Cultura | Musica

Su e giù per il Mediterraneo coi Nu Genea

Intervista a Lucio Aquilina e Massimo Di Lena in occasione dell'uscita del loro nuovo album, Bar Mediterraneo e del concerto al Mi Ami del 29 maggio.

di Teresa Bellemo

Foto di Gennaro Canaglia

Esplosi con Nuova Napoli, il loro primo vero disco del 2018, i Nu Genea, con un mix perfetto di influenze, suoni, collaborazioni, sono riusciti a diventare l’etichetta per (ri)definire un genere, una corrente, un luogo dell’anima, Napoli, ma anche quel Bar Mediterraneo, che poi è diventato il titolo perfetto del loro secondo disco. Così come l’immagine un po’ sfocata di certi bar accaldati affacciati sul mare nostrum, anche i pezzi del duo composto da Lucio Aquilina e Massimo Di Lena riescono a dipingere scene di un’estate qualunque tra il Marocco e la Francia o tra l’Italia e la Turchia, mescolando sound, lingue, dialetti e riff in un cocktail che perde le sue influenze in favore di un sapore freschissimo e nuovo. A pochi giorni da questa seconda uscita, i Nu Genea non solo suoneranno con l’intera band sul main stage del Mi Ami festival domenica 29 maggio, ma ne cureranno l’intera line-up. Il progetto di direzione artistica congiunta – chiamato Nu Genea Invite – vede la formazione napoletana coinvolgere il fenomeno disco-pop parigino L’Impératrice e la formazione psichedelica olandese YĪN YĪN.

Il titolo del vostro disco è Bar Mediterraneo. Pensate che il Mediterraneo stia acquisendo una nuova centralità, estetica e culturale?
In un certo senso sì, anche se per noi è stata più una scelta legata alle sonorità a cui ci siamo avvicinati negli ultimi anni, molto legata a Libano, Egitto, Marocco, Algeria. Diciamo che Napoli è al centro del Mediterraneo e dalla sua posizione privilegiata ha da sempre fatto un mix delle sue tante culture. Se sei distratto, ascoltando la musica neomelodica napoletana sembra quasi arabeggiante, turco.

Come mai “Bar”?
Abbiamo voluto dare risalto al concetto di bar che secondo noi è importante. È il luogo di scambio per eccellenza, dove uno straniero entra e interagisce con persone autoctone. È dove ci si confronta attraverso chiacchiere e idee.

Tropicalismo, ritmi africani, beat e funk anni Settanta, tradizione napoletana, araba, la Francia, l’elettronica. Come vi siete avvicinati a questi elementi che possono inizialmente sembrare molto distanti tra loro?
Abbiamo iniziato a comporre musica nel 2006 e avevamo bisogno di allontanarci da quello che facevamo. Scavando nella storia della musica, nei luoghi che abbiamo visitato viaggiando abbiamo scoperto tantissime storie, un’esplorazione che ha avuto un senso non solo musicale ma anche sociologico. In realtà questi mondi sono molto più vicini di quanto uno pensi. Ascoltando tanta musica di quell’epoca ci siamo resi conto che c’erano degli elementi in comune anche se la geografia non aiutava, come nel caso della musica nigeriana e la bossanova.

La vostra è una ricerca continua, appunto, ma molto coerente. Cosa vi appassiona, quando vi rendete conto che qualcosa che state ascoltando o leggendo può diventare parte di un vostro pezzo?
Abbiamo provato a individuare dei fattori ma abbiamo capito che non c’è uno standard. Abbiamo capito però che non ci piacciono i capostipiti o i massimi esponenti di una corrente, come possono essere gli Chic per il funk. Spesso ci capita di appassionarci a derivazioni, esperimenti anche di artisti meno noti, che hanno provato magari a “rifare” un sound ma reinterpretandolo, anche in base agli strumenti che avevano, alle loro stesso bagaglio culturale, alla loro nazionalità. Anche in questo modo secondo noi si evita l’effetto “disco revival” che non ci piace.

Che ne pensate di chi vi accusa di essere “retromaniaci”?
In realtà da parte nostra non c’è voglia di ripetere pedissequamente ciò che veniva fatto qualche decennio fa. Ci piace una certa estetica, per cui in qualche modo proviamo a riprodurla. Anche se si fa il rock si prende ispirazione dai decenni scorsi. Esplorare la musica del passato significa fare una ricerca quasi infinita che non sfocia nella copia ma nel fare nostro ciò che ci piace, per cui il risultato è un mix.

Foto di Gennaro Canaglia

Come nasce solitamente un vostro pezzo? In che modo lo costruite?
Di solito quando torniamo da un viaggio o abbiamo ascoltato qualche disco nasce sempre qualcosa di nuovo. Non c’è una regola. A volte partono giri di basso, a volte ci sono messaggi vocali mandati dal treno da cui si capisce poco o nulla. Quando ci rendiamo conto di fossilizzarci troppo in una routine di lavoro, per ispirarci capita che uno di noi due proponga di cambiare metodo. Tanto poi quando arriviamo in studio mescoliamo tutto, ci facciamo ispirare dagli artisti che suonano insieme a noi.

Quanto è stato importante per la vostra “educazione” crescere a Napoli e perché ve ne siete andati?
Quando ce ne siamo andati avevamo bisogno di un luogo dove essere artista fosse visto con rispetto, come un mestiere e in Italia e a Napoli questo non succede. Avevamo bisogno di poterci esprimere liberamente e abbiamo scelto Berlino perché ce lo permetteva. Quando avevamo 16 anni a Napoli c’era un’esterofilia fortissima, i riferimenti musicali erano sempre internazionali. Oggi più passa il tempo più ci rendiamo conto di quante cose belle ci sono a Napoli che però quando eravamo lì non vedevamo. È una città con una storia allucinante, per questo è stato automatico ritornare a credere nelle nostre origini. Oggi quando andiamo all’estero c’è una risposta importante e ci fa piacere che qualcosa della nostra terra sia accolto in questo modo.

Quanto è stata importante Berlino?
Berlino è un luogo che ci ha dato tanto. Come dicevamo, non ci ha attirato per la sua scena musicale, ma è dove il nostro gruppo ha preso corpo. Volevamo provarci e lì era possibile, anche per gli incontri che abbiamo fatto e ci hanno in qualche modo cambiato la vita. A Napoli non sarebbe stato possibile conoscere Tony Allen per puro caso, fargli sentire le nostre cose e iniziare a lavorare insieme a lui. Nuova Napoli ci ha permesso di entrare in circuiti che prima ci erano preclusi e Berlino ci ha dato la possibilità di essere quello che siamo: se siamo qui oggi è perché abbiamo provato quella nostalgia di casa che rimanendo a Napoli non avremmo provato.

Voi, Napoli Segreta, ma anche Liberato e un certo modo di “riabilitare” alcune sonorità del neomelodico. Napoli sembra essere al centro di un fermento culturale e musicale che pesca a piene mani nella tradizione, nel dialetto, nella “veracità” della città. Cosa ne pensate?
Oggi la gente non vede l’ora di venire a Napoli. Tutti sono curiosi di questo dialetto e chi non lo conosce se ne innamora. Napoli sta diventando un polo culturale, e lo notiamo per tanti tipi differenti di arte, come per il cinema. Nella musica ci sono dei musicisti che hanno sfondato dei muri che prima sembravano invalicabili. Per quanto riguarda noi, questa rinascita ci ha colto di sorpresa. Nuova Napoli era l’album molto intimo di due migranti che volevano raccontare la loro storia. Non volevamo nemmeno fare un tour.

Come mai secondo voi sta accadendo?
Forse oggi c’è molto più coraggio e consapevolezza. Per anni portare avanti le tradizioni non era un qualcosa di sentito in maniera forte e condivisa. Se pensiamo anche soltanto al cibo, qualche anno fa spuntavano ogni settimana dei posti “esterofili”, come gli shop delle patatine olandesi. Ora aprono soltanto friggitorie napoletane, un lavoro di identità che racconta una storia che poi è la stessa della città.

Avete cambiato nome da Nu Guinea a Nu Genea per allontanarvi da una sorta di cultural appropriation. In che modo secondo voi l’arte e la cultura devono e possono farsi contaminare evitando di mancare di rispetto alle culture primigenie?
Non esiste un codice. Non possiamo sapere cos’è e cosa non è appropriazione culturale. Non c’è una regola precisa, a un certo punto ci siamo sentiti che quel termine, “Guinea”, scelto per un motivo un po’ leggero (per la flora rigogliosa dell’isola), portava dentro di sé una carica di pesantezza dovuta a quello che era stato il colonialismo. Per una questione di benessere nostro, per collaborare con persone di tutto il mondo in maniera libera, abbiamo scelto di chiamarci Nu Genea (che si legge con la g dolce, ndr). L’errore potrebbe essere quello di pensare che in risposta a tutto questo uno possa solo fare musica napoletana, ma ovviamente non è così. Noi in quanto società tendiamo a non riflettere su tante cose sulle quali invece sarebbe utile farlo.

Cosa vi piace della scena contemporanea italiana?
Noi siamo in una bolla un po’ nostra, abbiamo dei riferimenti un po’ vintage, però di quello che ci è capitato di ascoltare di attuale ci piace molto Marco Castello, con cui abbiamo collaborato nel disco. Un Battisti reincarnato. Poi ci piacciono Colapesce e Dimartino, qualcosa di Frah Quintale, i Fitness Forever, Studio Murena e una band che ci ha fatto scoprire Jovanotti, i Savana Funk.