Attualità

Politica a puntate

È riniziato Homeland, impazza Scandal. Perché il racconto del potere non smette di affascinare e domina i network televisivi.

di Stefania Carini

Incompetenti

Un anziano membro del Senato è appena passato a miglior vita. Il vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Selina Meyer (Julia Louis-Dreyfus), deve apporre la sua firma su un biglietto di condoglianze già firmato dal Presidente. Non ha tempo però, e così chiede alla sua assistente di farlo per lei. Quella però si distrae, e sigla a nome suo. Tocca così falsificare la firma del Presidente su un nuovo biglietto. Un atto punibile con la pena di morte. E tutto per uno dei pervertiti più rispettabili del Senato.

Veep (2012) è firmata dall’inglese di origine italiana Armando Iannucci, già autore di un ritratto dissacrante della politica britannica con The Thick of It. Chiamato dalla HBO, ha deciso di variarne la formula: “Volevo raccontare di qualcuno con molte più capacità e con una macchina politica dietro di sé, ma allo stesso frustrata a causa delle restrizioni del proprio lavoro” ci spiega Iannucci al Montecarlo Tv Festival. “Del panorama politico, mi interessa ciò che sta nel mezzo: quel mondo un po’ corrotto, ma non pericolosamente corrotto, e quel mondo leggermente nobile, ma non certo eroico”.

Anche le più alte sfere della politica mondiale dunque sono piene di incompetenti. Tanta buona volontà, certo, ma lo staff della Vp pullula di pasticcioni, che non l’aiutano certo a districarsi tra commissioni farlocche, inutili incontri, trabocchetti di palazzo. Veep svela anche un’altra verità: “Gran parte della vita politica è un prodotto: è il tipo di personalità e di immagine che i politici cercano di coltivare per l’elettorato in funzione delle telecamere. Volevo che lo show mostrasse cosa succede quando queste persone chiudono le porte dietro di sé, lasciando fuori la vita pubblica”.

In calo nei sondaggi, Selina Meyer ha una crisi di pianto di fronte a un candidato governatore che rifiuta il suo appoggio. I membri del suo staff però pensano che quel pianto, così sincero, vada ripetuto davanti alle telecamere per creare empatia, e senza dirle nulla insistono con una giornalista affinché le chieda della sua critica situazione e del rapporto con sua figlia. Vp lacrima, i sondaggi si impennano. Il candidato ora vuole il suo appoggio, Selina lo chiama sul palco durante un meeting dandogli del coglione mentre sorride alla folla. Spera però che non sia presente il suo fotografo ufficiale: sa leggere il labiale e potrebbe aver capito qualcosa. Il giorno dopo il Presidente fa sapere tramite uno dei suoi di essere felice di questa sua “new narrative”. Non solo: Selina è pure TT. Ma con l’hashtag #FakeVeepWeep: la giornalista dell’intervista lacrimevole infatti ha capito di essere stata manipolata, e si vendica su Twitter. Selina vede cadere di nuovo la sua popolarità: vorrebbe tanto piangere, ma non ci riesce

Pubblico e privato, palco e retropalco. Due dimensioni del fare politico ormai ovvie, ma che paiono sempre più correre su piste divergenti: quello che ci viene detto di fronte alle telecamere è sempre una costruzione più o meno riuscita, più o meno voluta, più o meno falsa. E’ sempre una “narrazione”. Il passaggio però tra le due dimensioni è ormai fluido, rapido. Anzi, forse ormai c’è solo una dimensione, quella pubblica. Il politico tenta di maneggiare i media a suo favore, ma la moltiplicazione di occhi elettronici e digitali lo pongono in uno stato di perenne osservazione. E’ in balia dei media, in balia degli umori degli elettori: “Con la copertura giornalistica 24 su 24 ore e i social media” continua Iannucci “i politici sono sempre sulle scene: è il loro dilemma. Da una parte vogliono cercare di dominare tutti questi mezzi di comunicazione, per mantenere il controllo. Dall’altro canto si rendono conto che tutto questo non è possibile”. Ecco il moltiplicarsi di gaffe, scandali, fughe di notizie. Ecco aumentare la disillusione dell’elettore-spettatore.

 

Ambigui

E pensare che fino a qualche anno fa nello Studio Ovale c’era ben poco dissidio tra palco e retropalco, tra essere e apparire, tra pensiero e azione. Perché alla Casa Bianca c’era Josiah Jed Bartlet, in onda c’era cioè West Wing (1999-2006, NBC) di Aaron Sorkin. Un’utopia liberal del buon governo in onda a fine mandato Clinton, ma soprattutto in onda quando di liberal c’era ben poco alla Casa Bianca, durante cioè tutta la prima presidenza Bush e per parte della seconda. Adesso, con Obama al potere e l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, proliferano invece serie che mettono in scena un’immagine ben differente della politica. Il motivo, forse, non è da ricercarsi solo nella diversa visione del mondo di Sorkin rispetto ad altri autori, e nemmeno solo nel mutato panorama mediale: “Sono stato e sono tuttora un grande fan di West Wing, ma non credo che oggi la gente ci crederebbe”,spiega Iannucci. “Penso che la gente oggi sia molto frustrata dal processo politico, arrivato ormai a un punto di arresto”.

Il primo cittadino di Chicago Kane, Tom Kane (Kelsey Grammer), ha il migliore staff che si possa desiderare: competenti, appassionati, astuti. E pronti a tutto. Lui stesso è un sindaco bigger than life: “è un egocentrico e un combattente, ossessionato dall’immagine e dal potere, capace di distinguersi dalla massa come il Kane di Wells che abbiamo omaggiato” ci spiega al Roma Fiction Fest Grammer. “Oscuro e incompreso, è un abile manipolatore, un giocatore di scacchi che sa in anticipo le mosse degli altri, il cui scopo è fare al meglio il suo lavoro non mostrando alcuna debolezza. Gli viene però diagnosticata una malattia neurologica degenerativa: questo compromette il suo restare in vita, come politico e come essere umano”. Ecco Boss (2011), in onda su Starz (in Italia –per poco- su Raitre), creata da Farhad Safinia, prodotta da Gus van Sant.

Non può avere tremori Kane. E’ la sua prima preoccupazione quando il suo medico, in segreto, gli rivela il male. Non può perché i tremori si vedono. Le allucinazioni, la depressione, gli sbalzi d’umore riguardano solo lui. Ma il manifestarsi visivo della malattia no, quello non se lo può permettere. Non può mostrarsi debole, né davanti ai suoi né, a maggior ragione, davanti agli occhi della Tv. Da lì a poco è a un comizio, e prima di salire sul palco controlla la sua immagine nel monitor di una telecamera.

Controllo significa non fa emergere nulla di compromettente su se stessi e sul proprio operato. Eppure qualcosa sfugge sempre. Non sono solo gli sbalzi d’umore: qualcuno sta passando carte compromettenti sul suo conto a un giornalista. Durante la precedente amministrazione, infatti, Kane ha avvallato lo smaltimento di rifiuti tossici che avrebbero contaminato le falde acquifere di un paese limitrofo. Tocca rimediare, creare una nuova narrazione da dare in pasto ai media: basta dare la colpa al precedente sindaco di cui si è solo eseguita la volontà, basta spostare l’attenzione delle Tv sulle famiglie di quella cittadina sull’orlo dell’apocalisse. Perché, spiega il capo staff, “in un modo o nell’altro va raccontata una storia” e “la gente la guarderà perché è uno spettacolo terrificante”. E a quel punto basta mostrarsi pronti a soccorrerli, promettendo aiuti su aiuti. Davanti alle telecamere basta poi bere un bel bicchiere d’acqua insieme al sindaco della cittadina per depurarsi davanti agli elettori. Almeno fino alla prossima rivelazione

Corruzione, doppiogioco, manipolazione, omicidio, minacce, falsificazione: non c’è nulla che Kane non abbia fatto per il potere. Bisogna però saperlo fare bene, il male: “Anche se sono un uomo cattivo, e ho compiuto cattive azioni, ho sempre saputo perché. Tu non hai la competenza di fare le cose sbagliate nel modo giusto” urla a un candidato governatore. Il “perché” delle “cose sbagliate” che Kane ha fatto “nel modo giusto” è presto detto: “I popoli vogliono essere guidati. Vogliono che le loro dispute vengano risolte, che i loro trattati vengano negoziati, che vengano creati posti di lavoro, che i rivoltosi vengano puniti, e vogliono che la loro fedeltà venga ripagata. A coloro che li guidano verso tutto quello che vogliono danno il potere. E’ un patto. Tacito e primario. Se una delle due parti non fa il suo dovere bisogna trovare una soluzione”. E’ il suo credo politico terribile e sincero.

 

Traditori

Qualcuno ha però tradito Kane. Qualcuno a lui vicino è infatti l’artefice della fuga di notizie che poteva costargli la carica. Sì, qualcuno del suo staff ha scoperto il suo segreto e si è sentito tradito: “Non stai più governando per il bene della città. Abbiamo fatto troppe cose orribili nel corso di questi anni al potere. Ma io ho sempre saputo il perché. Era importante che fossimo noi a governare la città perché avevamo i mezzi migliori per fornire ciò che era un bene per la sua popolazione. Ma ti sei ammalato. Hai iniziato ad agire in preda a un puro senso di preservazione personale. Non riuscivo più vedere che il fine giustificava i mezzi, perché l’unico fine che ora conta per te sei tu”.

Il politico tradisce l’Ideale, chi lavora con lui si sente tradito e vuole giustizia, a modo suo. Un tradimento che mescola pubblico e privato, e si fa persino sentimentale in Scandal (2012, ABC, in Italia su FoxLife). D’altra parte l’autrice è Shonda Rhimes, che varia la ricetta melodrammatica del suo Grey’s Anatomyambientandola nella Casa Bianca, e raccontando su un network generalista tutti i trucchi del manipolatore d’immagine. Segno che ormai è materia più che comune.

Olivia Pope (Kerry Washinghton) è una fixer, anzi la fixer di Washighton. Come crisis manager, aggiusta le cose insieme al suo staff: se un loro cliente si ritrova nei guai, fanno tutto ciò che possono per ripulire la sua immagi- ne sedando sul nascere ogni possibile scandalo. Controllo del palco e, se ser- ve, pulizia del retropalco, magari una scena di un crimine. Non fanno giusti- zia, aggirano la legge, lavorano al limi- te. Certo, è pur sempre la Rhimes sulla Abc: i clienti della Pope sono spesso nel giusto, e il loro peccato è spesso il trop- po amore. Che è lo stesso della Pope: ha co- struito l’immagine vincente dell’attua- le Presidente degli Stati Uniti Fitzge- rald Grant, ma si è licenziata perché si è innamorata. Come uomo può tradire la calcolatrice moglie (abile a mentire davanti alle telecamere), ma come Pre- sidente Olivia non può permettere che tradisca la Nazione: un loro fuggevole bacio nello Studio Ovale avviene nel perimetro dello stesso per evitare lo sguardo della videocamera sul soffitto.

Spunta però Amanda Tanner: anche lei avrebbe avuto una relazione con il presidente. Sentendosi tradita, Olivia la prende come cliente, e Grant, sentendosi tradito, chiede al suo capo staff di far guerra a Olivia. Ma lo scandalo è inevitabile: qualcuno ricatta il presidente con una registrazione hot, Amanda viene ritrovata morta, un membro dello staff legato al Vp svela alla stampa la relazione tra i due. E allora, chi ha tradito chi? Qualcuno alla Casa Bianca ha le mani sporche di sangue, e qualcuno ha ordito un complotto perché il presidente ha “approfittato di quella ragazza, dell’intero paese, tradendo la gente che lo aveva eletto, promettendo cose mai mantenute”.

Traditi che si fanno a loro volta traditori. Dopo anni di prigionia, il marine Nicholas Brody (Damian Lewis) è diventato un terrorista non per un “lavaggio del cervello”, ma perché il bambino cui si era affezionato, figlio del suo sequestratore, è stato ucciso in un attacco USA. Uno sterminio di innocenti negato in Tv dal Vp, che anzi accusò i terroristi di fabbricare immagini false. I politici hanno mentito due volte a Brody: hanno condotto una guerra sporca, hanno negato le loro responsabilità. Spiega nel suo video da suicida Brody: “Ho giurato solennemente di difendere gli Stati Uniti d’America da qualunque nemico, sia interno che esterno. E se oggi ho deciso di agire è per proteggere il mio Paese da tale nemico interno. Parlo del Vicepresidente e dei membri del suo team per la Sicurezza Nazionale, perché so per certo che sono dei bugiardi e dei criminali di guerra”. Una macchia sulla coscienza della Nazione.

 

Idealisti?

In Homeland (Alex Gansa e Howard Gordon, 2011, Showtime, in Italia su Fox), Nicholas Brody è un idealista deluso. Paradosso: avendo desistito all’ultimo nel suo intento, si ritrova deputato e poi candidato come Vp a fianco dell’uomo che avrebbe dovuto uccidere. Brody è l’ulteriore dimostrazione che dei politici non ci si può proprio fidare.

Anche il capitano Marcus Chaplin (Andre Braugher) del sottomarino di Last Resort (Shawn Ryan e Karl Gajdusek, 2012, ABC, in Italia su Fox) è un idealista deluso. A Washighton le cose vanno a rotoli: si sta votando per l’impeachment del presidente e alcuni generali si sono dimessi. Quando Chaplin riceve l’ordine di attaccare il Pakistan senza spiegazioni, si rifiuta. Il suo sottomarino è così attaccato dagli Stati Uniti. Rifugiati su di un’isola, lui e i suoi uomini, ormai traditori, devono difendersi sperando di riabilitare la loro immagine. Nelle stanze del potere si trama forse qualcosa, e ci vanno di mezzo i più fieri servitori della Patria. Immagine, forse, dei comuni cittadini.

Eppure c’è qualcuno che ancora ci crede là a Washinghton. C’è ancora qualcuno che, seppur ambiziosa, mette il bene del Paese al di sopra tutto, persino della sua problematica famiglia, che cerca di proteggere dalla curiosità della stampa. E’ Elaine Barrish (Sigourney Weaver), ora Segretario di Stato dopo aver perso le primarie contro l’attuale presidente. E’ stata First Lady per ben due volte a fianco di suo marito, presidente amato e però donnaiolo, da cui adesso ha divorziato. Tutti la considerano un freddo ambizioso animale politico, e nessuno invece vede il suo cuore, dice il suo ex marito. Tranne noi spettatori, si intende.

Political Animals (Greg Berlanti, 2012, Usa Network) è una rilettura dalla parte delle donne (“L’ambizione appare meglio sugli uomini”) liberamente ispirata alla vita di Hilary Clinton. L’unico politico competente e idealista, la cui unica pecca è essere innamorata di un uomo farfallone, si ispira dunque a un personaggio reale ancora potente, ma di un’epoca precedente a Bush e a Obama. E, a ben vedere, il preparato Fitzegerald Grant è un idealizzato (sul piano sentimentale) Clinton (Olivia Pope è ispirata alla vera Judy Smith, anche producer di Scandal, consulente comunicazione di Bush padre e crisis manager nel caso Lewinsky). E quel Fitzgerald pare richiamare alla mente un altro presidente idealista seppur donnaiolo.

Derisione. Disillusione. Confusione. Senso di tradimento. Sono questi i sentimenti che traspaiono nella rappresentazione della politica nelle serie americane di questi ultimi due anni. Sono forse il retaggio dell’era Bush, ma che Obama non è riuscito certo a cancellare, anzi. Tom Kane può compiere le sue astute manovre in nome di un gattopardesco “change”: “L’illusione del cambiamento d’altro canto è una buona cosa. Dà alla gente un lampo di speranza. Fa credere loro nella possibilità di fare le cose”.

L’idealismo è dunque del passato. Eppure. Eppure Tom Kane ha cercato sempre il bene pubblico. Eppure Selina Meyer vorrebbe tanto essere all’altezza. Nonostante tutto, non agiscono per basso tornaconto personale, per “ostriche e champagne”. E poi c’è il futuro. Vero, “il rapporto tra governo e cittadini si è incrinato” e “il paese è ridotto male”, ma “possiamo fare di meglio” sostiene il capitano Chaplin. Non lo dice anche Sorkin in Newsroom?