Attualità

Raccontare il 1992

Un'intervista ai creatori della serie ambientata nell'anno di Mani Pulite in onda su Sky Atlantic dal 24 marzo.

di Clara Miranda Scherffig

Ho visto i primi due episodi di 1992, la serie coprodotta da Sky Atlantic-Wildside che sarà in onda dal 24 marzo, alla Berlinale, una fredda mattina di febbraio. E un gelido mattino di febbraio è anche quello da cui prende il via la serie: il giorno dell’arresto di Mario Chiesa e l’inizio dell’inchiesta di Tangentopoli. La serie 1992 è firmata da tre “autori” (arruolati finalmente non come semplici sceneggiatori ma come creatori veri e propri di un progetto seriale coeso) e ha il grande pregio di mescolare vicende fittizie con eventi e personaggi storici di quell’anno. Lanciata a proseguire un percorso virtuoso cominciato da Boris, Romanzo Criminale e Gomorra (che condividono il regista Stefano Sollima), 1992 verrà trasmessa da Sky simultaneamente in 5 paesi (tra cui Germania e Inghilterra). Gli autori della serie si dicono stupiti dell’interesse suscitato anche all’estero (io lo sono un po’ meno, perché credo che la qualità sia qualcosa che vada oltre una storia apparentemente “troppo italiana” come quella di Mani Pulite). Quella che segue è una lunga conversazione che abbiamo messo insieme con i tre creatori Alessandro Fabbri, Stefano Sardo e Ludovica Rampoldi.

 

ⓢ Mi raccontate come è avvenuto il processo di ideazione di 1992?
Stefano Sardo: Siamo stati ingaggiati dopo una chiacchierata con Stefano Accorsi e Lorenzo Mieli che stavano pensando di fare una serie che parlasse della situazione politica italiana dagli anni Novanta in poi. C’era l’intenzione di fare una serie che raccontasse la “peggio gioventù” ma non si sapeva ancora che formato avrebbe avuto. Noi volevamo creare il passo di racconto della serialità che ci piace e quindi non raccontare la Storia come la racconta la fiction italiana… volevamo usare la Storia come arena per una serie di concezione contemporanea. Questa decisione ci ha portato a pensare alla possibilità di fare un anno soltanto. E abbiamo scelto il 1992 perché un anno di grande cambiamento, la grande occasione che sembrava esserci in quel momento in Italia.

Alessandro Fabbri: C’era anche l’idea di raccontare l’Italia dal lato dei vincenti, di chi effettivamente ha vinto e dominato in Italia nei decenni successivi. Per cui la Lega Nord, Forza Italia… Questo è stato l’input. Poi da noi tre è nata l’idea di non fare un bignamino di storia, con i personaggi che invecchiano con le parrucche, ma una serie totalmente moderna. E l’idea chiave è stata appunto, concentriamo tutto in un anno.

Ludovica Rampoldi : Abbiamo deciso di zoommare su un anno in particolare e da quello raccontare la rottura: prendere quei dieci mesi come spartiacque e come inizio del cambiamento. Questo è un tipo di narrazione che ti permette di seguire passo passo i personaggi. Se invece fai una saga, la Storia arriva inevitabilmente in primo piano, per cui i personaggi assistono a delle cose invece che essere protagonisti.

ⓢ Un aspetto notevole della serie è che mescola fatti realmente accaduti e avvenimenti di finzione. Stessa cosa avviene con i personaggi. Nel primo episodio c’è questa storia del cinghiale che si aggira per Milano che non ho trovato in nessun archivio di cronaca: presumo che dietro ci sia un approfondito lavoro di ricerca e documentazione storica.
SS: Volevamo creare un romanzo storico, un po’ come Ellroy in American Tabloid: sullo sfondo ci sono Kennedy, Hoover ma di fatto i protagonisti del romanzo sono tre uomini a cavallo tra la legge e la criminalità. Nel nostro caso l’idea era quella di avere protagonisti di invenzione e farli agire in contesti di realtà dell’epoca realistici. Per cui ci siamo dovuti documentare noi moltissimo. Non c’è stato un consulente. Abbiamo incontrato testimoni dell’epoca, fatto chiacchierate con persone di ambienti diversi perché quello che dovevamo restituire era non solo la veridicità dei fatti storici ma anche di costume. Volevamo ricostruire arene diverse: c’era la politica, la televisione, la giustizia, Mani Pulite… Tutte queste realtà dovevamo acquisirle prima e poi costruirle come se fosse uno sfondo naturale, dato per acquisito. Un grande lavoro.

LR: Abbiamo letto un’infinità di libri che affrontavano Tangentopoli da tutti i punti di vista politici. Poi abbiamo incontrato molti protagonisti dell’epoca, che ci hanno fornito delle ricostruzioni anche sentimentali di quei mesi. Più che la cronaca, ci interessava evocare lo spirito del tempo. Volevamo trasmettere quell’elettricità in presa diretta, senza l’amarezza di chi ripensa quei mesi a distanza di vent’anni. I protagonisti sono tutti trentenni che si affacciano sulla Storia d’Italia e riescono finalmente a impattare sui destini del paese. Il sentimento che li pervade è quello della “grande occasione”.

ⓢ I personaggi fittizi non sono solo espedienti narrativi per raccontare la Storia, ma già dai primi due episodi appaiono come figure molto approfondite. Come avete lavorato su questi protagonisti? Sono nati prima loro o le esigenze narrative?
SS: Innanzitutto non volevamo fare dei personaggi che fossero “testimoni” messi lì. Volevamo fare delle grandi storie potenti e la nostra speranza era che queste in qualche modo veicolassero, anche magari tradendolo nella verità storica, il senso di quel periodo storico. Siamo partiti da Mani Pulite, per cui l’idea basica è stata mettere un personaggio nostro a lavorare per Di Pietro, solo che poi dovevamo trovare una ragione profonda – che la sua missione non fosse solamente affiancare Di Pietro. È stata anche la cosa più difficile: a un certo punto abbiamo avuto un’intuizione perché documentandoci è uscita fuori questa storia del sangue infetto e dell’enorme quantità di persone che sono state colpite dalla diffusione di emoderivati infetti. L’episodio di infezione di AIDS, epatite B e C  è una storia vera ma ancora poco conosciuta. C’è ancora un processo in corso. Ci ha dato una chiave molto potente per evitare di fare protagonista Di Pietro e, di fatto, ci sembrava una metafora  semplice ma chiarissima su uno dei mali che affligge l’Italia. Quella storia ti fa toccare con mano cos’è la corruzione. Qui la posta in gioco è la vita delle persone. Questa è stata un po’ la chiave che abbiamo usato per Luca Pastore ma anche per tutti gli altri personaggi. Per Leonardo Notte, che ha una backstory molto complicata e articolata che lo porta ad avere la volontà di partecipare al progetto politico di Forza Italia, e anche Pietro Bosco, di ritorno dalla Guerra del Golfo, il quale entra nella Lega con i suoi scopi e le sue volontà personali.

1992_Stefano_Accorsi_Tea_FalcoAF : Abbiamo pensato di raccontare il futuro mentre questo si stava ancora formando. E quindi i prodromi di quel partito che poi tutti sappiamo dominerà l’Italia, l’inizio di una stagione culminata nel ’94 con la scelta di Berlusconi di entrare in politica. E poi l’altra componente che incarnava lo spirito di stanchezza del popolo italiano nei confronti della “vecchia politica”, il vento di ribellione del Nord – la Lega Nord. Tutto ciò, almeno nelle nostre intenzioni, condito da un’inevitabile ironia drammatica, perché il pubblico poi sa come vanno a finire le cose. Era un territorio molto fertile e difficile da scrivere… più ti documenti, più spunti hai per ogni singolo mese di quell’anno… Che cosa scegli? Come non far risucchiare i personaggi nell’orbita degli eventi storici?  Per esempio la storia del cinghiale è una licenza poetica: ogni tanto per riassumere in un’immagine tante notizie ci serviva qualcosa di potente. Craxi è il cinghiale. Perché non mettere letteralmente la metafora in scena? Come il coyote in Collateral.

ⓢ Il disclaimer all’inizio della serie è emblematico: si sottolinea che le storie narrate sono frutto della fantasia degli autori e che ogni coincidenza è puramente casuale… io mi sono casualmente ritrovata in 1992 nella figlia di Leonardo Notte, che, adolescente, frequenta la scuola steineriana a Milano. Nel 1992 io alla steineriana ci andavo per davvero, e oltre a condividere la classe coi figli di un futuro premier, finii anche io a indossare le pantofoline di feltro e a intrecciare famigerate ceste di vimini, esattamente come si mostra nella serie.
AF: Leo si ritrova in casa questa figlia che ha visto solo due volte e deve mandarla a scuola. Intorno, c’è l’Italia di Berlusconi, lui è affascinato da quel mondo, ammira il Cavaliere e vuole entrare nei ranghi di Publitalia, anche se non ci riesce e rimane un consulente esterno – anche questa è una sottigliezza – però viene chiamato a lavorare a sappiamo cosa. Ci è sembrato naturale che, per una sorta di avvicinamento da lontano, mandasse Viola a quella scuola. Da lì la nostra necessità di scoprire che cosa sia la steineriana, incontri con persone, letture, per dare un lampo di un mondo ancora non raccontato. Allargando il discorso: se fai lo sceneggiatore negli Stati Uniti – e questa è una riflessione alla base di tutto, secondo me – hai dalla tua un immaginario enorme: tanti significati già codificati, a cui attingere, che il pubblico riconosce. In Italia tutto questo manca, per cui non ti appoggi a nulla di già fatto. Ma questo lascia grande spazio alla creatività.

ⓢ In 1992 ci sono la giustizia, i media, lo spettacolo, la politica. Mi è venuto in mente The Wire che concentrava ogni stagione su un aspetto della vita di Baltimora, tipo l’istruzione, il sindacato portuale eccetera. Avete preso in considerazione altri prodotti culturali o straniere per farvi ispirare?
LR: Il romanzo è il rimando più immediato con questo tipo di serialità, e il riferimento è stato innanzitutto American Tabloid. Per quanto mi riguarda poi ci sono Underworld di De Lillo e Vita e destino di Vassilij Grossman – che racconta la battaglia di Stalingrado tramite persone comuni la cui vicenda si intreccia con quella di Stalin, Hitler. Allo stesso modo in Underworld, dove ci sono Hoover, Sinatra eccetera, c’è un personaggio di finzione che è stata grande fonte di ispirazione per Leonardo Notte: Nick Shay, il “manager dei rifiuti”. Il nesso tra pubblicità e spazzatura è evidente: una è la creazione del desiderio, l’altra contiene il guscio vuoto di quel desiderio consumato. Entrambi hanno una grave colpa passata che li tormenta e per entrambi quel passato è una fonte di repulsione ma allo stesso tempo anche un luogo in cui desiderano tornare. Nel mondo anglosassone l’espediente di mescolare personaggi reali con personaggi inventati è molto comune. Da noi crea ancora un clash culturale.

SS: Paradossalmente 1992 ha una struttura narrativa alla Game of Thrones: storie di personaggi diversi che ogni tanto si incrociano ma spesso vagano per conto loro e devono conquistare il regno. Quella che ci ha ispirato di più come possibilità di tono, perché in qualche modo drammatizzava in maniera anche perturbante l’agone politico, è una serie che si chiama Boss, scritta da Farhad Safinia – lo sceneggiatore di Apocalypto – sul sindaco di Chicago che impazzisce a causa di una malattia. Come escalation drammaturgica ci sembrava un esempio da tenere presente e l’abbiamo guardata con più attenzione di altre. Per il resto noi siamo fanatici spettatori di serie… sicuramente quando Leonardo Notte fa quel lungo discorso su Non è la Rai nella sala riunioni di Publitalia qualcuno ha pensato a Don Draper… e quella cosa lì ed è a metà tra una citazione inconscia e un omaggio dichiarato.

ⓢ Un altro elemento secondo me molto importante è il processo di estetizzazione che 1992 mette in atto. In un certo senso avete colpito nel segno con una scena nella sede di Publitalia, con Leonardo Notte (Accorsi) e Dell’Utri (Fabrizio Contri) che guardano dei giganteschi monitor prima di entrare in riunione. È un close up e la granulosità analogica che emerge è proprio la grana di quegli anni.
SS: Uno degli obiettivi estetici della serie era riformalizzare gli anni Novanta. C’è stato fin dall’inizio la volontà di inserire nel racconto elementi che abbiamo scelto come sineddoche di quegli anni. Questi sono diventati il nostro modo di ripensare gli anni Novanta un po’ come gli anni Cinquanta stilizzati di Happy Days negli anni Settanta. Fare la stessa cosa con un’epoca che ci sembrava molto vicina e tutto sommato non diversa, ma con degli stilemi molto riconoscibili. La sceneggiatura è disseminata di elementi di costume come può essere la maglietta di Twin Peaks di Leonardo Notte, i film che danno al cinema in quel periodo, i programmi della televisione… Tutte le canzoni della serie sono uscite nel ’92 e io ho seguito personalmente un lavoro di cernita dei brani che dovevano entrare nella serie: c’è stata tutta una battaglia dei diritti complicata per averli e alcuni (i Nirvana, per fare un esempio) non li abbiamo potuti avere. Non si voleva essere realistici, si voleva ricostruire un’estetica.

AF: Abbiamo deciso che una delle possibilità di “sexyness” della serie sarebbe stato creare questo “effetto nostalgia”. Anche qui mancavano riferimenti di immaginario già elaborati. Quindi abbiamo detto: proviamo a farlo noi. Già fin dalle prime sceneggiature – qui setacciando la cronaca di costume – fai tante scoperte, come uno dei primi modelli di “piccoli” telefoni cellulari (il Motorola usato da Accorsi, nda). E queste scoperte impongono attenzione: al fatto che l’MS-DOS dei computer sia fatto bene, a mille altri dettagli, perché tutto rimandi al gusto dell’epoca. Senza volerla replicare, ma reinterpretandola un po’, sennò ti sembra di vedere un documentario. Scenografa e costumista hanno fatto una ricerca sui colori di moda quell’anno. Siamo arrivati a una palette colori per dare un’identità visiva molto chiara e personale alla serie. Volevamo che 1992 desse la propria versione degli inizi degli anni Novanta. Quando la guardi sai che è quell’anno lì, quella serie lì.

LR: I costumi e le scenografie non vanno in direzione della mimesi, di ricostruzione fedelissima, ma forniscono una re-invenzione degli anni Novanta che fa parte di tutta l’operazione nostalgia che è stata ricostruita. Il costumista Roberto Chiocchi è andato su una strana ma efficace ibridazione con gli anni Quaranta perché si è reso conto che per un periodo del ’92 erano tornati di moda.

ⓢ Parliamo dell’ambientazione: Milano. Io sono milanese e forse anche per questo credo che Milano sia una delle città meno cinematografiche al mondo, anche se alcuni sono riusciti ad attribuirle una qualità estetica (De Sica o Ferreri o i poliziotteschi e recentemente con la Brianza di Virzì). Voi come avete lavorato in questo senso?
LR: Proprio perché non è stata così tanto rappresentata, pensavamo che Milano avesse un grandissimo potenziale cinematografico. Roma ormai è stata vista milioni di volte al cinema. Milano in qualche modo ha una verginità diversa e poi ha degli scorci molto europei. Volevamo raccontare la Milano successiva alla Milano-da-bere celebrata negli Anni 80, una città in cerca di una nuova identità: la cosiddetta capitale morale che diviene improvvisamente l’epicentro della corruzione nazionale.

SS: Poi quando la storia si sposta a Roma per le vicende politiche, l’ambientazione si divide tra Roma e Milano. Però nessuno di noi è milanese, il regista è calabrese trapiantato a Roma. Abbiamo cercato di costruire un’estetica non realistica ma fatta di elementi iconici da un lato e dall’altro abbiamo cercato di fare quello che si ha sempre un po’ pudore di fare nelle nostre serie, e cioè quella di usare le nostre metropoli per raccontare storie come contesti forti e potenti. Poi certe cose volevamo farle e non abbiamo potuto: volevamo andare al Plastic, per esempio, ma non c’era più per cui siamo andati a girare in una discoteca di Roma, per ricreare un locale milanese tipo. La cosa buffa è che 1992 è una serie d’epoca in costume, fa effetto pensarlo.

ⓢ Voi tre avete già lavorato insieme ad altri progetti. Come funziona il processo di scrittura a sei mani?
SS: Lavoriamo molto bene insieme e lo facciamo in un brainstorming continuo. La gran parte del tempo la si impiega nel definire la struttura del racconto. Crediamo molto in una narrazione spettacolare e potente e 1992 è stato un lavoro titanico. Abbiamo scritto ininterrottamente dal 2011. Nel febbraio del 2013 abbiamo cominciato a girare e abbiamo seguito tutte le riprese… Un lavoro di tre anni e mezzo. La nostra idea è raccontare una trilogia che si conclude nel ‘94: primo governo Berlusconi, Di Pietro che si dimette, la Lega che fa il ribaltone… cose fighissime che sembrano naturale orizzonte d’arrivo per i personaggi. Ma la verità è che il lavoro ricomincia sempre da zero: ogni stagione è un altro anno da studiare.

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LR: Prima abbiamo scritto quella che in gergo si chiama “la bibbia”, tutto il racconto della serie. E l’abbiamo consegnata alla Wildside e Sky. C’è stato da parte loro subito un grande entusiasmo. Poi abbiamo proseguito con scalette, trattamenti, sceneggiature. Noi qui abbiamo un ruolo diverso rispetto alle altre serie: non siamo solo gli sceneggiatori ma anche i creatori della serie. Questo significa che abbiamo seguito tutte le fasi delle produzione, dalla scelta anche del regista: Giuseppe Gagliardi era un regista di cui conoscevamo e ammiravamo il lavoro e che abbiamo suggerito alla produzione. Con lui abbiamo seguito tutto il casting, tutte le riprese, tutti i giorni, e anche al montaggio avevamo voce in capitolo. Diciamo che ci siamo ritagliati un ruolo non dico da showrunner, ma per lo meno da “showwalker”, come tra noi diciamo ironicamente: un primo timido ma importante passo verso quel sistema che genera serie interessanti perché preserva un punto di vista unico e integro.

ⓢ Tocca fare la domanda finale sul pubblico, la televisione e la tradizione italiana in materia.
SS: Il nostro sforzo è stato costruire una serie che avremmo voluto vedere, cioè qualcosa che pur raccontando l’Italia non sembrasse appesantito dal realismo come codice estetico, come stilema. Siccome siamo la patria del neorealismo ci siamo ancorati a dei codici estetici che ci obbligano a un pensiero un po’, come dire, low concept, in cui in teoria non ti è concesso costruire un racconto potente perché un racconto potente non si potrebbe ambientare nel nostro mondo. Col risultato che da noi si parla sempre dei contenuti della storia ma mai di come il racconto li organizza, quei contenuti. Come se “la bontà” di un argomento qualificasse automaticamente la forma espressiva. Gomorra alla fine non racconta niente di nuovo dal punto di vista dell’argomento, perché i camorristi li abbiamo visti in tutte le salse, ma la forma espressiva è così ben pensata e il taglio così radicale che tu hai la percezione netta di non aver mai visto quella roba lì. Oltretutto noi con 1992 facciamo una cosa sulla politica italiana, che non si è mai potuta fare per mille ragioni, di fatto l’ultimo ventennio non l’ha raccontato nessuno. Il fatto di raccontare i leghisti era divertente perché per una volta il nostro problema non era raccontare i leghisti o Publitalia con la presa di posizione ideologica pre-racconto, ma semplicemente sposando il loro punto di vista… Del resto tutti i personaggi delle serie che amiamo sono individui moralmente molto ambigui, se pensi a Breaking Bad, Sopranos, Dexter. Perché dobbiamo porci il problema che uno dei nostri protagonisti voti Lega? Non sono importanti le nostre posizioni ideologiche, contano solo la coerenza e la forza dei personaggi. Siamo sempre iper critici, però questo per me è lo sprone a far delle cose, non a dire “non le posso fare qua perché questo paese è irraccontabile”. In Italia ci sono delle cose interessantissime da raccontare.

LR: Ho letto un articolo di un critico del Washington Post che si chiede perché non sappiamo più giudicare i film. Sosteneva che ormai la critica è schiacciata su quello che è odiosamente chiamato il “messaggio”. Non valuta un film o una serie per quello che sono: un fatto estetico e artistico. Allo stesso tempo non ha senso domandarsi se 1992 sia di destra o di sinistra… Noi autori abbiamo ovviamente un punto di vista ma non ci mettiamo sul palchetto a dire “adesso vi spieghiamo come è andata davvero Tangentopoli”… noi non crediamo nel catechismo e non ci piace la dicotomia che si crea ogni volta tra opposti schieramenti. È il modo migliore per non conoscere le cose, per non capirle. Tu hai citato Boris, prodotto come 1992 da Lorenzo Mieli. Lì c’è una scena che mi fa troppo ridere, quando parlano del progetto Machiavelli: «La repubblica fiorentina è una ferita ancora aperta nella coscienza del paese. Non sappiamo se affrontare lo spinosissimo problema delle guerre puniche!» In una battuta folgorante ti rappresenta un problema dell’audiovisivo – ma non solo – italiano. Penso che noi italiani abbiamo un problema con la nostra Storia: quello che sembra apparentemente rispetto nasconde una difficoltà, un rifiuto, nel volerla elaborare.