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Il senso dei Prozac+ per un adolescente degli anni ’90

È morta il 29 febbraio a 44 anni Elisabetta Imelio, bassista del gruppo punk che ha dato voce ai tormenti di una generazione.

di Clara Mazzoleni

Eva Poles, Gian Maria Accusani e Elisabetta Imelio

Tra i pre-adolescenti italiani degli anni ’90 ce ne sono stati alcuni, soprattutto dopo l’esplosione, nel 1998, di una certa canzonetta punk molto strana, quasi fastidiosa, con un ritornello ossessivo e ossessionante, che iniziò a risuonare in lungo e in largo per l’Italia, nei bar, nei supermercati, ovunque, insieme a Torn di Natalie Imbruglia, a Iris dei Goo Goo Dolls e a My Heart will go on di Celine Dion – che iniziarono, un po’ di nascosto, ad ascoltare i Prozac+ e continuarono a farlo per anni: nel 2000 comprarono l’album 3Prozac+, con l’immondizia in copertina, nel 2002 Miodio, nel 2004 Gioia nera. A questi pre-adolescenti, che oggi sono ormai adulti, la mattina di domenica 1 marzo si è spezzato un pezzo di cuore, perché hanno appreso della morte, a 44 anni, di Elisabetta Imelio, la bassista del gruppo, ammalata di cancro da qualche anno. Quei dodicenni, tredicenni, erano un po’ come quelli che oggi ascoltano la trap, magari Chadia Rodriguez, che non a caso nel 2018, vent’anni dopo il successo dell’album Acido Acida (quasi 200mila copie vendute), su suggerimento di Big Fish (che in quanto parte dei Sottotono condivideva coi Prozac+ l’etichetta Vox Pop), ha rifatto la loro “Pastiglie”. Così come molti altri trapper, Chadia si prende dai genitori contrariati e dagli adulti disorientati gli stessi commenti arcigni che si beccavano i Prozac+: adesso si critica l’autotune e la presunta volgarità, loro venivano presi in giro per quel tic di ripetere le vocali – che li ha resi inconfondibili – e il modo in cui raccontavano le sostanze stupefacenti e la micro-criminalità di provincia.

Bisognava ascoltarli di nascosto dalle mamme e dai papà in apprensione. Non erano mica come il resto dell’armamentario con cui iniziavamo a coltivare i disturbi vari che ci avrebbero tormentato per tutta la vita – i Cure, i Placebo, Lou Reed, Nick Cave, ecc. – che si lagnavano liberamente da voglie di morire e autodistruggersi o inneggiavano alle droghe pesanti e allo sregolamento di tutti i sensi protetti dall’inglese, una lingua misteriosa e incomprensibile a buona parte dei genitori. I Prozac erano come noi, venivano da Pordenone, cantavano di droga, depressione e sesso in italiano, così, chiaro e tondo, e ti mettevano in imbarazzo di fronte a tua madre già per colpa nome: cosa stai ascoltando? I Prozac+ (nome commerciale della fluoxetina, il leggendario antidepressivo, di cui abbiamo recentemente perso un’altra importantissima portavoce, anche lei morta di cancro: Elizabeth Wurtzel, l’autrice di Prozac Nation). Conveniva ascoltarli con il walkman, o in quell’aggeggio per ascoltare i cd, che se lo posizionavi in verticale smetteva di funzionare, e allora ti toccava farti il viaggio in autobus reggendolo sul palmo della mano con grande attenzione, come un cameriere con un piatto pieno fino all’orlo. Però, così, eri al sicuro, e nessuno oltre a te sentiva i loro messaggi. Era una conversazione privata, tra te e loro.

C’era Gian Maria Accusani che diceva: «Toccati toccati toccati, tra le gambe lasciati andare», e cantava le lodi di Betty Tossica, «un’eroinomane, la più bella che c’è», e c’era Eva Poles che ammetteva candidamente «mi sento bene solo se mi faccio male, il bene in fondo che cos’è? Ognuno ne ha per sé». In mezzo a tutti questi pensieri, che finalmente prendevano una forma perfettamente coerente con il loro contenuto – le ripetizioni ossessive, la voce robotica, quasi stridula di lui e la voce mascolina e profonda di lei, il casino del punk, a tratti istericamente allegro ed energico, a tratti cupo e aggressivo – c’era il basso di Elisabetta Imelio, che pulsava e dava il ritmo. Perché era questa la differenza tra i Prozac+ e gli altri gruppi punk: qui c’erano le donne, ed erano brave. Così come Eva, Elisabetta suggeriva un modo di essere femmina diverso, un’alternativa per chi non si sentiva miracolata dalla bellezza sovrumana di Natalie Imbruglia e delle sue amichette con la faccia pulita e il lip gloss. C’era chi litigava su quale Spice Girl essere e chi si litigava le due dei Prozac+: chi sceglieva Elisabetta, di solito, la preferiva per via del tatuaggio con i fiori che le ricopriva metà braccio, dalla spalla in giù, e per quel basso, che nelle sue mani trasformava i tormenti in qualcosa in cui era finalmente dolce sprofondare.

Nel 2018 i Prozac+ hanno festeggiato i 20 anni dalla pubblicazione di Acido Acida, Elisabetta già ammalata da 3 anni. Nel 2007 con Accusani aveva fondato i Sick Tamburo. Nel 2015 lui le aveva scritto “La fine della chemio”, pubblicato nell’album Un giorno nuovo. «Gian Maria, amico e compagno d’avventura da sempre, ha scritto una canzone per me, una canzone che, come dice lui, non avrebbe potuto non scrivere», commentava Elisabetta. «L’ho ascoltata per la prima volta in macchina, mentre andavo all’ospedale per l’ennesima seduta di chemioterapia: è stato un istante, più potente della chemio, degli antidepressivi, degli incontri con la psicologa e di mille terapie coadiuvanti. Mi è arrivata addosso una bomba d’amore e di speranza, un’energia che mi ha dato gioia, forza e volontà indispensabili per affrontare tutto questo». Parole poco Prozac+ e molto adulte, come quelle, stupende, pubblicate da GM su Facebook il giorno dopo la morte dell’amica di una vita: «Ci si sveglia da quei pochi minuti di sonno che l’inquietudine ci ha concesso. È buio e c’è uno strano silenzio rotto solo dal suono della pioggia che viene giù, gentile, quasi a non voler disturbare troppo. È come se tutto fosse attutito e soffocato e c’è una strana quiete che ci avvolge e ci accarezza. Succedono cose strane, dentro e fuori dal corpo. Anche una cassa dello stereo emette uno strano rumore elettrico, ed è proprio strano perché non è collegata a nulla. Succedono cose strane, dentro e fuori dal corpo, anche se oggi è il giorno per capire veramente che non c’è più dentro e non c’è più fuori, non ci sono più confini. Si, perché oggi che quel corpo ci ha lasciato, abbiamo capito che siamo ancora più vicini. Le frontiere sono state abbattute. C’è una strana calma ed è come se un’enorme mano ci accarezzasse il capo. È come se qualcuno ci volesse consolare. È come se qualcuno abbia iniziato a prendersi cura di noi».