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I marchi, i social e le proteste

Tra quadratini neri e donazioni, gli eventi di questi giorni ridisegnano ancora una volta il complicato rapporto tra un marchio e i suoi consumatori.

di Silvia Schirinzi

Un negozio distrutto a Manhattan, 1 giugno 2020, New York. Foto di John Moore/Getty Images

Che i quadratini neri del #blackouttuesday fossero un’iniziativa scivolosa, non solo per gli influencer e per i singoli che hanno scelto di parteciparvi, è sembrato chiaro fin da subito. E lo è diventato ancora di più quando a confluire nel feed di Instagram sono arrivati i marchi, specialmente quelli della moda ma non solo, nel tentativo di mostrare solidarietà a una causa e di presentarsi alla propria comunità di consumatori come informati, non indifferenti, engagé, per dirla con un termine dell’altro secolo. In questi ultimi anni si è molto discusso della discesa in campo dei brand in territori fino a quel momento largamente inesplorati come il femminismo, la diversità, la sostenibilità, il razzismo, i diritti Lgbtq+, tutte operazioni forzate dal progressivo cambiamento nelle abitudini di consumo verso forme di acquisto consapevole, come viene definito non senza una certa compiaciuta retorica. Sempre più consumatori, cioè, hanno iniziato a chiedere, grazie all’immediatezza delle piattaforme social, trasparenza, cambi di leadership, etichette che testimoniassero l’impegno nel rispetto di regole etiche e ambientali, diversificazione dei prodotti e dei testimonial, in un più generale stravolgimento delle regole di comunicazione e del ruolo che gli stessi marchi ricoprono nello spazio pubblico. Ci siamo abituati ai boicottaggi social, alle accuse di appropriazione culturale, vera e presunta, alle discussioni sulla libertà creativa e gli interessi corporate, abbiamo visto marchi e conglomerate titaniche andare nel panico di fronte agli hashtag e partorire alcune delle più goffe e irritanti campagne di scuse di cui si abbia memoria, perfette per il manuale delle cose da non fare in caso di crisi. 

Le proteste che hanno seguito la morte di George Floyd a Minneapolis, e che sono scoppiate poi in tutte le maggiori città americane e in molte altre nel mondo, segnano però un nuovo punto di svolta nel complicato rapporto che i marchi instaurano oggi con i propri consumatori. Si è infatti parlato moltissimo del “looting”, ovvero il saccheggio dei negozi che avviene durante le manifestazioni, in un dibattito che sta portando alla luce nuove considerazioni, forse più di quello sui quadratini neri e sulle modalità, perverse e per certi versi insondabili, con cui l’attivismo si dispiega online. Questo perché il saccheggio tutti quei discorsi e li include e li supera, in virtù della sua contingenza: cosa deve fare un marchio, o un designer che è molto seguito sui social, di fronte alle immagini del suo negozio distrutto? Magari il giorno prima c’era stato il post di adesione ideale al movimento (engagé, appunto) per sembrare sul pezzo, e il giorno dopo compaiono le foto delle vetrine sfregiate, una contraddizione che rischia di esporre l’adesione acritica all’ultimo trend social, la difficoltà nel leggere e interpretare l’umore del momento, anche l’inconciliabilità del volersi posizionare politicamente senza, di fatto, porsi come parte di un cambiamento. Così Marc Jacobs riposta su Instagram la targa dove il suo nome è stato cancellato e sono stati aggiunti con il pennarello quello di George Floyd e Sandra Bland («Le cose si possono sostituire, le vite umane no», ha scritto), mentre Virgil Abloh pubblica una serie di stories, in cui denuncia chi ha devastato la boutique Round Two di West Hollywood, tempio dello streetwear di seconda mano ed espressione, per lui, di una comunità che non riconosce più. Il primo ha ricevuto molti commenti positivi ma anche molte richieste se e in che misura avesse contribuito alla causa, il secondo è stato invece sommerso dalle critiche, anche per via di una donazione considerata troppo esigua. Due casi speculari che raccontano della stessa difficoltà: meglio di loro ha fatto Ben & Jerry’s, che vende gelati al grido del poco fraintendibile “We Must Dismantle White Supremacy”, ma che ha anche una consolidata immagine pubblica di azienda che sa fare la cosa giusta al momento giusto.

Nel 2014, quando Black Lives Matter iniziava a emergere dopo l’omicidio di Michael Brown a Ferguson, Vicky Osterwil spiegava su The New Inquiry il significato che il saccheggio ha storicamente ricoperto nei movimenti per i diritti civili, sottolineando come spesso si sia rivelato l’unico strumento per contrastare e invertire le dinamiche del razzismo sistemico, negli Stati Uniti come altrove. Il saccheggio di oggi si inserisce in un contesto sì diverso ma non necessariamente cambiato: in mezzo ci sono moltissimi fattori, dalla presidenza Trump alla globalizzazione di certe proteste, che uniscono le persone nel mondo secondo criteri diversi da quelli dei “classici” movimenti politici, e così è cambiato anche il modo in cui i marchi, nel capitalismo 4.0, si ritrovano a fraseggiare il loro impegno politico, qualora decidano di farlo. Ora i consumatori hanno il potere di chiedere foto dei board direzionali, degli uffici creativi così come di quelli di comunicazione, possono fare le pulci alle donazioni, al modo in cui un marchio parla o non parla di un argomento: non c’è mai stata una linea così diretta con chi produce quello che acquistiamo. C’è infine un altro risvolto da considerare, come segnala Rachel Tashjian su Gq Us, e cioè che «la rapida espansione globale dello streetwear e delle conglomerate del lusso negli ultimi dieci anni ha creato una crisi da “consumismo seducente” che ha colpito quasi tutte le persone con un reddito modesto e meno di 40 anni. In questo contesto, potremmo considerare il saccheggio l’inevitabile risultato di una macchina da marketing che ha promosso in questi anni l’idea positiva che i beni di lusso sono per tutti, che tutti possono averli». Così non è, ma se non altro è chiaro che c’è un prezzo da pagare anche per chi vende sogni.