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Perché si cancella una sfilata

Una pubblicità infelice, l'indignazione social e l'incapacità di leggere il consumatore: Dolce & Gabbana in Cina e i meccanismi complessi della moda contemporanea.

di Silvia Schirinzi

Uno dei tre video della campagna pubblicitaria #DGLovesChina

La cancellazione di #DGTheGreatShow, la sfilata che Dolce & Gabbana aveva organizzato a Shanghai per mercoledì 21 novembre, è una di quelle cose che non succedono tanto spesso nella moda, anzi non succedono mai, e quella volta che succedono la ricorderemo per un po’. Il riassunto degli eventi per chi ieri ha avuto altro da fare: il marchio italiano ha dovuto annullare un colossale evento (1500 invitati, 500 uscite, 400 modelli) perché nei giorni precedenti alla sfilata i tre video della campagna pubblicitaria #DGLovesChina, pensata per sponsorizzarla, sono stati fortemente criticati su Weibo, una delle piattaforme social più popolari in Cina. L’accusa era di rappresentare i cinesi in maniera stereotipata, paternalista e sessista. Come segnalava Jing Daily il 19 novembre, quando i video sono stati rimossi da Weibo la polemica era già arrivata sui media occidentali, e precisamente su Instagram, aggravandosi di screenshot in screenshot.

Si è partiti con uno spot di cattivo gusto in cui una modella (vestita come in In the Mood for Love di Wong Kar-wai) cerca di mangiare cibo italiano con delle bacchette seguendo le indicazioni di una voce maschile fuori campo, una voce che arrivati al momento del cannolo siciliano pensa bene di chiederle «Sarà mica troppo grande per te?». E si è arrivati a Stefano Gabbana che rimbeccava un’utente che gli dava del razzista nei suoi messaggi privati, prontamente ripubblicati da Diet Prada (ieri 860mila followers, oggi 902mila), lasciandosi andare a esternazioni del tipo «In Cina mangiate i cani, non abbiamo bisogno dei cinesi, fosse stato per me non avrei mai fatto ritirare quei video» e così via. A quel punto alcuni degli invitati più attesi, dalla cantante Wang Junkai agli attori Chen Khun e Zhang Ziyi fino alla direttrice di Vogue China Angelica Cheung, hanno annunciato che avrebbero disertato lo show. Nell’incredulità generale le autorità cinesi hanno quindi deciso per la cancellazione dell’evento (cosa che fanno spesso, era successo recentemente con l’Ultra Festival), mentre Dolce & Gabbana faceva sapere che l’account Instagram del marchio, e quello di Stefano, erano stati hackerati.

Non è bastato un secondo post di scuse, dove si legge che «[L’evento] non doveva essere una semplice sfilata, ma qualcosa che abbiamo creato con passione espressamente per la Cina e per tutte le persone nel mondo che amano Dolce & Gabbana», per fermare i post di denuncia che continuavano a impilarsi su Instagram e Weibo, ché tutto il mondo è paese quando c’è da indignarsi, mentre il duo di Diet Prada passava il tempo a chiedere a tutte le pubblicazioni del globo di inserire il loro nome nella copertura dell’evento che doveva essere e non è stato. Poi sono arrivate le prime diserzioni da parte dei rivenditori cinesi, come riportato da WWD: al bando i prodotti di Dolce & Gabbana su Alibaba, JD, Seicoo, VIPShop e Netease, seguiti a ruota dal gruppo Yoox-Net-a-porter. Insomma, un disastro. Se è difficile, in questo momento, quantificare l’entità del danno a lungo termine, è piuttosto facile constatarne gli effetti immediati: la cancellazione di un evento-investimento che doveva essere il più grande mai realizzato da Dolce & Gabbana in quello che è il mercato-chiave del lusso, come confermato dal 17° Osservatorio Altagamma, dove si stima che nel 2025 i consumatori cinesi rappresenteranno il 46% dell’intero settore. Ed è importante, posizionarsi bene, considerando come nei prossimi anni la macchina della propaganda di Xi Jinping spingerà i suoi connazionali ai consumi interni, mentre si adopera alla costruzione della Nuova via della seta. Cosa significa se i cinesi iniziano a comprare solo cinese?

Lo spiega bene Simone Pieranni, fondatore dell’agenzia editoriale China Files, firma de Il Manifesto e co-host, insieme a Giada Messetti, del podcast di Piano P dedicato alla Cina, Risciò. «Con il programma “Made in China 2025” la globalizzazione di Xi Jinping punta a fare della Cina una “potenza” tecnologica. Made in China identifica dieci settori chiave, dalla robotica alle ferrovie, dallo spazio alla manifattura automatizzata. La “nuova era” di Xi punta poi tutto sui servizi e lo sviluppo del mercato interno, trend già iniziato dopo la crisi del 2008 che non ha colpito più di tanto la Cina, ma che ha posto il problema di passare da un’economia trainata dalle esportazioni a una trainata dal mercato interno. Mercato interno significa spesa interna per prodotti cinesi e riduzione degli spazi per le aziende straniere. A questo va unito un rinnovato nazionalismo che porta i cinesi a privilegiare tutto quanto è Designed in China». Parlare di identity politics e suscettibilità social assume allora un significato particolare se si guarda alla Cina di oggi: «I cinesi più pratici sanno come arrivare a usare i social occidentali [che sono perlopiù bloccati, nda] e sanno che sui social occidentali la loro presenza non passa inosservata. Bisogna poi tenere presente che in questi casi si muovono anche tutti gli apparati propagandistici e i troll fomentati da account “governativi”. Il nazionalismo in Cina c’è e si sente, tanto più quando i cinesi ritengono venga intaccata la loro credibilità o la loro cultura millenaria, che costituisce, nella loro percezione, anche la loro diversità rispetto al resto del mondo» continua Pieranni.

Un marchio che oggi voglia conquistare il consumatore del lusso, e il consumatore più in generale, non può fare a meno di confrontarsi con dinamiche di questa portata e complessità, che riguardano tanto l’attitudine culturale di un paese quanto le sue strategie di politica interna. Non si tratta quindi “solo”, come succedeva in passato, di evitare determinati colori che hanno significati diversi in culture diverse da quelle eurocentriche (classico l’esempio del bianco, che in molti paesi asiatici è associato al lutto), ma piuttosto di conoscere i meccanismi della moda contemporanea, che spaziano dall’infinita discussione sull’appropriazione culturale alla necessità dell’industria di muoversi sempre più a livello globale, su un mercato che è sempre più unico e senza categorie, dove le sneakers, le borse e i prodotti skincare finiscono a gareggiare fra loro. «Un ammonimento che ha fatto anche Xi, come i precedenti leader, è che l’epoca delle umiliazioni, ovvero quella parte (breve) di storia cinese fatta di invasioni e occupazioni straniere, è finita e non dovrà più ripetersi. Eventi come quello di Dolce & Gabbana, tutto sommato, rafforzano queste posizioni, quindi il governo lascia scatenare i netizen, sapendo che questo bene o male finisce per creare identità e unità nazionale».

Ecco perché l’operazione Gucci-Cattelan funziona e quella di Dolce & Gabbana, che lavora sullo stereotipo (italiano o cinese che sia) come si sarebbe fatto vent’anni fa, no. E se il rapporto di D&G (che pure è stato un caso di successo indiscusso nella moda italiana) con gli stereotipi meriterebbe un altro approfondimento – utile la lettura di questo sempre valido articolo di Alex Esculapio su Vestoj – di fronte a una situazione del genere quello che sarebbe servito era una Olivia Pope che contenesse i danni. E che nelle aziende italiane, per vizi e virtù (di famiglia), è una delle figure che più è mancata.