Racconto di una giornata passata in attesa del concerto più atteso dell'anno, tra (troppe) birre, merchandise ovunque, Millennial attempati e karaoke continui.
È difficile scrivere un articolo su un qualsiasi aspetto della musica che non trovi qualcuno che lo accoglie con il commento “Ma questa cosa c’è sempre stata”. Come anche questo tipo di commento: c’è sempre stato.
Per cui, è bene premetterlo: le reunion ci sono sempre state, e sono sempre state invocate. A volte anche per gli artisti solisti: i fan avrebbero voluto rivedere David Bowie con gli Spiders From Mars; lui per contro si limitava a riunirsi periodicamente con i produttori Tony Visconti o Brian Eno, per collaborazioni il cui annuncio era accolto da peana e gaudio magno, e i risultati, mmh, un po’ meno. Questo perché la reunion che si rispetti dev’essere sempre un po’ deludente. Altrimenti sarebbe, per molti versi, un affronto alle pagine più gloriose del gruppo, a un periodo di magia irripetibile. Se la magia si ripete facilmente, dove sta la magia?
E tuttavia, un tempo si usava dire “Sono in riunione” per respingere i seccatori, oggi si annuncia la reunion per attrarli, insieme ai loro denari. Ma ora separiamoci dalle ciniche considerazioni commerciali del disincantato lettore moderno: ci riuniremo ad esse dopo la fine dell’articolo. Consideriamo, invece, variabili e costanti, che sono più affascinanti.
Una costante è che ogni gruppo, più degli artisti solisti (… di solito), comporta alte probabilità di scioglimento, che a loro volta comportano alte probabilità di rimpianto, e altre probabilità di resurrezione. Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis Jr. – il Rat Pack – andarono in tour nel 1987, 27 anni dopo la dissoluzione. Che era avvenuta più o meno all’epoca in cui i Platters, in seguito all’arresto (pretestuoso e un po’ razzista) dei quattro cantanti maschi, iniziarono a sfaldarsi, cosa che ispirò a Fred Buscaglione e al suo geniale paroliere Leo Chiosso l’omaggio “Si sono rotti i Platters” (1959): «Chi mi ha rotto i Platters me la pagherà!».
Si inizia sempre dai Beatles
Ma naturalmente, il primo scioglimento traumatico della musica popolare fu quello dei Beatles. La cui reunion però, per diverso tempo, non parve necessaria a nessuno. Né a loro (che con i rispettivi album solisti iniziavano finalmente a vedere quei soldi che prima andavano al “Taxman” o si perdevano “Across The Universe”) né al pubblico: stavano arrivando altre cose, sia nella musica britannica (Led Zeppelin, Elton John, David Bowie, il prog rock) che in quella americana, come gli eroi di Woodstock e la West Coast. Ma proprio per questo, appena entrambi i partiti iniziarono a girare a vuoto, il gruppo che rappresentava entrambi questi schieramenti sfoderò la prima, storica reunion del rock: Crosby, Stills, Nash & Young.
Quattro anni dopo che i quattro cavalieri delle armonie avevano finito di tollerarsi (impresa durata ben dodici mesi), il quartetto al completo si tuffò in un tour all’insegna di milioni (tanti) ed eccessi (tantissimi), ma senza la pazienza necessaria a incidere un altro disco. Cosa che fecero invece nella riunione del 1988, pubblicando American Dream, album che induceva a rivalutare lo spessore musicale di Milli Vanilli e Bananarama, e fu accolto freddamente anche dai vecchi fan, che non potevano esimersi dal notare che in quel momento artisti più giovani (U2, Prince, Guns’n’Roses, Madonna, Tracy Chapman) avevano argomenti più interessanti. Cosa che ci porta a un nuovo corollario.
Infatti, una volta assodato che le reunion sono un sogno antico e che la reunion deludente ha perfettamente le carte in regola, possiamo notare che in taluni periodi nessuno ha particolare necessità di grandi reunion. A metà anni ’90, quando sia i Sex Pistols che i tre Beatles rimasti che gli Eagles si ripresentarono in varie modalità (un tour per i primi, nuove canzoni e una informale jam-session casalinga per i secondi, entrambe le cose per i terzi), il pubblico disse: “Mmmh, okay. Bello rivedervi insieme. Bravi”. Ma non si verificarono scene di isteria collettiva: anche in quel momento, nella musica stavano succedendo tante altre cose, con tutto il rispetto, più interessanti.
Siamo qui riuniti
In quel periodo una tra queste tante cose erano per esempio, gli Oasis. Che 30 anni dopo sono la band che con più forza ha fatto vacillare le certezze che abbiamo snocciolato finora. Malgrado isolate perplessità rapidamente messe a tacere, nel 2025 la rimpatriata dei fratelli Gallagher ha ottenuto quanto negli ultimi anni non era riuscito a Van Halen e Guns’n’Roses, Fleetwood Mac e Police, Destiny’s Child e Take That, Litfiba e Albano & Romina, il cast di Friends e Boldi & De Sica – e soprattutto, cosa che non guasta, ha ristabilito la sua gerarchia sui Blur. Nessuno ha trovato deludenti i loro concerti, anzi: almeno due generazioni hanno concordato sul fatto che i prezzi dei biglietti fossero anche inferiori all’enormità dell’evento, cioè poter gridare le parole di “Wonderwall”, “Don’t Look Back in Anger” e “Stand By Me“ in presenza dei due brizzolati attaccabrighe.
I tempi sono favorevoli, il terreno è fertile, l’offerta infinita. E in fondo, a parte chi proprio non potrebbe (Wham!, Doors, Nirvana, The Clash, Beastie Boys, Emerson Lake & Palmer), per quante band c’è una linea sottile tra “Non se ne parla” e “Se ne può parlare”? Insomma, secondo voi davvero a David Byrne basta il suo pubblico di nicchia, invece che quello adorante che tirerebbe su coi Talking Heads? Voi dite che Peter Gabriel, appena annunciato il ritorno del suo Womad festival, anche solo per dargli un po’ di visibilità, non metterà nemmeno una telefonata a nemmeno uno dei Genesis? A vostro parere, i Sonic Youth si terranno ancora il muso tanto a lungo? E quanto ai Pixies, cos’hanno di meglio da fare? Gli ABBA non sono più eleganti di persona e da vecchi signori, che come ologrammi? I White Stripes, non vogliono cantarla loro, negli stadi, la loro canzoncina? I REM non si stanno annoiando? Le Spice Girls hanno finito il girl power? Gli altri Smiths trovano Morrissey così insopportabile da… (ok, sì). I Dire Straits sono così ricchi da… (ok, sì). I Rolling Stones non hanno voglia di fare una reunion, visto che non ne hanno fatta nemmeno una in 60 anni, ma che modo di lavorare sarà mai questo. Roger Waters e David Gilmour non potrebbero risolvere le loro difformità di vedute con un great incontro di wrestling trasmesso da Sky? Davvero tutti loro preferiscono annoiarci con retorici, autoindulgenti documentari o ancora peggio, con esasperanti, autoindulgenti biopic?
Il presente sono le reunion
No, amici: sul futuro non possiamo sbilanciarci ma un artista deve vivere nel presente è il presente sono le reunion. In Italia, dove il Riunionificio Ufficiale ha la sua santa sede a Sanremo (solo in questo decennio: Paola & Chiara, Articolo 31, Pooh, Cugini di Campagna, Ricchi e Poveri), ormai per 12 mesi l’anno si rincorrono voci su quali gruppi o gruppuscoli siano sul punto di tornare dall’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto, in un mondo che offre sempre meno ricavi a chi esce dal giro delle ospitate, dal circuito dei mille eventi in cartellone lungo lo Stivale, e dalle playlist. Ecco perché noi, i golosi media, fermentiamo frementi formulando ipotesi: quale granderitorno (tuttattaccato) ci regalerà Carlo Conti? I Righeira, i Matia Bazar, gli Afterhours (di nuovo)? I Maneskin, che un sacco di gente non ha capito che si sono sciolti e continua a insultarli? La Dark Polo Gang, con sitcom su Prime Video a ruota? I Coma_Cose separatisi quest’estate, perché stante che una reunion è inevitabile, perché aspettare? Elio & le Storie Tese, che sono sempre un po’ sciolti un po’ interi? Gli attesissimi messia 883? Calenda & Renzi, la Dc, il Pci, il Psi?
In realtà c’è una generazione e una particolare area umana, che si sta già dimostrando più bisognosa di altre di riunirsi con le proprie illusioni perdute. Sono gli italiani che hanno esultato commossi per la doppia reunion ravvicinata dello stesso nucleo storico di musicisti: CCCP l’anno scorso, e (con tutta probabilità) CSI l’anno prossimo, in un’apoteosi di dividendi rivoluzionari. E d’altra parte, i ritorni di Club Dogo e Co’ Sang sono piaciuti, l’annunciato ri-ri-ritorno dei Litfiba già fa sognare i fans e impazzire i social. Sicché, se avete una rivista indie, non indugiate: iniziate a tirar su visualizzazioni a man bassa diffondendo per primi “voci di corridoio” su una ventilata reunion delle formazioni storiche (…che poi spesso sono tutte da discutere) di 99 Posse, Tiromancino, Sangue Misto, e Bluvertigo. O anche solo di Morgan con sé stesso.
Ma forse tutti questi eterni ritorni e sogni di ritorni ci stanno suggerendo che non sta succedendo nient’altro di eccitante nella musica? Ovviamente no: casomai sta succedendo poco a noi, riverito pubblico. Nella musica succedono sempre cose (… che è un modo di riformulare la frase iniziale: queste cose sono sempre successe) ma pochi riescono ad accorgersene, posto che a pochi interesserebbe. La produzione di massa di suoni piacioni, rimette a effetto e ritmi banali (realizzati, beninteso, da straordinari producer con i loro straordinari telefonini) evoca una languida, intensa nostalgia di un mondo pre-algoritmico che spinge a idealizzare vecchi eroi un po’ imbolsiti anche più di quanto i teenager di oggi idealizzino giovani rapper fantasticamente scarsi o fotomodelli pop in stato di lagna permanente. Per loro fortuna, i ragazzi del 2025 non coltivano l’illusione di poter un giorno dire, come Bruce Springsteen, «Da un disco di 3 minuti imparavamo più di quanto imparavamo a scuola»: il loro attaccamento ai simulacri contemporanei non è paragonabile all’investimento profondo delle generazioni precedenti nella musica e nello spettacolo in generale. E per contro, nessuno dei nuovi idoli è realmente interessato ad alzare l’asticella, se è troppo lontana dai soldi. Così, tranquilli: gli under 25 non moriranno di reunion. In compenso, noi sì.
