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Il mistero buffo dei CCCP

La mostra Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024 prova a svelare la verità sulla band: non un gruppo punk né di militanza comunista, ma un progetto etico ed estetico.

di Jacopo Bedussi

La notevole mostra Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024, che celebra i 40 anni del gruppo in corso fino all’11 febbraio ai fenomenali Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia ha ridato la stura all’eccitazione polarizzante che ammanta praticamente da sempre i CCCP, e ha riportato alla ribalta pensieri, parole, opere e opinioni sui protagonisti di quell’esperienza: il vate Giovanni Lindo Ferretti, il nerd Massimo Zamboni, Annarella Giudici benemerita soubrette e Fatur l’artista del popolo.

Per qualcuno il punk è grande e Ferretti è il suo profeta. Per qualcuno i CCCP sono una truffa e Giovanni Lindo Ferretti è un truffatore. Per qualcuno i CCCP sono stati un inarrivabile unicum e poi Ferretti è stato un traditore. Per qualcuno il genius loci. Per qualcuno, qualcuno era comunista. Per qualcuno il nichilismo emiliano. Per tutti, comunque, sembra trattarsi di un qualcosa da prendere molto sul serio, carico di una gravitas quintessenziale. Qualcosa di solido, centrale, monolitico, salvifico, esemplare. Ultimo baluardo di un modo di fare pensiero che oggi la corruzione dei consumi, della tecnologia, del bla bla rende un’esperienza irripetibile. E insomma, alla fine, un peana ai tempi in cui la musica era musica e la politica era politica e la militanza era militanza e la verità era veramente vera.

In un pezzo su Pangea, Federico Mosso scrive «Ascolterò i CCCP fin che campo. Appartengono al passato, certo, ma un passato che diviene patrimonio collettivo per la Nazione ammalata». Ora la questione della verità e dell’autenticità degli intenti narrativi è più interessante da analizzare oggi rispetto al 1984, quando un postmoderno in grande spolvero deflagrava lungo lo Stivale e «sul fianco destro delle patrie sponde s’inscenava la sfilata del desiderio in un missaggio di antiche forme e nuovissime attitudini», per dirla con Tondelli. Forse nel 1984 a nessuno importava davvero cosa fosse vero, cosa fosse sincero e cosa fosse autentico, in un decennio in cui l’indefinitezza e l’inganno e le superfici sembravano più che mai affascinanti e attraenti e specchi in cui intravedere un turbofuturo scintillante e con le mèches.

Ma oggi siamo ossessionati dalla verità, comprensibilmente in un certo senso, visto che gli schermi hanno trasformato quel beccheggiare nell’indefinitezza, nel non-appieno-compreso, in una iperrealtà completamente instaurata, in cui allo stesso tempo è difficilissimo controllare le fonti a causa della sovrabbondanza delle stesse e Gerry Scotti si trasforma su Instagram un giorno in una signora barese e quello successivo in Dawson Leery. È innegabile però che gli autori nel frattempo abbiamo affilato e raffinato le proprie capacità di generare narrazioni che spaziano nel campo sensuale del verosimile, sobillando la nostra ossessione e il nostro terrore nella ricerca della Verità. Se parliamo di capacità di maneggiare lo strumento verosimiglianza, Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamin Labatut e Le schegge di Bret Easton Ellis sono libri infinitamente migliori di A sangue freddo di Capote o anche solo di American Psycho.

Felicitazioni! sembra voler correggere il grande malinteso sui CCCP, di cui parla molto bene anche Ivan Carozzi in un pezzo uscito su Esquire, e cioè che non solo non sono mai stati un gruppo comunista, sebbene per scoprirlo sarebbe bastato leggere ciò che Ferretti ha scritto e detto in lungo e in largo nel corso degli anni, ma anche che l’esperienza dei CCCP è stata un progetto estetico e soprattutto artistico di cui la musica non era che una parte. Provocatoriamente verrebbe da dire, nemmeno la parte centrale. Tutto era più che mai limpido nelle parole di Ferretti stesso, che già negli anni ’80 dichiarava: «Un anno fa quando decidemmo di usare questo nome ci muoveva solo la voglia di riportare un po’ di equilibrio in un’Europa sempre più e sempre solo filoamericana. Si badi bene il discorso non è mai politico, se non per conseguenza, è estetico ed etico. Siamo filosovietici non perché siamo di sinistra, se mai lo siamo stati, ma perché siamo legati all’esperienza umana da interessi che non esistono, non sono contemplati nell’impero americano e quindi piano piano, a volte con disappunto e sempre in maniera imprevedibile come solo le cose vissute realmente possono essere, ci siamo lasciati affascinare dall’impero sovietico».

Non politico, ma estetico ed etico. Come la mostra stupendamente dimostra. E che proprio per questo non risulta in alcun modo nostalgica o datata. Anzi un’ottima esplorazione del fervore culturale di quel periodo e di cosa fossero gli anni ’80 nella loro versione punk ed emiliana. Come una specie di ideale addendum locale a un’altra grandiosa mostra del 2011 al Victoria and Albert Museum intitolata Postmodernism: Style and Subversion 1970 – 1990. Quello che ci viene restituito è innanzitutto un esperimento teatrale, artistico e divertito, divertitissimo anzi, ed è questo forse l’aspetto più spiazzante per chi la visita senza essersi mai concesso la liberatoria malizia di pensare che in fondo fosse tutto un grande sornionissimo scherzo. Un altro aspetto, se ci si prende il tempo necessario, è lo sfaldarsi della percezione dei CCCP come unicum monolitico. Tra le foto e i ritagli e gli inviti e i manifesti si notano infatti fascinazioni e influenze coeve. Nelle polaroid quasi leather si intuiscono Robert Mapplethorpe e negli oggetti di scena il rigore fantasioso, autarchico e multidisciplinare della House of Beauty and Culture di Judy Blame e sodali. Così come negli abiti di scena si intuiscono echi di Cinzia Ruggeri.

Nei collage si intravedono le sperimentazioni grafiche fiorentine di Superstudio e Archizoom. Le recite di Annarella e Fatur o il filmino indipendente in cui recita un Ferretti che sembra davvero giovanissimo fanno pensare a Derek Jarman e al suo Jubilee. Si ha l’impressione che il grande inganno non fosse insomma intenzionale, che la messinscena fosse agli occhi degli autori così ovvia da potersi permettere di spingere sul pedale della serietà solo per divertirsi un po’ di più. Ma poi forse un pubblico che vedeva il decennio precedente incrinarsi e si sentiva passare velocemente di moda ha intravisto uno spiraglio di rinnovata rilevanza e ci si è aggrappato senza stare a guardare troppo il capello. E poi si sa come vanno queste cose, passano gli anni, e a quel punto nessuno se la sente più di dire che aveva sbagliato.

Chissà cosa succederebbe se si leggessero di più i giornali, come quando sul Corriere intervistarono Guccini per i suoi 80 anni e gli chiesero: Lei cosa vota? E lui «Pd». E prima? «Partito socialista». Non Pci? E lui, magistrale: «Non sono mai stato comunista. Tutti credono che lo sia; ma non è vero. Mi viene da dire, come a quei razzisti che sostengono di avere molti amici di colore, che ho molti amici comunisti». È per non ammettere di essersi sbagliati che nascono le leggende, si è pronti a morire pur di tenersi la ragione. Coi CCCP, per rimanere nel punk, è un po’ come se fosse il gioco di ruolo su larga scala, in versione emiliana, di quel film del 1980 di Julien Temple: The Great Rock ‘n’ Roll Swindle. Un mockumentary sui Sex Pistols in cui Malcolm McLaren racconta di come ha costruito a tavolino i Sex Pistols, e quindi il punk inglese, al solo scopo di promuovere il caos e fare un sacco di soldi alle spalle dei Sid, John, Paul e Steve (che recitano nel film interpretando loro stessi).

Una boutade ironica e situazionista che poi però ha preso piede diventando una versione semiufficiale. Tutti abbiamo conosciuto un amico saputo che al liceo ci ha detto guardandoci sprezzante e con l’aria di chi la sapeva lunga che in realtà i Sex Pistols erano solo marketing. Probabilmente aveva visto il film, oppure, più probabile, aveva parlato con qualcuno che aveva visto il film. Ma così come Sid Vicious e Johnny Rotten, con le magliette con la svastica e con l’armamentario che strizzava l’occhio a un certo fascinating fascism non erano veramente fascisti e nazisti, così Ferretti e Zamboni nonostante le falci e i martelli e l’eloquio colto e poetico, mistico e internazionalista e i santini di Togliatti non erano veramente marxisti-leninisti.

Detto questo non manca una vibrazione emozionante che soggiace a tutta questa storia e che la mostra racconta bene. Una vibrazione sincera e qui sì verrebbe da dirlo, vera, attivata da una tensione verso il Nord Europa. L’amore provinciale per un altrove carico di fascino e possibilità, raggiungibile in macchina. Amore autostradale che i CCCP condividono con il conterraneo illustre, sempre Tondelli, che in Altri Libertini scriveva: «Correggio sta a cinque chilometri dall’inizio dell’autobrennero di Carpi, Modena che è l’autobahn più meravigliosa che c’è perché se ti metti lissù e hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul Mare del Nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una sola curva, entri a Carpi ed esci lassù. Io ci sono affezionato a questo rullo di asfalto perché quando vedo le luci dei casello d’ingresso, luci proprio da granteatro, colorate e montate sul proscenio di ferri luccicanti, con tutte le cabine ordinate e pulite che ti fan sentir bene anche solo a spiarle dalla provinciale, insomma quando le guardo mi succede una gran bella cosa, cioè non mi sento prigioniero di casa mia italiana, che odio, sì odio alla follia tanto che quando avrò tempo e soldi me ne andrò in America, da tutt’altra parte s’intende, però è sempre andar via».

Ferretti per quanto punk e ortodosso e filosovietico e radicalissimo al contrario non odia la sua casa italiana, per lui il nord Europa non è un’alternativa allo status quo. Dice: «Tra Carpi e Berlino c’è un legame speciale, perché a Carpi comincia l’autostrada del Brennero: perciò noi consideravamo Carpi come la periferia estrema di Berlino». In fin dei conti un moderato centrista, e anche molto simpatico.

Foto in copertina: Luigi Ghirri_Villa Pirondini, 1990 © Eredi Luigi Ghirri