Attualità

Renzi vs Bersani

Per prepararsi al dibattito di stasera, l'analisi di una sfida non solo generazionale, in cui c'è in ballo il futuro del Partito Democratico.

di Claudio Cerasa

Questa volta bisogna dire che le storie conteranno fino a un certo punto, e si deve riconoscere che quando gli elettori del centrosinistra si ritroveranno a mettere una “ics” su uno di quei due nomi lì, poco importerà se uno ha fatto il ministro e l’altro il sindaco, se uno è laico e l’altro cattolico, se uno è di Piacenza e l’altro di Firenze, se uno è post-comunista e l’altro post-cattodemocratico o se uno è più grandicello e l’altro magari più giovincello.

Cioè, certo, intendiamoci: nella sfida tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi, e nel duello che il sindaco di Firenze e il segretario del Pd metteranno in scena in vista delle prossime primarie, conterà naturalmente anche tutto questo, e come sempre accade quando si parla di battaglie per la leadership le biografie dei due candidati non potranno non avere un loro peso specifico nell’andare a sedurre gli elettori del centrosinistra – e magari non solo quelli.

Tutto questo è vero, naturalmente, ma questa volta l’impressione è che ci sia qualcosa di diverso nel confronto tra i due principali volti candidati a guidare il centrosinistra alle prossime elezioni. E a guardar bene, e a studiare con un po’ di attenzione il senso della battaglia tra Renzi e Bersani, più che le singole storie dei due duellanti una volta tanto è la Storia che bisogna andare a ripassare per capire cosa c’è in ballo nella super sfida tra il sindaco di Firenze e il segretario del Pd. La Storia, già. E la Storia, su Renzi e Bersani, ci dice tre cose in particolare: una riguarda il rapporto tra i padri e i figli della sinistra; una riguarda la battaglia tra due anime della sinistra e un’altra ancora riguarda invece una data storica per il mondo della sinistra: il 1976.

Riavvolgiamo il nastro, ora, e andiamo a spiegarci con calma.

I padri e figli, dunque. E sì: perché in fondo di questo si tratta, e perché poi di questo si andrà a parlare nel sottotesto delle primarie del Pd. In che senso? Nel senso che in novant’anni di storia comunista e post-comunista è la prima volta che in un partito di (centro)sinistra c’è un figlio che prova a uccidere politicamente il padre. Fino a oggi, tranne piccole ma non decisive eccezioni, le battaglie che si sono combattute per aggiudicarsi la leadership del centrosinistra sono sempre state all’insegna del «non si può succedere al generale De Gaulle», come da famosa battuta di Georges Pompidou; e i figli della sinistra, prima di provare a conquistare la guida del partito, hanno sempre gentilmente aspettato il loro turno e si sono sempre messi in fila cercando di farsi trovare pronti quando puntualmente sarebbe arrivato il loro momento.

In novant’anni di storia di comunismo e post-comunismo, infatti, non si ricorda un solo significativo episodio in cui nel partito un figlio della generazione al comando abbia avuto anche solo l’idea di sfidare i propri padri giusto per provare a vedere l’effetto che faceva. E se a questo poi si aggiunge che in novant’anni di storia di comunismo e post-comunismo nell’unica occasione in cui due leader hanno combattuto davvero per contendersi la leadership i protagonisti sono stati due grandi esponenti della sinistra appartenenti alla stessa generazione politica (D’Alema e Veltroni per guidare il Pds nel 1994) si capisce facilmente perché la sfida tra Renzi e Bersani ha davvero un sapore che va anche al di là delle singole biografie dei due candidati.

Un anno cruciale: il 1975

In un certo senso, poi, a rendere ancora più storica la sfida tra Renzi e Bersani vi è un altro elemento legato proprio alla natura della generazione che il sindaco di Firenze andrà a sfidare ai gazebo delle primarie democratiche. Una generazione, questa, che non si può capire e non si può definire senza andare a ricordare una data particolare per la sinistra italiana: il 1975. Il 1975, come forse si sa, è l’anno in cui è nato il sindaco di Firenze, Renzi, ed è anche un anno particolare perché la Generazione ‘75 è stata la prima che in Italia è andata a votare senza essersi mai ritrovata alle urne il simbolo di nessuno degli storici partiti che hanno fatto parte della Prima Repubblica (né Falce e Martello né Scudo crociato, insomma). Dall’altra parte però il 1975 è anche l’anno in cui nel nostro paese sono via via maturate le condizioni che hanno creato le basi per costituire il primo grande compromesso storico italiano. Il compromesso del 1976, naturalmente: quel compromesso che, in nome dell’emergenza nazionale, ha tentato di portare al governo democristiani e comunisti insieme e quel compromesso che in un certo modo è diventato, a volte inconsciamente e altre volte invece in piena coscienza, parte fondante del Dna politico di un’intera generazione di dirigenti di sinistra.

Una generazione cresciuta all’ombra del grande compromesso berlingueriano e che – come ben raccontato alcuni anni fa in un libro di Andrea Romano (Compagni di scuola, Einaudi) e come ricordato oggi in un altro bel saggio dal politologo Antonio Funiciello (A vita. Come e perché nel Partito Democratico i figli non riescono a uccidere i padri, Donzelli) – ha formato l’attuale classe dirigente del Pd: da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema, da Walter Veltroni a Dario Franceschini, da Anna Finocchiaro a Rosy Bindi e così via.


Una generazione, questa, che a sua volta ha creato le condizioni per un altro compromesso storico, come è in fondo il Pd, ma che si è sempre mossa sul filo di una piccola contraddizione o meglio di un piccolo e forse involontario riflesso pavloviano che ha determinato l’affermazione di una precisa impostazione politica che ancora oggi vive in modo più o meno esplicito nei piani alti del centrosinistra e che si trova alle origini della trasformazione del Pd nello «strumento della riproposizione della vecchia strategia togliattiana, poi berlingueriana, dell’incontro tra (post) comunisti e (post) democristiani» (Funiciello). Dell’«incontro», appunto, e non invece della fusione, e non invece della sintesi e non invece dell’«amalgama», come da storica ammissione di Massimo D’Alema («Siamo un amalgama malriuscito», disse l’ex presidente del Consiglio alla fine del 2008).

In questo senso, dunque, si può dire che lo scontro tra Bersani e Renzi è anche, se non soprattutto, lo scontro tra la generazione del compromesso storico – che vede come unica scelta strategica possibile per la sinistra riorganizzare il campo delle sinistre e costruire poi un’alleanza di governo attraverso un compromesso con chi invece viene delegato a riorganizzare il campo dei moderati – e la generazione dell’amalgama, di chi insomma, chissà se utopicamente o realisticamente, sogna di creare un centrosinistra sintetico, in cui a prevalere non è l’algebra ma l’alchimia politica, intesa come potenziale sintesi, appunto, tra due materie che finora nessuno è riuscito a fondere l’una con l’altra, e a trasformare in oro i due elementi.

La storia della sopravvivenza politica della generazione del compromesso – generazione definita dal post-dalemiano Gianni Cuperlo anche la “generazione degli scatoloni”, ché «da vent’anni si scioglie e fonda partiti, riempiendo e svuotando sedi, in un continuo pellegrinaggio che per quanto giustificato, ha reso difficile l’orientamento degli elettori del centrosinistra» – spiega anche un altro piccolo paradosso della sinistra italiana e del suo rapporto con le nuove generazioni delle classi dirigenti democratiche. Il Pd, infatti, oggi, rispetto ai suoi cugini occidentali, può vantare un primato non di poco conto nel confronto fra le età medie dei parlamentari del resto d’Europa: e tanto per fare qualche esempio i parlamentari del Pd di questa legislatura sono mediamente più giovani sia rispetto ai laburisti inglesi di Ed Miliband (età media più bassa dell’1,9 per cento), sia rispetto ai socialdemocratici tedeschi di Sigmar Gabriel (età media più bassa dell’1,6 per cento) sia rispetto ai socialisti francesi di Hollande (età media più bassa del 4 per cento).

Dunque, leggendo questi dati, potrebbe essere quasi naturale chiedersi come diavolo sia possibile che il partito che in tutta Europa ha prodotto il più radicale processo di rinnovamento dei propri organi parlamentari non abbia prodotto un eguale processo di rinnovamento all’interno del proprio vertice. La risposta più che nei numeri sta ancora una volta nella Storia e la Storia ci dice – lo ricorda ancora Funiciello – che il grande vizio della sinistra italiana è quello di aver assunto negli anni le caratteristiche di una «grande azienda familiare».

«La sinistra italiana subisce e ha subito in termini di dinamicità interna ed esterna il proprio assetto familista e il Pd è l’emblema di un sistema politico bloccato, con flussi elettorali nulli tra i due schieramenti; e se gli altri sono partiti personali il Pd è un partito familiare dove il dominio patronale non è prerogativa del suo leader, ma di una complessa famiglia politica. Se il partito di Berlusconi, quello di Antonio Di Pietro o quello di Beppe Grillo – continua Funiciello – somigliano al piccolo dominio di Crono all’origine dei tempi, unico dio che fagocita i figli per non perdere la sua eterna primizia, così il Pd somiglia al monte Olimpo, la sede di una famiglia di dei che, tra continui litigi e riappacificazioni, governa indisturbata il suo piccolo mondo. E così non può stupire, poi, se questo stesso partito non faccia che cambiar nome, mentre i nomi dei suoi dirigenti restano perennemente gli stessi: caso unico nel mondo, dato che ovunque i nomi dei partiti tendono a conservarsi nel tempo, mentre mutano i nomi dei loro leader, con diversa ma regolare frequenza».

E allora, partendo anche da questi ragionamenti, risulta quasi naturale che il sindaco di Firenze abbia voluto costruire parte della sua campagna contro la generazione dei Bersani e dei D’Alema e dei Veltroni puntando forte sulla critica dello schema della «designazione cooptativa delle leadership del Pd». Le parole tra virgolette finora sono state sintetizzate da Renzi attraverso la declinazione della parola rottamazione ma in realtà nascondono un preciso riferimento culturale a uno dei pilastri del pensiero filosofico moderno: Karl Loewenstein, filosofo tedesco considerato dai modernisti del Pd una sorta di padre spirituale del costituzionalismo riformista della sinistra europea. «Lo schema prevalente della designazione cooptativa della leadership – scrive Loewenstein nel saggio Forme della cooptazione, editore Giuffrè, 1990 – viene meno solo quando la base degli iscritti riesce, con una rivolta di palazzo, a spodestare la dirigenza e ad imporre un proprio gruppo dirigente. Queste rivoluzioni interne ai partiti sono tuttavia rare e sono in genere il segno di un declino o di una crisi del partito da imputarsi al fallimento del gruppo dirigente in carica. Il più delle volte questi conflitti si configurano come contrasti generazionali, ma hanno successo solo se il partito ha ancora una sua vitalità».


Due anime

Il terzo elemento – anch’esso storico – che non si può non considerare nell’andare a osservare con attenzione il senso della battaglia tra Renzi e Bersani riguarda invece un aspetto strettamente culturale che vive all’interno dello scontro tra i due duellanti del Pd, ed è un aspetto che spiega bene quali sono state nel recente passato le conseguenze del mancato duello generazionale tra padri e figli del Pd. Nel centrosinistra, si sa, esiste da sempre una sorta di guerra tra “due sinistre”, una di stampo più moderna e se vogliamo anglo-americana e una invece di stampo più conservatrice e più legata alla tradizione socialdemocratica europea. Nel Pd di oggi, quello a trazione bersaniana, la politica del partito è esplicitamente legata allo stesso ceppo della sinistra europea da cui si sono abbeverati per anni, anni e anni tutti gli altri contenitori politici che hanno preceduto il Pd (Pci-Ds-Pds), e anche per questo non può stupire se una delle critiche forse più sensate che vengono rivolte oggi alla generazione del compromesso storico è quella di non aver avuto nel passato la forza di imprimere al partito una vera e sostanziale rupture ideologica culturale con il passato. Piccoli passi avanti ci sono stati, naturalmente. Piccoli rinnovamenti pure, naturalmente.Piccole rivoluzioni anche, ovviamente; ma mai un vero strappo, e mai un vero tentativo di scardinare la vecchia tradizione e creare una Cosa davvero nuova.

Per questo, se vogliamo, sempre semplificando, lo scontro tra le generazione del compromesso e la generazione Renzi è anche su questo terreno che ci si misura e se c’è oggi un grande argomento sul quale una buona parte della sinistra chiede alla vecchia parte della sinistra di fare un passo in avanti e dar vita a una vera rivoluzione culturale quell’argomento è senza dubbio la politica economica, non a caso cuore del confronto tra il segretario del Pd e il suo giovane sfidante. Sempre in nome del compromesso storico, dunque, una buona parte della generazione di Bersani considera quasi naturale da un lato orientare le politiche economiche del proprio partito verso il suo versante più sinistro e dall’altro lasciare campo libero alle forze centriste per dare loro modo di raccogliere attraverso una politica economica meno sinistra il consenso dell’elettorato moderato. Oggi, anche dal punto di vista lessicale, la strategia del compromesso, anche in campo economico, è resa evidente dal rapporto che il Pd ha con un’espressione chiave di questa fase storica della nostra politica: l’agenda Monti, sublimazione massima, questa, delle suddette “politiche centriste”. E così, seguendo questo ragionamento, il giochino non può che essere chiaro: noi siamo il Pd, siamo una forza di sinistra e non possiamo non dire che l’agenda Monti non è la nostra agenda; loro invece sono l’Udc, sono il terzo polo, sono una forza di centro e non possono non dire che l’agenda Monti è la loro agenda; insieme però, noi che diciamo “nì” all’agenda Monti, e loro che dicono “sì” a quell’agenda, possiamo dar vita a un grande compromesso, metterci insieme e governare finalmente il paese.

Tutto facile e tutto liscio come l’olio. Se non fosse che gli avversari della generazione del compromesso hanno un’idea diversa rispetto a quello che sta accadendo a sinistra in materia di politica economica. «L’esperienza del governo Monti – hanno scritto recentemente Sandro Brusco e Michele Boldrin sul sito “Fermare il declino” in una lettera indirizzata al “Caro compagno che resti nel Pd” – purtroppo sembra essere un déjà vu degli anni ‘90. La sinistra italiana, nel momento in cui è costretta a dover ammettere che l’attuale sistema economico è semplicemente non sostenibile, reagisce restando riluttante e sempre sulla difensiva, e anzichè cogliere l’occasione per fare proposte audaci e pensare profonde riforme nel welfare, nel mercato del lavoro, nella liberalizzazione dei mercati e tante altre cose di cui il paese ha disperatamente bisogno, sceglie la strada della difesa dell’esistente, concedendo di malavoglia e con estrema titubanza soltanto il minimo necessario ad evitare il collasso del paese».

Il Pd e il mondo moderno

Una volta comprese le grandi premesse storiche da tenere a mente per capire il senso della sfida tra Renzi e Bersani non potrà che essere naturale collegare a questi tre concetti cardine tutte le altre micro e macro differenze che esistono all’interno dello scontro tra le due sinistre del Pd. Differenze come la diversa concezione della forma partito che hanno Renzi e Bersani, con il primo che sogna un Pd più liquido e il secondo che insiste sulla necessità di stare bene con i piedi per terra e non perdere per strada la tradizione dei vecchi e solidi e massicci partiti socialdemocratici. Differenze come la diversa concezione della leadership, con Renzi che considera fondamentale per un partito avere dalla sua una leadership carismatica capace di indirizzare in modo deciso la rotta della “ditta” e con Bersani che considera la “ditta” più importante della leadership e non vede di buon occhio i talebani della personalizzazione della politica.

Differenze come la diversa concezione che sia Renzi sia Bersani hanno in merito alla comunicazione di cui deve farsi interprete un partito, con il sindaco di Firenze che vede nel buon e smaliziato utilizzo dei mezzi di comunicazione uno strumento fondamentale per affermare una leadership e far passare un messaggio e con il segretario del Pd che crede che la comunicazione sta alla politica come la finanza sta all’economia, «utili entrambe, buone, indispensabili: ma non possono prendere il comando, non possono dettare il compito!». E infine, per concludere, differenze come i due tipi diversi di Stato che hanno in mente i due principali candidati premier del centrosinistra: con Bersani che considera quasi sovversivi tutti quegli opinionisti, politici e osservatori che credono sia giusto ridimensionare il ruolo dello stato nel nostro paese e prestare in qualche modo più attenzione all’individuo e con Renzi che invece sogna uno stato imprenditore che sappia trasformare le sue scelte in provvedimenti sociali finalizzati ad avvantaggiare l’individuo, e non a fagocitarlo.

Differenze, queste, che costituiscono una parte importante della dialettica interna tra le due piattaforme delle due sinistre ma che non si possono capire fino in fondo senza partire da quello che forse, anche al di là di ogni possibile compromesso storico, costituisce il vero problema storico con cui oggi, in un modo o in un altro, dovranno confrontarsi tanto il sindaco di Firenze quanto il segretario del Pd.

La frase è stata scritta da Tony Blair nel suo libro di memorie, A Journey, e si riferisce alle difficoltà incontrate dall’ex leader dei New Labour quando arrivò al governo. Blair parla del 1997 e parla dell’Inghilterra, ma la frase sembra scritta apposta per capire qualcosa di più sul senso della grande lotta tra i Pd di Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani. «Non eravamo in contatto con il modo moderno. Attiravamo solamente due categorie di persone: coloro che erano tradizionalmente laburisti e coloro che arrivavano al socialismo o alla democrazia sociale seguendo un percorso intellettuali. Molti attivisti delle associazioni sindacali rientravano nella prima categoria; io facevo parte della seconda. Nessuno dei due approcci poteva essere considerato la tendenza più diffusa e anche insieme non arrivavano a raccogliere i consensi necessari per vincere e salire al governo».

E chissà che il vero senso della battaglia tra Renzi e Bersani non sia davvero nascosto in queste righe qui.

 

(Immagini: le foto sono state scattate da Guido Gazzilli all’Assemblea nazionale del Pd. Roma, 14 luglio 2012)