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Comizi sul porno

Dal numero di Rivista Studio in edicola, una conversazione con Polly Barton, autrice di un libro in cui, attraverso una serie d'interviste, parla di una cosa presente nella vita della maggior parte di noi ma assente dalle nostre conversazioni: il porno.

di Caterina Capelli

Nel 2019 Pornhub ha registrato 115 milioni di visite al giorno, 42 miliardi in totale, posizionandosi in modo permanente sopra Netflix e TikTok tra i siti più usati al mondo. Il porno in streaming online è un’abitudine presente nelle vite della maggior parte di noi, anche se fatichiamo ad ammetterlo. Per qualche ragione infatti, di porno non riusciamo a parlare in modo genuino. È di questo che si è resa conto Polly Barton, saggista e traduttrice letteraria inglese, quando ha iniziato a lavorare al suo secondo libro, Porno. Una storia orale, in uscita questo mese in Italia per La Tartaruga. A dispetto del titolo, non si tratta di un saggio sulla storia della pornografia, ma di una raccolta di conversazioni informali sul tema. Durante il lockdown, Barton ha deciso di affrontare una delle cose che la metteva più a disagio, e cioè parlare di porno, invitando amici e colleghi a farlo con lei. Le interviste raccolgono le testimonianze e confidenze di diciannove persone reali di varie età, genere, e background sociale. Il risultato è un’indagine sul nostro rapporto intimo e problematico col porno mainstream, una sorta di Comizi d’amore contemporaneo, dove gli intervistati, compresa l’autrice, affrontano l’argomento per la prima volta. A pochi giorni di distanza dall’uscita, abbiamo parlato a Milano con Polly Barton del suo nuovo libro e, ovviamente, di porno.

Perché hai deciso di scrivere un libro sul porno?
Ho iniziato a notare una vera e propria frattura tra quello che leggevo e sentivo in giro sul porno – che sembrava onnipresente – e la totale assenza di conversazioni sul tema, almeno nella mia vita: non ne avevo mai parlato coi miei amici e mi sembrava strano. Durante la pandemia sono cambiate molte cose, il mondo era sottosopra, mi è sembrato il momento giusto per iniziare a parlarne. Così ho iniziato le mie conversazioni, senza sapere che forma avrebbe preso il libro.

Come hai scelto le persone da intervistare?
Volevo parlare con persone che conoscevo, così ho iniziato a mandare mail ad amici e colleghi. Mi sembrava importante essere coinvolta in prima persona, volevo che fosse uno scambio reciproco.

Come mai non riusciamo ad avere conversazioni normali sul porno?
Parlare di porno è difficile per tante ragioni. C’è ancora molta vergogna attorno al desiderio sessuale, e c’entra anche il nostro background religioso. Ci viene insegnato che il porno è un argomento scottante, e c’è sempre la paura che, se ne parli, non sai come reagirà l’altro, magari ti giudicherà. Ma il motivo principale per cui non ne parliamo è che ci è stato detto che il porno è qualcosa di cui non si parla. E questo silenzio non fa che autoperpetuarsi: non ne parliamo mai, quindi non pensiamo di avere il permesso di farlo. In più, parlare di qualcosa per la prima volta è sempre terrificante, e temiamo di sbagliare.

Quindi se ne dovrebbe parlare di più?
Sì. Perché aiuterebbe a smantellare la vergogna e la paura del giudizio. Quello che ho capito parlando con queste persone è che al porno ci pensiamo, ma riceviamo messaggi contrastanti che, senza dialogo, non sappiamo elaborare. Solo parlandone impariamo a riconoscere i nostri pensieri, a conciliare (o meno) opinioni contrastanti tra loro, a discutere ciò che c’è di nuovo, come faremmo con qualsiasi altro argomento, no? Almeno nel Regno Unito, il dialogo sul porno si limita ad inquadrarlo come buono o cattivo. Invece è un tema così nuovo e vasto che avremmo bisogno di affrontarlo in modo molto più sofisticato di così.

C’è chi vede nel porno uno spazio violento e discriminatorio, pieno di stereotipi tossici. Altri invece ci vedono uno strumento di liberazione e autodeterminazione, se fatto nel modo giusto. Cosa ne pensi?
È esattamente così. Il porno può simboleggiare grande libertà di espressione e creatività, ma anche violenza e terrore, e tanto conformismo. Entrambi gli aspetti sono reali, anche se queste due posizioni sono molto difficili da conciliare. Parliamo del porno come se fosse una cosa unica, mentre racchiude così tanta diversità. C’è molto di più di quello che appare in prima pagina su Pornhub. 

È possibile separare la realtà dalle fantasie quando si parla di porno? Ci si può definire femminista se si guardano contenuti violenti o discriminatori che, nonostante ciò, ci eccitano?
È interessante affrontare questa domanda da femminista perché ti costringe a riflettere su come il tuo desiderio sessuale sia in realtà influenzato dalle forze del patriarcato. E questo è terrificante. Non voglio dire che uomini e donne siano da incolpare se consumano questo tipo di contenuto, ma penso anche che sia fondamentale riconoscere che la violenza c’è. La cosa che mi spaventa di più del porno mainstream è che è esso stesso un kink: sono le stesse dinamiche di potere che si vedono nei contenuti hard e bdsm, solo che non vengono etichettate come tali, perché è il “kink del patriarcato”. Ma se non viene riconosciuto, la paura è che venga normalizzato un modello di rapporto eterosessuale dove la donna è sempre degradata. Possiamo cambiare questa concezione solo se A) ci impegniamo a parlare e a educare le persone sul porno, e B) se affrontiamo il processo di fare i conti con noi stessi, riconosciamo il problema e lo vediamo per quello che è.

Pensi che internet abbia cambiato il nostro rapporto col porno? Avendo il porno a “portata di smartphone”, possiamo aprire e richiudere quella porta quando vogliamo, e fingere che ciò che ci sta dietro non esista.
Ovviamente da un punto di vista superficiale l’ha cambiato molto. Ma è cambiato il modo in cui sono rappresentati i ruoli di genere, e il nostro approccio emotivo al porno? È difficile da dire. Penso ci sia una grande ipocrisia nel non volersi associare al porno, a discapito di attrici e attori del settore. Il porno è una parte della nostra cultura, a cui ognuno di noi partecipa e di cui, in qualche misura, siamo complici. Eppure, siccome possiamo “spegnerlo” e metterlo da parte, fingendo che non ci riguardi, riversiamo il carico di vergogna sulle persone che ci lavorano. Si parla tanto della “seconda wave del porno”, di OnlyFans, dove il porno sta diventando sempre più comune e meno infamante, ma resta ancora enormemente stigmatizzato.

Sono rimasta colpita dalla testimonianza di Undici, un uomo di ottant’anni che intervisti a metà del libro, perché mostra come il porno sia cambiato nel corso del tempo.
Mi è piaciuto molto parlare con l’ottantenne, perché vedere qualcuno che nella stessa conversazione passa dal parlare de L’amante di Lady Chatterley a xHamster è davvero sbalorditivo. Nella sua adolescenza, i primi “porno” erano romanzi o riviste in cui le donne al massimo erano in bikini. Quando gli ho chiesto se gli bastasse, mi ha risposto «Era tutto quello che avevamo, quindi andava bene». Dal punto di vista storico, il porno online gratuito in streaming è una cosa molto recente. Eppure è arrivato a definire totalmente la società. Parlando di pornografia, almeno in inglese, pensiamo subito a quella mainstream, come se non esistesse altro. Mi stupisce quanto velocemente la tecnologia abbia ridefinito l’intero concetto di “porno”.

Nel libro parli di pornificazione della società. Cosa intendi?
La pornificazione della società riguarda l’economia dell’attenzione e la fase più recente del capitalismo, che anticipa quello che desideriamo e trae profitto dal mantenerci in uno stato di consumo passivo. 

A proposito di passività, in Porno fai notare che trattiamo il porno come se fosse qualcosa di inevitabile, un’azione involontaria.
Questo atteggiamento passivo è legato a una serie di aspetti, tra cui la mancata assunzione di responsabilità di cui parlavamo, e l’ipocrisia di rifiutarsi di riconoscere il porno come parte della nostra identità. Pensiamo che sia inevitabile: è un po’ come essere dipendenti da Instagram, lo subiamo perché lo vediamo come qualcosa che semplicemente le persone moderne fanno. E lo capisco al 100 percento, perché lo faccio anch’io, ma non credo sia molto salutare. La mia preoccupazione riguardo al pornografico non è tanto che sia tale, quanto il fatto che è del tutto scollegato dalla vera creatività, restando un aspetto automatico della nostra vita.

Perché guardiamo porno?
Penso che ricopra molte funzioni diverse. C’è questa cosa dell’efficienza, per cui il porno rende l’atto della masturbazione più facile, più veloce e ti permette di non pensare. In più rappresenta la trasgressione: è eccitante perché attinge da ciò che non dovremmo vedere o fare. Ma penso anche che, nella storia dell’umanità, abbia avuto una funzione molto creativa e, in un certo senso, anche educativa. Le stampe erotiche giapponesi di centinaia di anni fa, chiamate shunga, sono così gioiose e tutti sembrano divertirsi. Ti fanno capire che il porno può anche essere una celebrazione della sessualità umana.