua opera per poterne parlare in pubblico.

La poesia che dà il titolo all’antologia adelphiana, Fuoco e ghiaccio, è tratta, come “Stopping by Woods”, da New Hampshire, senza dubbio la raccolta migliore di Frost. Successivamente ne pubblica diverse altre, ma la sua carriera di fatto si ferma agli anni ’40, con il libro Steeple Bush.

C’è chi dice che il mondo finirà col fuoco
e chi col ghiaccio.
Per ciò che ho assaporato io del desiderio
sto con chi tiene per il fuoco.
Ma dovesse perire per due volte
so di sapere dell’odio a sufficienza
da dire che a distruggere
anche il ghiaccio va bene
e basterebbe.

Questa poesia mi fa venire in mente un sacco di cose: Eliot («Così il mondo finisce/non con uno schianto ma con un piagnisteo»), Montale («L’angosciante questione/se sia a freddo o a caldo l’ispirazione»), ma soprattutto un frammento di Sofocle che ha analizzato Anne Carson in Eros the Bittersweet (la sua tesi di dottorato). Il frammento paragona il desiderio al ghiaccio che si scioglie. Sofocle descrive dei bambini prendere in mano un cristallo di ghiaccio. I bambini trovano piacevole la sensazione di per sé dolorosa di stringere nel proprio palmo il pezzo di ghiaccio (il ghiaccio brucia). Poi il ghiaccio comincia a sciogliersi per via del sole e del calore corporeo (il fuoco). È in uno stato non propriamente liquido e non propriamente solido. Non si può continuare a tenerlo in mano e nemmeno posarlo su qualche superficie. Secondo Sofocle è questa la condizione di colui che desidera, incapace tanto di agire quanto di non agire. A me invece questa descrizione fa venire in mente l’ambiguità di Frost, il carattere viscoso, lugubre e insieme vitale (un virus sonoro che si propaga) della sua poesia.

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