Attualità

Storia della notte che uccise Osama

Un'inchiesta di Sy Hersh dice che gli Stati Uniti hanno mentito sulla fine del capo di al Qaeda. Le obiezioni, il dibattito, perché il New Yorker ha detto no a un premio Pulitzer.

di Davide Piacenza

I fatti, quelli su cui tutti sembrano concordare, dicono che Osama bin Laden, cinquantaquattrenne predicatore saudita e capo incontestato dell’organizzazione terroristica al Qaeda, è stato ucciso da un raid condotto dai Navy Seal e dalla Cia ad Abbottabad, un popoloso centro turistico vicino al confine tra il Pakistan e la regione del Kashmir, nei primi minuti del 2 maggio 2011. Bin Laden, giudicato dalle indagini del Fbi seguite all’11 settembre il primo mandante della strage che uccise poco meno di tremila persone, era sulla lista nera del governo americano fin dai tempi dell’amministrazione Clinton, che aveva cercato di catturarlo in seguito agli attentati alle ambasciate Usa in Africa equatoriale del 1998.

«Buonasera. Stasera posso riferire al popolo americano e al mondo che gli Stati Uniti hanno condotto un’operazione che ha ucciso Osama bin Laden, il leader di al Qaeda, un terrorista responsabile della morte di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti», ha dichiarato Barack Obama quella stessa notte davanti alle telecamere, con la solita voce ferma e uno sguardo impercettibilmente scosso. Bin Laden, il nemico dell’Occidente, la nemesi del mondo libero, era morto. Nella versione ufficiale presentata dalla Casa Bianca il blitz delle forze statunitensi ad Abbottabad è stato condotto all’insaputa delle autorità pachistane, ha visto il saudita soccombere «dopo uno scontro a fuoco» e si è concluso col trasporto del cadavere oltre confine, in una base in Afghanistan, per poi farlo sparire nelle acque del mar Arabico dal pontile della portaerei Carl Vinson.

Osama bin-Laden il 26 maggio 1998 in Afghanistan. (Foto Getty Images)
Osama bin Laden il 26 maggio 1998 in Afghanistan. (Foto Getty Images)

In questi giorni Seymour Hersh, celeberrimo reporter americano, premio Pulitzer nel 1970 per aver scoperto e documentato il massacro di My Lai in Vietnam, ha pubblicato sulla London Review of Books un lungo articolo che confuta largamente la versione ufficiale della cattura del leader di al Qaeda, definita «una storia che avrebbe potuto essere stata scritta da Lewis Carroll». Nella versione di Hersh, la vicenda prende le mosse nell’agosto 2010 all’ambasciata americana di Islamabad, dove un ex funzionario dei servizi segreti pachistani entra in contatto coi colleghi statunitensi con la speranza di poter ottenere i 25 milioni di dollari di taglia promessi nel 2001 a chi avesse consegnato bin Laden. Ma il reportage del giornalista diverge radicalmente dal resoconto governativo su un primo, ineludibile punto: non soltanto il raid americano condotto unilateralmente non risponderebbe alla verità dei fatti, ma quanto successo sarebbe stato, in realtà, il risultato di un accordo a tavolino tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Pakistan. Il governo di quest’ultimo, riporta Hersh, tratteneva bin Laden ad Abbottabad fin dal 2006 con l’appoggio interessato (a mettere bin Laden sotto silenzio, si intende) dei sauditi e – non volendo fare a meno dei cospicui aiuti militari americani da una parte, e cercando di garantirsi «una mano più libera in Afghanistan» dall’altra – avrebbe deciso di scambiarlo.

Il raid americano sarebbe, in realtà, il risultato di un accordo a tavolino tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Pakistan

Nel pezzo di Hersh, Barack Obama è il primo garante di un machiavellico «piano di copertura» originato dalla fretta con cui lo stesso Presidente avrebbe annunciato la cattura di bin Laden: «per quanto Obama abbia ordinato il raid e i Seal l’abbiano portato a termine, molti altri aspetti del resoconto dell’amministrazione sono falsi». Sostanzialmente, dice Seymour Hersh, gli americani offrirono ai pachistani la già citata «mano libera» in Afghanistan, i già detti aiuti, più una serie di benefici personali agli alti ranghi dell’ISI, il servizio di intelligence pachistano che sorvegliava la casa di Abbottabad. Un membro dell’ISI avrebbe guidato personalmente i marines all’interno della suddetta, e bin Laden, lungi dall’avere con sé armi con cui difendersi e tanto meno in grado di farsi scudo con una delle sue donne, come riportato dall’allora responsabile dell’antiterrorismo John Brennan durante una delle prime conferenze stampa – sarebbe stato preso all’improvviso e «fatto a pezzi dal fuoco delle mitragliatrici». Lo stato del cadavere sarebbe perciò stato tale da rendere impossibile la sepoltura in mare. Stando al piano accordato coi pachistani riportato da Hersh, Obama avrebbe dovuto rendere pubblica l’uccisione qualche giorno dopo il raid, parlando di un attacco compiuto coi droni sulle montagne vicino al confine. Le cose, come ricordato, andarono diversamente: per salvare il ruolo dei pachistani, che sarebbe dovuto rimanere segreto, serviva, secondo Hersh, la «copertura» del corriere di Osama bin Laden che la Cia avrebbe tenuto sotto controllo per anni per arrivare al terrorista, ovvero la pista che dalla primavera del 2011 il governo americano ha sempre dichiarato di aver seguito.

Ricapitolando: per il resoconto di Seymour Hersh il raid della sera del 1 maggio 2011 è il frutto di un accordo top secret tra Washington e Islamabad; la Cia non è mai riuscita a risalire a bin Laden tramite un suo faccendiere; i Navy Seal non sono mai stati protagonisti di uno scontro a fuoco con bin Laden; il cadavere del saudita non ha mai raggiunto il fondale del mar Arabico; Barack Obama e la sua amministrazione hanno in ultima analisi mentito «al popolo americano e al mondo». Anche il materiale trovato nel rifugio e catalogato dai servizi, definito in quelle ore da un anonimo funzionario governativo «un tesoro […] la più grande raccolta di documentazione terroristica di sempre», per Hersh non è mai esistito, semplicemente perché bin Laden avrebbe in realtà già ricoperto da tempo un ruolo marginale nell’organizzazione terroristica di cui era leader.

Nelle ultime ore la ricostruzione di Hersh ha fatto aggrottare le sopracciglia a molti, nel mondo dei media e non soltanto. In primis, l’articolo della London Review of Books presenta un problema di fonti: l’unica persona citata con nome e cognome è Assad Durrani, vertice del servizio di intelligence militare pachistano nei primi anni Novanta. Per il resto, le informazioni ottenute dal reporter vengono da «un funzionario dei servizi segreti in pensione che era al corrente delle prime informazioni di intelligence riguardanti la presenza di bin Laden ad Abbottabad» e da non meglio specificati «consulenti» dei servizi americani. Così poco da far scrivere Matthew Rosenberg sulle colonne del New York Times che «non fosse per il nome dell’autore, il sig. Hersh […], l’articolo con ogni probabilità sarebbe stato prontamente messo da parte e avrebbe attirato poca attenzione» (mentre scrivo l’inchiesta di Hersh ha 54 mila condivisioni soltanto su Facebook). Sul magazine di Politico gli fa eco Jack Shafer, per il quale «il pezzo di Hersh non può essere confutato, perché non c’è abbastanza materiale da confutare».

«Non fosse per il nome dell’autore, l’articolo con ogni probabilità avrebbe attirato poca attenzione»

Su Vox, invece, Max Fisher ha passato in rassegna le debolezze e le inconsistenze logiche della versione proposta dal premio Pulitzer: perché, se l’obiettivo auspicato dai pachistani era avere le mani libere in Afghanistan, dopo il raid i rapporti tra Usa e Pakistan sono peggiorati sensibilmente (e non soltanto per quanto concerne la questione afghana)? Perché, da parte dell’intelligence pachistana, voler inscenare un raid che non avrebbe potuto far altro che peggiorare sensibilmente la propria reputazione agli occhi del paese? Perché proprio un raid e non una soluzione più semplice? Perché, se l’accordo con Islamabad era volto all’avvio di un periodo di relazioni tranquille, nel giro di sei mesi i pachistani hanno svelato i nomi di due responsabili dei servizi segreti americani operanti nella loro capitale? Come quando Hegel diceva «se i fatti contraddicono la mia teoria, mi dispiace per i fatti», Hersh affronta preliminarmente queste obiezioni con una logica perlomeno controintuitiva. Prendendo in prestito le parole di Fisher: «Quando i fatti sembrano contraddire le sue affermazioni, la sua risposta è che questo dimostra quant’è complicata la macchinazione».

Non è la prima volta che Seymour Hersh si trova suo malgrado coinvolto in polemiche di questo genere. Tra la fine del 2013 e l’aprile del 2014 aveva pubblicato, sempre sulla prestigiosa London Review of Books, due pezzi che, con fonti anonime corroborate da resoconti di seconda mano, stabilivano che il terribile attacco con armi chimiche avvenuto a Ghouta, in Siria, il 21 agosto 2013 fosse da attribuire non alle forze di Bashar al-Assad ma ai ribelli. Ma quel tipo di munizioni, come dopo poco aveva svelato l’esperto di armi Eliot Higgins, erano usate quotidianamente dall’esercito regolare, non da al-Nusra o altri gruppi legati all’insurrezione siriana. Il New Yorker, dove Hersh firma tuttora pezzi non di reportage, si dice aver rifiutato diverse versioni dell’inchiesta sull’uccisione di bin Laden, «al punto da generare dissapori tra Hersh e il direttore David Remnick» (ancora Fisher su Vox). Sul sito del New York è apparso un commento che svela perché l’articolo non è finito sulla testata di Remnick– in buona sostanza, perché quest’ultimo non si è fidato del suo pluripremiato collaboratore di lungo corso, parrebbe, consigliandogli di «scriverlo su un blog». Alla London Review of Books, in ogni caso, si apprende, non esiste un reparto esclusivamente dedicato al fact-checking. Intanto però tre nuove fonti, di cui una «very senior», hanno confermatoNBC News che i pachistani quella sera sapevano cosa stava succedendo in quella casa ad Abbottabad. Non è detto che la teoria non possa andare improvvisamente d’accordo coi fatti.

Nell’immagine in evidenza: Un poster raffigurante Osama bin Laden a Jakarta, Indonesia. (Ulet Ifansasti/Getty Images)