Attualità

Perché, 20 anni dopo, è giusto riparlare dell’omicidio Marta Russo

Tutti gli errori e le incoerenze di una macchina giudiziaria e giornalistica che ancora oggi non smette di fare vittime.

di Luca Serafini

Ricorre in questi giorni il ventesimo anniversario del cosiddetto “delitto della Sapienza”, ovvero il tragico ferimento all’università di Roma della studentessa Marta Russo, colpita da un proiettile e deceduta quattro giorni dopo. Un libro del giornalista Vittorio Pezzuto intitolato Marta Russo. Di sicuro c’è solo che è morta, da poco autopubblicato su Amazon ma tra i più venduti delle ultime settimane, prova a mettere ordine nella mole di carte processuali, riportando l’attenzione su una serie di circostanze che hanno trasformato un fatto di cronaca in un’infausta rappresentazione di alcuni dei mali endemici non solo del sistema giudiziario italiano, ma anche di quello mediatico, in cui alcuni dei più elementari diritti giuridici, costituzionali e umani sono stati calpestati, con conseguenze che si sono poi trascinate fino ai giorni nostri.

Proviamo allora a ricostruire la vicenda nei suoi aspetti salienti e, purtroppo, inquietanti. Il 9 maggio 1997 Marta Russo viene colpita da un proiettile mentre passeggia con l’amica Jolanda Ricci all’interno della città universitaria della Sapienza. Il fatto scuote immediatamente la coscienza collettiva, e la procura di Roma viene pressata da opinione pubblica e istituzioni affinché individui i responsabili nel più breve tempo possibile. La stessa procura di Roma, in quegli anni, portava il peso di numerosi delitti rimasti irrisolti, tra cui quelli di via Poma e dell’Olgiata, gli omicidi di Antonella Di Veroli e Giuseppina Nicoloso, e altri ancora. L’eco mediatica del delitto della Sapienza diventa insomma immediatamente un’occasione di potenziale riscatto per i pm, ma anche una spada di Damocle che rischia di minarne ulteriormente la reputazione.

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Nei primi 12 giorni vengono battute alcune piste che si rivelano però infruttuose. La svolta sembra arrivare il 21 maggio, quando la polizia scientifica, effettuando dei rilievi nelle aule dell’istituto di Filosofia del diritto, rinviene sul davanzale della finestra dell’aula 6 una particella di polvere composta da due sostanze (bario e antimonio) considerate provenienti, in maniera certa ed esclusiva, da polvere da sparo. Successive perizie super partes predisposte sia dalla Corte d’Assise che dalla Corte d’Assise d’Appello riveleranno la totale arbitrarietà di questo giudizio, evidenziando come le due sostanze in questione provenissero molto più probabilmente da fenomeni di inquinamento ambientale, tanto che analoghe tracce verranno rilevate su numerose altre finestre dell’istituto. Non solo, ma i periti sosterranno che la preponderante presenza di ferro in quelle particelle le rendeva comunque difficilmente compatibili con un colpo esploso da una pistola calibro 22 con cartucce di marca Ely (quelle del delitto), facendo anche osservare che, qualora fosse stato davvero esploso un colpo sul davanzale della finestra, le particelle rimaste anche a distanza di giorni sarebbero state non due ma centinaia. I periti rileveranno anche che la traiettoria del proiettile sparato fosse compatibile con un colpo esploso non solo dall’aula 6, ma anche dalle aule 1, 3, 4, 7 e 8, nonché dal bagno per disabili dell’istituto di Statistica, e che le aule 7, 8 e il bagno disabili (non quindi, l’aula 6) erano comunque i punti più probabili da cui poteva essere partito lo sparo.

Tutto questo accade però durante il processo. Nel corso delle indagini quella traccia di bario e antimonio porta invece gli inquirenti e la procura ad abbandonare qualsiasi pista alternativa per concentrarsi esclusivamente sull’aula 6, considerata come luogo da cui è certamente stato sparato il colpo che ha ucciso Marta Russo. Si cerca dunque di capire chi fosse in quella stanza all’ora del delitto, e si scopre che alle 11:44, due minuti dopo il presunto orario dello sparo, la dottoranda Maria Chiara Lipari ha fatto una telefonata proprio da lì. Messa sotto torchio, la Lipari dapprima nega di aver notato qualcosa di anomalo, sostenendo che l’aula fosse vuota. Questa versione non soddisfa però i pubblici ministeri che, ormai certi che il caso vada risolto tra le mura di quella stanza, investono la Lipari del ruolo di unica possibile risolutrice del delitto, paladina della giustizia, persona dalle cui facoltà mnemoniche dipende in maniera esclusiva la possibilità di trovare l’assassino di Marta Russo e dare sollievo alla sua famiglia.

La dottoranda viene quindi convinta che l’aula 6 non poteva essere vuota e subisce pressioni che racconterà così in una telefonata intercettata: «Questo diceva: sputtano lei, sputtano suo padre… per intimidirti, per costringerti… dicevano “mors tua vita mea” … mi dicevano sì, però allora incolpiamo a te, per cui dillo… Mi hanno detto: “Guardi, lei nel minuto, più o meno nei minuti in cui hanno sparato, si trovava nella stanza da cui hanno sparato […] Mi volevano mettere l’angoscia […] Questi fino alle cinque di mattina hanno voluto assolutamente che dal subconscio, da, veramente, dall’ano proprio del cervello mi venisse in mente qualche faccia, qualche immagine”».

Ecco allora che la Lipari progressivamente comincia a riempire la stanza di figure che, come detto, non potevano non esserci. Fa il nome di due suoi colleghi, Andrea Simari e Massimo Mancini, che però si accerterà non essere mai stati all’università quella mattina (viene da chiedersi cosa sarebbe oggi della vita di queste persone se, per loro sventura, avessero avuto alibi meno solidi). Tira in ballo il professor Bruno Romano, direttore dell’istituto, accusandolo di aver organizzato una sorta di muro di omertà per evitare il coinvolgimento dell’istituto stesso nel delitto (Romano, incriminato, andrà anche lui a processo e sarà assolto da tutte le accuse). Successivamente colloca sulla scena Gabriella Alletto, segretaria dell’istituto, e Francesco Liparota, bibliotecario. Qualche giorno dopo rammenta, seppur con molta incertezza, anche la presenza di Salvatore Ferraro. Siamo al 24 maggio, 15 giorni dopo il delitto.

Man mano che passavano i giorni, invece di dimenticare sempre più, come accade a tutti noi, Maria Chiara Lipari ricordava sempre meglioIl professor Alberto Beretta Anguissola, presidente del Comitato per la Difesa di Scattone e Ferraro a cui aderirono molti giornalisti e intellettuali, scrisse in un articolo: «Maria Chiara Lipari, piuttosto certa della presenza di Liparota e della signora Alletto, riguardo a Ferraro non si sente sicura. Ella parte poi per un viaggio di alcuni giorni in Israele, da cui tornerà il 4 giugno. Subito incontra gli inquirenti (senza nessuna verbalizzazione) che le chiedono assetati di memorie: “Si è ricordata qualcos’altro?”. E in effetti sì, man mano che passavano i giorni, invece di dimenticare sempre più, come accade a tutti noi, Maria Chiara Lipari ricordava sempre meglio. Sarà stato forse il miracoloso effetto della visita al Santo Sepolcro di Gerusalemme oppure al Monte delle Beatitudini sul bel lago di Tiberiade, fatto sta che, atterrando a Fiumicino, la dottoressa ora è proprio sicura che quel “terzo uomo” fosse Ferraro. “E Scattone?”, chiederà qualcuno, con impazienza. Per Scattone bisogna aspettare ancora un po’, anzi parecchio, perché, nonostante gli immani sforzi e le grandi fatiche, la dottoressa riuscirà a ricordare la presenza di Scattone solo l’8 agosto (cioè tre mesi, dico tre mesi, dopo il ferimento di Marta Russo), e ne fa il nome agli inquirenti, in termini di “probabilità”, per un “superiore senso di responsabilità”».

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Queste le basi, non esattamente solidissime e genuine, su cui viene costruita la prima decisiva testimonianza. Ma il peggio deve ancora arrivare. Chiamata in causa dalla Lipari, è ora alla segretaria Gabriella Alletto che si rivolge la procura per trovare conferma sui nomi di Scattone e Ferraro. Per ben 13 interrogatori la Alletto nega con forza di essere stata nell’aula 6 all’ora del delitto, sostenendo che Maria Chiara Lipari si è confusa (non sarebbe la prima volta, come visto). In un’intercettazione ambientale, la Alletto confida alla dottoressa Laura Cappelli (che confermerà i contenuti di questa conversazione in dibattimento): «Mi stanno convincendo che ero lì dentro, mi stanno convincendo che hanno sparato da lì… Mi hanno messo in mezzo, io in quella stanza non c’ero, ma mi conviene dire che c’ero… Loro si immaginano la scena e hanno bisogno di una testimonianza attendibile».

L’11 giugno, al quattordicesimo interrogatorio, dopo aver nuovamente negato per ore di aver assistito al delitto, la Alletto cambia versione sostenendo di aver visto Scattone sparare e Ferraro mettersi le mani nei capelli, e che i due assistenti si sarebbero poi frettolosamente allontanati dall’aula nascondendo la pistola nella borsa di Ferraro. Questa confessione avviene però dopo un interrogatorio fiume in cui è presente anche il cognato della Alletto Luigi Di Mauro, ispettore di polizia. L’interrogatorio viene videoregistrato. Si sente questa conversazione tra la Alletto e il cognato:

ALLETTO: Io non ce stavo là dentro Gi’… te lo giuro sulla testa dei miei figli, ha sbagliato la Lipari… Stavo nella quattro… (…) Da sola… a fare un fax, che la Lipari lo può di’… io ci ho anche le prove che ho fatto il fax… (…)
DI MAURO: Fregatene di tutto, però la cosa più importante è chiudere ‘sta pratica. (…) Non vorrei che questi pensano che stai coprendo l’omicida…. (…) quando ci so’ sti reati qua, devi essere sleale (…)
ALLETTO: Ma se io non l’ho visto quello che l’ha fatto, Gi’!
DI MAURO: Ma magari hai sentito qualche cosa, eh, non è importante che tu l’hai visto materialmente(…) È meglio farcelo fare agli altri il reato!

La Alletto, disperata e in lacrime perché nessuno sembra crederle, continua comunque per ore a ribadire la sua tesi ai pm Italo Ormanni e Carlo Lasperanza. A un certo punto Lasperanza rivolge queste parole alla segretaria: «Cioè, non ha capito che lei è messa male, è messa peggio di quello che ha sparato… I casi sono due: o lei è responsabile di omicidio, o lei è responsabile di favoreggiamento personale. Non si sbaglia, non si scappa. Per omicidio lei va certamente in carcere e non esce più».

Italo Ormanni rincara la dose:

ALLETTO: Finirà che me ammazzo… a me me prenderanno pe’ scema, pe’ fissata a me.
ORMANNI: No, la prenderanno… la prenderemo per omicida… La prenderemo per omicida.

La segretaria Gabriella Alletto, completamente ignara dei meccanismi di funzionamento della legge (nell’interrogatorio videoregistrato non è assistita da un avvocato) e minacciata di subire conseguenze gravissime se non testimonia, anche qui, ciò che non può non aver visto, alla fine cede.

L’altro personaggio chiamato in causa da Maria Chiara Lipari è il bibliotecario Francesco Liparota. Anche lui inizialmente sconfessa la dottoranda, ma dopo numerosi interrogatori conferma la versione della Alletto, salvo poi ritrattare il giorno dopo negando fino alla fine del processo di aver mai assistito al delitto. Così racconterà il momento della prima confessione in dibattimento: «Il pm Lasperanza mi raggiunse in Questura e mi disse: “Guardi, i giochi sono fatti, la Alletto ha parlato, sappiamo che lei non ha sparato, ma deve confermarci tutto altrimenti va in galera…” In quel momento stavo impazzendo. Alcuni poliziotti ridevano. Ero in crisi e leggendo l’ordinanza di custodia cautelare fui preso da non pochi dubbi circa le mie psicofacoltà in quel momento. In quei giorni stavo male e mi curavo prendendo dei farmaci e pensai che forse avevo assistito alla scena senza essermene accorto. Un poliziotto mi descrisse il carcere e quello che mi sarebbe toccato da detenuto… Decisi di confermare quanto raccontato dalla Alletto variando qualche piccolo particolare per essere più attendibile… Lo feci solo per uscire dal carcere… Appena fuori, piangendo, dissi subito a mio fratello che quanto avevo raccontato non corrispondeva al vero… Il giorno dopo preso dai sensi di colpa mi presentai spontaneamente per ritrattare… Sono certo che io non ho mai vissuto la scena raccontata dalla signora Alletto, e che la mattina del 9 maggio non sono mai stato, contemporaneamente alla signora Alletto, al dottor Scattone e al dottor Ferraro nell’aula 6, e tantomeno alla dottoressa Lipari».

Unica altra testimone dell’accusa è Giuliana Olzai, studentessa di 46 anni che due mesi dopo il delitto sosterrà di aver avuto un lampo di memoria (fenomeno psichico stranamente diffuso in questa vicenda) e di essersi ricordata di aver visto, la mattina del 9 maggio, Scattone e Ferraro allontanarsi trafelati dall’università (perlomeno si tratta dell’unica testimonianza spontanea).

Nonostante Scattone e Ferraro fossero due assistenti stimati e conosciuti da moltissimi studenti, nessun altro li ha visti quel giorno nelle aule dell’istituto di Filosofia del diritto. Molte persone che hanno testimoniato in loro favore sono state puntualmente incriminate di falsa testimonianza. L’arma del delitto non è mai stata ritrovata. Quanto al movente, in una prima fase venne battuta la pista del cosiddetto “delitto perfetto”: i due assistenti (che non conoscevano Marta Russo e non avevano quindi nessun motivo apparente per ucciderla), imbevuti di pericolose letture filosofiche, avevano un culto della propria personalità che tracimava nel superomismo. Avrebbero dunque sparato per dimostrare che era possibile commettere un delitto senza essere scoperti (mettendo così a rischio la loro carriera e la loro vita), dopo aver esposto la teoria in alcune lezioni universitarie. Questa tesi verrà clamorosamente smentita da tutte le risultanze testimoniali e dibattimentali. Questo non impedisce però ad una certa stampa di costruirci sopra una un vergognoso linciaggio mediatico in cui i due ricercatori vengono dipinti coi tratti dei peggiori serial killer.

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Scattone viene condannato per omicidio colposo a 5 anni e quatto mesi, Ferraro a 4 anni e due mesi per favoreggiamento, nonostante un primo annullamento con rinvio della Cassazione su richiesta dello stesso procuratore Vincenzo Geraci, che definisce le testimonianze su cui era stata costruita l’accusa “castelli di sabbia”. La condanna, molto lieve per la gravità del delitto, fu considerata da molti commentatori una decisione pilatesca, che mediava tra l’estrema fragilità dell’impianto probatorio e la necessità di dare un volto agli assassini di Marta Russo, che altrimenti non sarebbero stati probabilmente mai trovati.

La pistola aveva probabilmente un silenziatore, cosa bizzarra per un delitto non premeditatoA Scattone, insomma, sarebbe partito un colpo per sbaglio mentre giocherellava con una pistola per «motivi ignoti», tutto questo in una delle aule di maggior passaggio dell’istituto, attraverso una delle finestre più esposte alla vista dal cortile, alla presenza di almeno altre 3 persone, e nonostante per sparare da lì e colpire con precisione Marta Russo si dovesse sporgere di circa un metro per la presenza di due condizionatori d’aria che ostruivano la visuale. La pistola aveva probabilmente un silenziatore, cosa bizzarra per un delitto non premeditato. Il certificato ritirato alla segreteria di lettere da Scattone pochi minuti dopo il delitto (la parte più consistente del suo alibi) sarebbe stato probabilmente ritirato da qualcun altro mandato dallo stesso Scattone (anche questo suggerirebbe una premeditazione del delitto). A Ferraro, accusato del reato meno grave di favoreggiamento, fu proposto più volte di accusare Scattone per cavarsela con una condanna irrisoria, ma lui si è sempre rifiutato. Lo stesso Scattone ha preferito rischiare una condanna pesantissima, vista la tesi accusatoria dell’omicidio volontario, invece di confessare di aver fatto partire un colpo per sbaglio, come infine stabilito dalla sentenza.

Vittorio Pezzuto, nel libro citato all’inizio, evidenzia come gli inquirenti abbiano scartato alcune piste alternative molto promettenti. Tra queste, quella dello scambio di persona. Una studentessa della Sapienza molto somigliante a Marta, infatti, era figlia di un imprenditore messinese più volte minacciato da boss mafiosi. La stessa ragazza e il padre si rivolsero alla polizia per segnalare la circostanza giudicando probabile lo scambio di persona. Altri movimenti sospetti e avvistamenti presso il bagno disabili e altre aule ritenute poi compatibili col delitto vennero totalmente accantonati dopo il rinvenimento, nell’aula 6, delle due famose particelle di bario e antimonio.

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Si tratta di una vicenda, quindi, che ha posto questioni fondamentali sulla sproporzione tra i poteri della pubblica accusa e quelli della difesa, sui diritti degli imputati ad un giusto processo, sui diritti degli stessi testimoni ad essere trattati con rispetto e dignità, su un certo modo di fare le indagini, innamorandosi di una pista accusatoria e forzando una serie di elementi che possano confermare il teorema iniziale (la procura, come è noto, ha la funzione di ricercare la verità anche se questa scagiona persone inizialmente indagate o imputate), sulla possibilità di condannare qualcuno anche a fronte di indizi a dir poco contraddittori e testimonianze raccolte con i metodi che abbiamo visto (la condanna di un imputato dovrebbe avvenire quando si è certi della sua colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”).

Giuseppe D’Avanzo, sul Corriere della Sera, il 22 febbraio 1999 scrisse: «Come un poliziotto, Carlo Lasperanza (il pm) non si rende conto dell’effetto devastante della macchina inquisitoria che ha messo in moto, della violenza dei suoi ingranaggi, del terrore che può provocare quel continuo agitare fantasmi di ipotetiche responsabilità. E quel che è peggio (se è possibile che ci sia ancora un peggio), Carlo Lasperanza non si rende conto di aver irrimediabilmente distrutto la possibilità di dare un volto agli assassini di Marta».

Il penoso corollario di tutto questo, che tira in ballo una volta di più le responsabilità dei giornalisti, riguarda il secondo tempo della campagna mediatica contro Scattone e Ferraro, a cui è stato impedito il reinserimento nella società come previsto non solo da qualsiasi convenzione dei diritti umani nonché dal buon senso, ma anche dalla nostra Costituzione, che all’articolo 27 prevede la finalità rieducativa della pena. Il più colpito dai sostenitori del “fine pena mai”, dell’ergastolo civico che dovrebbe integrare le sentenze della magistratura, è stato Scattone, che ha dovuto rinunciare più volte ad incarichi di insegnamento anche a causa delle polemiche montate dalla stampa, e che oggi si mantiene con piccoli lavori di traduzione.

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Il 9 settembre 2015 il Fatto Quotidiano titola gonfio di indignazione: «Giovanni Scattone, condannato per aver ucciso a fucilate (sic) Marta Russo, insegnerà psicologia in un istituto professionale. Senza parole». Massimo Gramellini, lo stesso giorno, pur ammettendo alla fine di non avere certezze sull’opportunità o meno per Scattone di insegnare al liceo, non mancò di scrivere: «Giovanni Scattone, che nella percezione di tanti italiani rimane un simbolo di fanatismo intellettuale. Il filosofo del diritto che, affacciandosi armato di pistola da una finestra della Sapienza insieme con un collega, abbatte a sangue freddo la studentessa Marta Russo per il puro gusto di sperimentare il delitto perfetto», rimestando così su una tesi accusatoria completamente smentita persino dalle sentenze di condanna e inculcandola nella mente dei suoi (numerosi) lettori.

Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro avevano tutto il diritto di poter ricostruire le loro vite svolgendo le professioni per cui si erano formati, come qualsiasi condannato che abbia scontato la propria pena. Ma come detto non si tratta che dell’epilogo di una vicenda sconcertante, in cui molti hanno ritenuto di poter barattare la maestà del diritto e dei diritti con il compiacimento degli istinti più bassi dell’opinione pubblica, in cui la sana cultura del dubbio ha ceduto alla furia mediatico-giudiziaria che insegue certezze di comodo e colpevoli a tutti i costi, meglio se sbattuti in prima pagina. Viene da chiedersi se fosse davvero questa la giustizia che Marta meritava.

 

Nelle immagini, un’elaborazione grafica di Studio con materiale d’archivio