Attualità

Post-umani sì, però ecologici

Più gli argomenti dei filosofi sono controversi e più l'opinione pubblica li prende (troppo) sul serio

di Cesare Alemanni

«Il cambiamento climatico prodotto dall’uomo è probabilmente uno dei più grandi problemi con cui ci dobbiamo confrontare. […] In questo paper, prendiamo in considerazione un nuovo tipo di soluzione, la chiamiamo human engineering».

Esordisce così un testo intitolato “Human engineering and climate change” e scritto e sei mani da S. Matthew Liao (New York University), Rebecca Roache e Anders Sandberg (entrambi del Future of Humanity Institute di Oxford): due filosofi analitici e un neuroscienziato che si occupano di etica e biopolitica.

Non conosco se il ciclo di vita del paper in questione avrebbe dovuto essere quello connaturato alle pubblicazioni accademiche di questo genere e dunque prevedere, nell’ordine, la stampa all’interno di un volume per specialisti,  più o meno velenosi giri di pareri via mail custoditi nei server di alcuni dipartimenti e, ad andare bene, un dibattito pubblico per pochi intimi o se invece gli autori, consci del suo contenuto altamente infiammabile, abbiano deliberatamente deciso di fargli una certa pubblicità. Fatto è che, una dozzina di giorni fa, il nome di S. Matthew Liao, il principale responsabile dello scritto, si trovava sul sito dell’Atlantic in capo a una lunga intervista che ha esteso a macchia d’olio il dibattito sui contenuti del suo lavoro, anche per via di affermazioni su questo tono:

«Ogni chilogrammo di massa corporea richiede un certo ammontare di cibo e nutrimento e quindi, più “grossa” è una persona e maggiore è la quantità di cibo ed energia che consumerà nel corso della sua vita. […] la riduzione della massa corporea potrebbe rappresentare un modo per diminuire l’impatto ambientale del genere umano. Se abbassassimo l’altezza media degli americani di 15 cm […] otterremo una diminuzione di circa il 18% dei livelli metabolici poiché meno tessuti significa meno energie e nutrimenti richiesti».

«L’ingegneria applicata alla razza umana potrebbe dare alle famiglie la scelta tra due figli di taglia media, o tre di taglia piccola. Dalla nostra prospettiva questa misura offrirebbe maggiore libertà rispetto a una “politica” che dice: “puoi avere solo uno o due bambini”»

«Gli occhi dei gatti vedono all’incirca quanto quelli umani durante il giorno ma decisamente meglio durante la notte. Abbiamo calcolato che se tutti gli uomini avessero degli occhi da gatto, non necessiteremmo di così tanta illuminazione e quindi potremmo ridurre considerevolmente il consumo di energia elettrica».

Posto che, secondo gli autori, altre soluzioni che non intervengano direttamente sulle caratteristiche dell’uomo e sui suoi bisogni (propongono anche una pillola che inibisce il consumo di carne) si stanno rivelando misure inadeguate per risolvere il problema; l’assunto alla base del paper è che impianti genetici e prescrizioni farmacologiche ci permetterebbero di controllare più efficacemente la nostra “spesa” di risorse e il suo impatto sull’ambiente in cui viviamo, la cui tutela – essendo l’unico habitat di cui disponiamo e la condizione basilare per il proseguimento di tutte le nostre esistenze – è, sempre secondo gli autori del testo, preliminare a qualunque altra considerazione od obiezione, comprese quelle riguardanti la stazza dei nostri figli.

«La ragione per cui faremmo tutto questo (modificare la taglia di un bambino prima della sua nascita ndA) è in primo luogo quella di combattere il cambiamento climatico, che è un problema molto serio, e che potrebbe inficiare il benessere di milioni di persone, incluso quel bambino. E quindi in quel contesto (…) saremmo in grado di giustificare la scelta anche al bambino stesso».

In fondo, si sono detti gli autori dello scritto, se altre branche dell’ingegneria da anni mettono a punto modi per rendere sempre meno inquinanti i mezzi di trasporto e di produzione, perché non considerare, alla stessa stregua, la possibilità di apportare migliorie alla “macchina umana”, che del resto è il vertice di tutta la catena dei consumi? Ovviamente e, come sempre, quando si tratta con gli ambigui bivi morali del transumanesimo, non appena ha iniziato a circolare, l’intervista ha suscitato una enorme mole di indignazione e Liao è stato accusato di proporre soluzioni inumane e castranti per la libertà di un embrione etc. E da lì giù fino alla consueta reductio ad Mengelem.

Curiosamente, o forse no avendo più volte osservato il decorso di queste polemiche, la grandissima maggioranza delle persone che hanno manifestato la propria indignazione attraverso commenti su siti e Social Network ammetteva però poi, del tutto candidamente, di non aver letto lo scritto in oggetto ma di essersi limitata all’intervista apparsa sull’Atlantic; questo nonostante il .Pdf del testo nella sua interezza fosse facilmente reperibile sul sito personale di Liao. Un po’ quello che è successo qualche settimana fa nella discussione sull’aborto post-natale e che sempre più spesso accade quando pubblicazioni scientifico/filosofiche dedicate a temi scottanti o proponenti idee controverse entrano nel circuito dell’opinione pubblica “mainstream”, la quale ama farsi “scandalizzare” dagli aspetti più “spettacolari” di uno studio.

Qualche giorno dopo l’intervista di Liao su The Atlantic, il Guardian ha rilanciato la questione con un lungo articolo che riassume le ultime vampate polemiche contro il paper e dà a tutti e tre i suoi autori la possibilità di “spiegarsi” meglio. Ed è in quella sede che Anders Sandberg dice una frase che credo dovrebbe essere tenuta a mente da ogni giornalista, opinionista, blogger, commentatore a caldo, cattolico integralista, editorialista di Avvenire, bioetico alle prime armi prima di lanciare la propria personale jihad contro la “pubblicazione controversa e scottante della settimana”. Una frase utile per ricordarsi che, semplicemente, si sta parlando di un altro sport:

«La gente non è abituata all’analisi etica. In filosofia prendiamo le idee e le testiamo fino alla distruzione. Questo significa che spesso facciamo emergere concetti o linee di pensieri in cui non crediamo personalmente e le mettiamo in discussione il più duramente possibile per vedere dove vanno e cosa possiamo impararne».