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Ferito a morte è ancora il romanzo migliore per capire Napoli

Raffaele La Capria è morto a 99 anni: di lui resterà soprattutto il romanzo con il quale vinse lo Strega nel 1961, grande opera del Novecento italiano e chiave ancora attuale per interpretare una città facilmente equivocabile.

di Cristiano de Majo

L’hanno detto e lo diranno tutti che Raffaele La Capria, morto il 26 giugno a 99 anni, è stato uno dei grandi scrittori italiani del Novecento. Meno pacifico, forse, che Ferito a morte sia il più compiuto romanzo moderno (e modernista) della nostra letteratura, cosa di cui invece personalmente sono parecchio convinto. Premio Strega nel 1961, uscito per Bompiani, quando lo scrittore era alla soglia dei quarant’anni, si può dire che sia per il romanzo italiano qualcosa a metà tra il nostro Grande Gatsby e il nostro Ulisse. Sperimentale e non indifferente alle influenze letterarie internazionali, ma nient’affatto illeggibile; intellettuale ma non intellettualistico; stilisticamente esaltante, è non solo il Bildungsroman italiano (programmatico fin dall’epigrafe) per eccellenza, ma anche il testo che ancora oggi resta la migliore chiave per capire una città difficile e facilmente equivocabile come Napoli, e tenersi alla giusta distanza dalle sue illusioni.

Oggi risfogliando qualche sua pagina, dopo aver appreso della morte dello scrittore, sono rimasto quasi turbato da quanto ancora continui a parlarmi. Mentre mi è sembrato strano che i due principali quotidiani italiani abbiano entrambi titolato, quasi con un copia e incolla, “morto lo scrittore che aveva Napoli nell’anima”: ironicamente è un’associazione opposta alla visione nitida, anti-retorica, borghese (nel senso migliore del termine) che lo scrittore ha avuto della città. Anche perché, come nel citatissimo È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, che ad alcuni è sembrata una rilettura quasi pedissequa, in chiave contemporanea, di quel romanzo, Ferito a morte è la storia, che procede attraverso una stratificazione di flashback, di una fuga da Napoli. È la storia dell’occasione mancata di una città di essere normale e delle migliaia di occasioni mancate di chi ci nasce. Ed è, soprattutto, la storia “di chi fugge e di chi resta”, di quelli che riescono a trovare la propria identità solo al di fuori di confini così fagocitanti e di quelli che al contrario non riescono a concepirsi se non dentro la “foresta vergine”. Un confronto che ritorna spesso nelle pagine, come nel dialogo che si svolge sulla spiaggia di Positano («Quando fu? Estate cinquantasei? Cinquantasette?»), tra Massimo, la voce narrante, e Sasà, suo vecchio amico, che rende l’idea alla perfezione:

«Quando mi fu vicino mi domandò: – Sei stato malato?

– No, lavoro a Roma.

Erano tre anni che lavoravo a Roma, tre anni che ero scomparso dalla circolazione, e lui: sei stato malato?».

Fuori dal romanzo, la necessità di stabilire una distanza, non solo per la propria esistenza, ma anche per pulire lo sguardo che serve per raccontare, ha riguardato, oltre allo stesso La Capria, altri importanti scrittori napoletani (Ermanno Rea, Domenico Starnone), per non dire di notissimi artisti, registi, musicisti (Sorrentino, appunto, ma persino Troisi e Pino Daniele), che hanno fatto la storia della cultura della città. Ci si potrebbe spingere a teorizzare che raccontare Napoli nel modo più limpido è possibile solo se ce ne si allontana. La Capria ha raccontato questa condizione, che se non è l’emblema della napoletanità (parola orribile), poco ci manca. E poi l’ha impastata con il rimpianto e la nostalgia, il cielo azzurrissimo a contrasto con le scure profondità marine, le promesse dell’Italia postbellica e il suo eterno provincialismo.

Ovviamente lo scrittore è stato anche molto altro, e questo non è un vero coccodrillo che ne elenca le gesta e le opere, che da quel momento in poi saranno soprattutto fatte di scintille di intelligenza, frammenti, riuscitissimi saggi personali e tentativi narrativi disconosciuti, ma più che altro un invito a rileggere questo romanzo in un momento in cui, da qualche anno, Napoli vive un’ennesima rivalutazione, culturale e turistica. Non ho più avversità verso le stilizzazioni esotiche, verso gli italiani che scoprono Napoli fuori tempo massimo e che ti chiedono perché non sei rimasto lì, mi piacciono sia Liberato che i Nu Genea (e in fondo anche le gaiole di Liberato e i marechià dei Nu Genea potrebbero essere eredità lacapriane), ma se dovessi consigliare una cosa, una sola cosa, per capire Napoli, io direi Ferito a morte.