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Parisi, il moderato con la Lega intorno

Profilo di un aspirante sindaco di Milano che è, o vorrebbe essere, tutto ciò che piace alla borghesia meneghina.

10 Maggio 2016

Quando una giornalista gli ha domandato, durante un popolare talk show della mattina, quale fosse la differenza principale tra lui e il suo rivale, Stefano Parisi ha risposto: «Beh, a differenza di Sala, io sono di sinistra». Avrebbe potuto diventare una delle battute più celebri della campagna elettorale milanese, se non fosse che il candidato del centrodestra si è subito affrettato a correggere il tiro: «Intendevo dire: quando ero giovane, io ero di sinistra, lui no». Non fosse mai che qualcuno potesse davvero pensare che l’aspirante sindaco, che sta portando avanti una campagna tutta all’insegna della moderazione, fosse un po’ troppo «di sinistra» per guidare una coalizione che include anche Fratelli d’Italia e Lega Nord.

Cinquantanovenne nato e cresciuto a Roma, però da quasi vent’anni meneghino e fino a poco tempo fa noto soprattutto come ex amministratore delegato di Fastweb, in effetti Parisi il pedigree di ex giovane di sinistra ce l’ha tutto (cosa non inusuale, peraltro, nei conservatori italiani, tra le cui fila abbondano gli ex sessantottini): laureato in Economia e Commercio alla Sapienza, durante gli anni universitari, cioè i Settanta, è stato vicesegretario degli studenti socialisti. I primi passi lavorativi nell’ufficio studi della Cgil, poi una mirabolante carriera da specialista nel Psi: nei primi anni Ottanta, quando il ragazzo non aveva ancora trent’anni, il ministro del Lavoro Gianni De Michelis lo volle alla segreteria tecnica; dopo lo rivolle con sé, sempre alla segreteria tecnica, per la vicepresidenza del Consiglio e poi al ministero degli Esteri. L’avanzata da “tecnico dei politici” è poi proseguita con Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.

L’incontro con il centrodestra non è avvenuto sotto l’egida di Silvio Berlusconi, bensì con il misuratissimo e uber-meneghino Gabriele Albertini, che, dopo essere stato eletto sindaco di Milano, lo nominò city manager. Fu allora, correva l’anno 1997, che Parisi si trasferì nel capoluogo lombardo, cominciando a trasformarsi in quello che è oggi: un indipendente che piace a destra, ma che la sinistra non riesce a odiare (e la parte della sinistra che riesce a odiarlo, quella radical-leoncavallina, non va pazza neanche per Sala); un manager prestato alla politica con toni tutt’altro che berlusconiani; un uomo “del fare” nell’accezione lombarda del termine. Per chi è avvezzo di faccende milanesi e ha più di trent’anni, non sarà difficile riconoscere lo stile, fatto di terzismo pragmatico, di fair play garbatamente ostentato, di moderazione come stile di comunicazione prima ancora che come programma politico: Parisi punta a essere un Albertini bis, e infatti non è un caso che l’ex primo cittadino sia capolista della formazione civica che lo sostiene.

L’aspirante sindaco è, o vorrebbe essere, tutto ciò che piace alla borghesia meneghina; o meglio a quella parte di essa che s’è convinta, a torto o a ragione, di essere la cosa più vicina in questo Paese a una classe media anglosassone: borghese, liberale, mediamente colta, laboriosa e, soprattutto, allergica agli eccessi. È un candidato per «il classico tipo di milanese che, come me, avrebbe avuto problemi a votare se non ci fosse stato Parisi», dice a Studio Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e candidato nella lista civica. Dell’aspirante sindaco Tortorella dice di apprezzare soprattutto una linea politica «non urlata» e il tentativo di «rimediare a certi eccessi della sua coalizione, perché è evidente che un centrodestra aggressivo, xenofobo e antieuropeo rovinerebbe Milano». Il giornalista, che conosce Parisi dal 2010, lo definisce uno uomo «coerente», «competente» e «grande conoscitore della macchina comunale», il cui unico difetto consisterebbe in «un eccesso di bon ton» (tradotto: troppo gentile coi nemici).

stefano parisi

Più di un “Albertini bis”, a volere essere precisi, Parisi punta a essere un Albertini 2.0, da cui l’enfasi sull’innovazione nel suo programma, dove figurano frasi come «costruiamo una Milano digitale, veloce, comoda» e «più tecnologia per ridurre i bisogni di mobilità», resa credibile dalla passata esperienza a Fastweb. Quel capitolo della sua vita gli valse la fama di uno dei manager più pagati d’Italia e anche un avviso di garanzia che lo costrinse a dimettersi: indagato per riciclaggio, fu però prosciolto, ma soltanto dopo tre anni. L’episodio lo spinse a considerarsi un perseguitato della giustizia: «Avrebbero potuto archiviare tutto nel giro di quindici giorni, mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile».

Soprattutto, Parisi è un milanese romano. «Lo si vede anche nello stile personale, è un tipo empatico, un po’ compagnone e con qualche accenno di spacconaggine come solo i romani sanno esserlo. Però dice le cose come stanno, ma con garbo, un modo di fare che più milanese di così non si può», ci racconta un conoscente di vecchia data, che preferisce restare anonimo. Di Parisi e del suo essere meneghino d’importazione, parla invece volentieri un altro dei candidati della sua lista civica: «Essere milanese è un po’ come essere newyorchese, lo si è per scelta, non per nascita», dice l’architetto Yoram Ortona, già eletto come indipendente a consigliere di zona 7 e consigliere della comunità ebraica di Milano, dove Parisi è conosciuto più altro come “marito di” (sua moglie Anita Friedman è una colonna portante). «Milano è da sempre un polo d’attrazione e ora lo sta diventando ancora di più; è pieno di persone che si trasferiscono dall’estero e dal resto del Paese, tanto che io stesso sono nato in Libia. Dunque Parisi rappresenta perfettamente l’identità di Milano», prosegue il consigliere. «Anzi, chi è a Milano per scelta tende a capire forse meglio lo spirito di questa città, quanto sia centrale per l’Italia e per l’Europa».

Alcuni dei suoi detrattori dicono che Parisi è fin troppo simile a Sala, un manager prestato alla politica con precedenti illustri, l’Expo per il candidato del Pd, il ruolo di city manager per quello del centrodestra, e una credibilità da moderato al di sopra di ogni sospetto. A volere essere maligni – e molti lo sono, anche nell’austero capoluogo lombardo – si potrebbe quasi pensare che sia stato messo lì per sottrarre voti proprio dove Sala va più forte, al centro, tra quei borghesi moderati, laboriosi e illuminati che sono l’asse portante di Milano, o che credono di esserlo.

Su cosa costituisca una città «aperta» forse lui e il centrosinistra hanno ancora idee diverse

A volere essere più duri ancora, si potrebbe fare notare che Parisi ha per alleate forze politiche, come Lega e Forza Italia (i Fratelli meloniani forse sono un discorso a sé), con cui la borghesia milanese dovrebbe avere poco in comune, ma che finora ha in parte votato, magari turandosi un po’ il naso, dimostrando di essere forse meno “illuminata” di quanto non le piacerebbe pensare. «Vedo molta teoria e poca pratica» dice della moderazione del fronte Parisi una candidata dello schieramento opposto, Sumaya Abdel Qader, indipendente nelle liste del Pd. «Se davvero vuole dimostrare di essere un moderato, Parisi dovrebbe prendere più distanze dalla Lega e non mi pare che lo abbia fatto». Ai primi di maggio la donna, musulmana praticante nata in Italia da genitori palestinesi, era stata oggetto di un attacco indiretto, ma assai personale, da parte di Parisi, che in un’intervista aveva criticato il Pd per avere «candidato un’esponente dei Fratelli Musulmani». Sia la candidata sia il Pd hanno respinto totalmente l’accusa, che probabilmente Parisi ha raccolto da alcuni articoli pubblicati su Libero e sul Giornale, una «uscita infelice, fatta senza verifica alcuna», che secondo Abdel Qader getta un’ombra sulle reali distanze di Parisi dalla destra xenofoba.

Quando ha annunciato la sua candidatura, lo scorso febbraio, l’ex amministratore delegato di Fastweb ha dichiarato che, nel caso di un suo mandato da sindaco, «Milano tornerà a essere aperta, libera, sicura, efficiente e orgogliosa di poter dare il meglio di sé al Paese». Su cosa costituisca una città «aperta», però, forse lui e il centrosinistra hanno ancora idee diverse.

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