Una ragazza in un pub il 20 marzo 2020 a Londra, poco prima dell’annuncio di Boris Johnson sulla chiusura di bar, pub, ristoranti e caffetterie per frenare la diffusione di Covid-19 (Foto di Peter Summers / Getty Images)
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Vita e morte dei pub inglesi
Oggetto di gentrificazione o simboli della Brexit, sabato 4 luglio riaprono dopo il lockdown in quello che i tabloid hanno chiamato il “Super Saturday”.
A più di due secoli di distanza da quel celebre 4 luglio, il Regno Unito si appresta a vivere nella stessa data una potente simbologia di cui ha molto bisogno per scorgere la coda di un’epidemia di cui non si vede la fine. Uno dei monumenti nazionali per eccellenza: le public houses, luoghi mitici meglio noti nelle fantasie degli adolescenti di tre quarti di mondo come pub, vengono autorizzati alla riapertura, seppur in veste diversa dal pre-covid. Il bancone non potrà essere circondato né dagli sgabelli di regulars alla ricerca di una voce amica da sfottere né da clienti in coda per le ordinazioni. La prenotazione dei tavoli sarà incentivata se non obbligatoria, per sommo sbigottimento di chi contattava il proprio pub solo causa smarrimento di chiavi di casa o carte di credito. Non è chiarissimo cosa accadrà con la musica di sottofondo: è proibita la riproduzione di loud music e urla e cori da stadio o arena sono disincentivati. E comunque sì, hanno davvero deciso di interrompere un’astinenza di tre mesi e mezzo e riaprire i pub di sabato. Quei crudi barometri di sentimento popolare che sono i tabloid ormai parlano apertamente in gergo sportivo di Super Saturday, così tanto per continuare a vellicare lo spirito del fanciullino pascoliano che alberga in ogni autentico inglese. È ancora freschissima quella prima pagina in cui il paventato dramma dei bar serrati fino addirittura a Natale sovrastava la reale e tetra contabilità delle vittime del virus, ma vabbè è il Sun.
Il pub ha sempre mantenuto un’aura da national treasure e di spazio in cui chiunque potesse sentirsi a suo agio. Ricordo con piacere il servizio durante la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi del 2012, una serata in cui moltissimi londinesi scelsero di seguire lo spettacolo dagli schermi ancora rigorosamente anni ’90 dei pub di quartiere invece che nel comfort di casa, a ribadire nel momento di massimo orgoglio nazionale che quegli spazi fossero per tutti. Il pub è tuttora uno spazio di socialità abbastanza affidabile, in particolare pensando alle infinite possibilità di scelta in una metropoli come Londra, ma quel modello di socievolezza che noi italiani chiameremmo di unità nazionale presenta ormai crepe molto estese, non solo nella semplice contabilità del paio di public house a settimana che chiudono le porte per sempre.
Entrando in un locale, spesso la sensazione è la stessa che si prova nel varcare stanze poco abitate in cui le finestre non vengono aperte regolarmente. Che l’aria non circoli appieno è testimoniato da studi recenti che evidenziano la ritrosia della generazione più giovane nel fare serata al bar, persino tra gli universitari. Alcuni chiamano in causa l’ansia e la depressione di una generazione dal futuro ipotecato, molti danno la colpa a Netflix o Prime o anche alle dating app, o magari più semplicemente i ventenni vedono nel bar un retaggio del passato.
La gentrification dei pub
Questa recente frattura generazionale ha rotto lo schema unitario del pub, e in più ne erode naturalmente i margini di profitto, non essendoci a disposizione nuove leve a sufficienza per sostituire gli acciacchi, le defezioni per motivi di salute oppure i ridotti carichi alcolici della vecchia guardia. Per ovviare alla conseguente caduta e in lineare evoluzione con la gentrificazione di varie aree delle principali città, il modello affinato negli ultimi 10-15 anni è quello del gastro-pub, cioè un locale moderno e cosmopolita, dall’arredamento più rifinito e colorato, che abbina ad una lista di bevande alcoliche comunque ricercata un’offerta di cibo che partendo da carni britanniche e dalla rilettura di qualche classico (game, burger, fish and chips, curry) aggiunge un sapore europeo e mediterraneo. La clientela del gastro-pub beve vini continentali, pallidi rosé d’inverno e spritzer d’estate, ossia soda con vino bianco rigorosamente asciutto la cui preferenza viene in genere accordata al Pinot Grigio, il vitigno preferito di coloro a cui non piace il vino.
Nato come modello di successo sul finire degli anni ’90 da quartieri come Primrose Hill e Nothing Hill, il gastro-pub è inesorabilmente avanzato verso quartieri meno pregiati. Un recente documentario che descrive benissimo questa dinamica è The Street, in cui il fotografo Zed Nelson riesce a catturare la dinamica duale del vecchio mondo che scorge con ritrosia il nuovo che avanza. Ed è molto significativo il setting, la strada è Hoxton Street lingua di terreno che collega un modello riuscito di gentrificazione (Shoreditch) verso le contraddizioni della poverissima zona est di Londra e che ospita in brevissima rassegna il cocktail bar dall’estetica dark, il pub tradizionalmente Irish con musica dal vivo ogni sabato, il beer shop di vendita e degustazione e il secolare chiosco dall’estetica da colonia degli anni ’50 che vende solo pie and mash.
Siamo dunque in presenza di uno sbilanciamento generazionale ed estetico che si muove anche lungo le fratture centro/periferia, gentrificazione/tradizione e che abbiamo imparato a conoscere nell’ultimo lustro di ascesa politica e culturale del populismo. È quindi giunto il momento di trattare l’elefante nascosto nella stanza, ossia quel lato di nostalgia magica, rimembranza dei bei tempi andati e mellifluo conservatorismo che ribolliva nel pentolone fino alla bollitura del voto del referendum del 2016 sulla membership dell’Unione Europea. Perché anche attorno ai pub si è creato negli ultimi anni un cordone sanitario che intende preservarne la sacra tradizione.
I pub e la Brexit
I pub di genere nostalgico presentano oggi moltissime caratteristiche distintive di cui vanno parecchio orgogliosi, dall’onnipresente moquette dai temi a rombo e dal colore rosso al juxe-box ibernato dall’anno 1998, dall’angolo riservato alle sfide a freccette al rifiuto totale di preparare cibo, dal landlord/landlady ancora presente a mulinare pinte dietro al bancone all’assenza di birre alla spina di recente generazione figurarsi artigianali, col massimo di esotismo rappresentato dalla Peroni o da propaggini dell’Impero (la canadese Carling, l’australiana Foster’s). Molto dell’appeal presso le fasce di popolazione più tradizionale ruota attorno all’aggettivo proper, parola magica che riempe la bocca e certifica l’adesione dello spirito del pub alle tavole della legge del tempo che fu, e si sa che l’atmosfera è la vera merce principale in vendita. In questo strano tempo ibrido tra la realtà della riapertura e un futuro indefinito verso il ritorno alla normalità, la socialità cameratesca dei pub più tradizionali sarà quella messa più a dura prova dalle restrizioni del distanziamento fisico.
Un passo lungo questa direzione identitaria giunse tramite l’istituzione della CAMRA, acronimo di Campaign for Real Ale che già di per sé sarebbe uno slogan politico totale. È un influente gruppo di pressione che dal 1971 intende difendere i bastioni dell’heritage e del bere alla inglese da diavolerie moderne come la pastorizzazione e la gasatura del fusto di birra, e che redige ogni anno un’utilissima lista dei pub selezionati nella promozione della bevanda. Senza entrare in troppi tecnicismi, i tradizionali fusti della real ale sono meno capienti ma più capricciosi e laboriosi di quelli della lager o delle birre artigianali più moderne, e la spillatura del liquido avviene tramite semplice aspirazione a pompa. La birra viene servita quindi a temperatura quasi ambiente, con pochissima schiuma e dal distintivo colore in genere rossastro, ma in certi casi di contaminazioni con luppoli diversi può spaziare sino al golden. Potete riconoscere nella descrizione la mitica London Pride, famosa per essere ordinata solo da chiunque sosti nella capitale da non più di 48 ore. Qualora vi sia piaciuta, benvenuti nel mondo di Nigel Farage, condottiero della Brexit e quindi naturalmente paladino delle real ales e del loro sapore vittoriano. Le mappe di distribuzione del voto sono pienamente sovrapponibili alla resistenza dei pub più tradizionalisti nei quartieri periferici delle grandi città o nelle regioni più ad est dal Durham al Kent, e certamente la moquette rossa del pub sarebbe stata una bandiera molto più identitaria della Union Jack di un regno mai così disunito.
Nel periodo del lockdown, durante il quale il percorso casa-supermercato ci ha costantemente mostrato madeleine in abbandono dei nostri luoghi preferiti in città ormai conquistate dai modelli al ribasso della gig economy, alcuni pub si sono reinventati per offrire surrogati di socialità. Iniziata la bella stagione e sfruttando la regolamentazione molto blanda della quarantena, la svolta per tenere botta con un servizio take-away è stata la prossimità ad un parco pubblico. Chi era impossibilitato ad azionare di nuovo i fusti nel mondo 1.0, ha organizzato momenti condivisi in cui tenere viva la fiammella tramite aperitivi virtuali e pub quiz su Zoom o semplici ricordi On This Day in una sorta di Almanacco del giorno dopo in stile social, sino al rifugio della vecchia guardia nella parrocchia dei gruppi facebookiani di quartiere o nell’ottimo profilo Instagram @londonpubexplorer dove si sono scambiati episodi passati, antiche denominazioni ed aneddoti sui pub scomparsi o semplicemente caduti alla causa avversa. Per tutti quanti, c’è stata l’improvvisa riscoperta dell’annuncio lasciato alla porta del locale, un messaggio di arrivederci a tempi meno confusi. Forse sono arrivati. O forse no.