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Omelek Island, l’isoletta del Pacifico che ha conquistato lo spazio

La storia della piccola base che ha ospitato gli esperimenti di lancio del Falcon1, il primo modello di razzo cargo in assoluto progettato da SpaceX di Elon Musk.

di Enrico Ratto

Omelek Island, 2008, lancio del Falcon1 (via SpaceX, Wikimedia).

Omelek Island è un punto nell’Oceano Pacifico grande quanto due isolati di New York, un’isola della barriera corallina che nemmeno l’algoritmo di Google sa come collocare sulle mappe geografiche ed economiche del pianeta e, forse per questo, offre come risultato un “Turismo a Omelek Island” che atterra su una pagina vuota di Tripadvisor.

Per forza, non c’è turismo ad Omelek Island, non ci sono hotel da prenotare ad Omelek Island, non c’è nulla ad Omelek Island. Solo sabbia, roccia di corallo ed erbacce. È stata una base americana fino agli anni ’60, occupata dai Marines – con metodi da Marines – durante la Seconda guerra mondiale, a cinquemila miglia dalle coste della California. Veniva usata per i test dei missili balistici intercontinentali che dovevano essere lanciati, per una serie di ragioni, dall’equatore. Lo stesso motivo per cui quel puntino di terra emersa è stato scelto, all’inizio degli anni 2000, da Elon Musk. Il fondatore di SpaceX racconta che la prima volta ci è volato sopra con un elicottero della Marina statunitense e gli è sembrato di trovarsi nella scena di un film di Francis Ford Coppola: «Mancava solo la Cavalcata delle Valchirie», ha detto. Altro che “Turismo ad Omelek Island”.

Musk l’ha noleggiata nel 2005 con gli ultimi soldi rimasti in cassa, per tentare il tutto per tutto nel suo progetto di ri-conquista dello spazio, quando già voleva arrivare su Marte ma ancora non era riuscito a mandare un piccolo razzo in orbita senza che finisse in frantumi nell’Oceano. Per questo nessuno si fidava, nessun governo e nessuna compagnia privata firmava con SpaceX contratti per il vero core business dell’operazione, quello più redditizio che visionario: i razzi cargo a basso costo, essere la FedEx, la UPS dello spazio.

La storia l’ha raccontata Eric Berger, editor di Ars Technica, in un libro ricco di dettagli, Liftoff. The Desperate Early Days of SpaceX, and the Launching of a New Era. È una storia molto americana, quasi troppo americana, fatta di tentativi, di ostinazione umana versus “la natura”, di progetti frugali nati con pochi soldi e segnati da un fallimento dopo l’altro finché arriva, finalmente, il successo. Sono i garage della Silicon Valley trasferiti su un’isola deserta nel mezzo del Pacifico.

Tre razzi finiti nell’Oceano, è così che nasce SpaceX. Una squadra di una dozzina di tecnici, gli SpaceXers, assunti direttamente da Musk e convinti a lasciare la sicurezza delle grandi organizzazioni – la Boeing, la Nasa – con le promesse, e gli incentivi, di un uomo (un unico uomo, come funziona in America) con profonda capacità di persuasione. Musk li individuava, visitava le loro case «Il modo migliore per conoscere davvero una persona», guardava nelle loro librerie piene di libri tecnici e romanzi di Asimov – si dice che scartasse i lettori di Steinbeck – ed offriva loro un posto di lavoro sull’isola deserta. Se tutta questa vicenda si fosse svolta in una base del New Mexico, o del Mojave, nessuno di loro sarebbe rimasto per mesi lontano dalle famiglie arrivate dall’Europa e dall’Asia e lasciate in stand-by in una villetta dei sobborghi di Los Angeles. Nessuno di loro si sarebbe lavato con l’acqua piovana, né avrebbe avuto l’impressione di essere «come un animale su un’isola, in cerca solo di un po’ di cibo», quando arrivavano gli elicotteri per sganciare dall’alto sacchi di sigarette e viveri, e poi se ne andavano.

Se si dovesse individuare il momento chiave, la svolta di tutta questa storia “designed in California, assembled in Omelek”, senza dubbio sarebbe il pomeriggio che precede il quarto ed ultimo tentativo di lancio. È il momento in cui o il razzo riesce ad andare in orbita, oppure tutta l’esperienza SpaceX finisce lì. Niente più business dei cargo, niente turismo spaziale, niente più Marte, un giorno. È il 2008, sono tre anni che la squadra di ingegneri, il più grande ha quarant’anni, trascorre ad Omelek periodi di sei mesi, trasportando ogni parte del razzo Falcon1 su un catamarano dalla vicina base di Kwajalein. Per tre volte, assembla sull’isola le parti del razzo, collega i sensori, riempie serbatoi di carburante, guarda le condizioni meteo e si rifugia nella centrale operativa di Kwajalein – restare su quel fazzoletto di terra durante l’accensione del motore è troppo pericoloso – per avviare il conto alla rovescia.

Omelek Island, 2008, lancio del Falcon 1 (via SpaceX, Wikimedia)

Il primo razzo, dicembre 2005, finisce nell’Oceano dopo 34 secondi. «Quando siamo stati assunti, ci è stato detto che il fallimento era una opzione», raccontano gli ingegneri, raccogliendo con le chiatte i resti del razzo che galleggiano nell’Oceano. Musk ricarica la squadra, nessun problema, c’è altro denaro e l’obiettivo è alto, è altro. Qualcuno fa circolare la battuta «Se vuoi diventare milionario, parti da miliardario e fonda una compagnia di razzi». Un anno dopo, il secondo lancio. Finisce in mare dopo 2 minuti e 21 secondi. Musk dice che così va molto meglio. I tecnici iniziano a dubitare delle loro scelte, pensano agli stipendi della Boeing, della Nasa, alle famiglie lontane cinquemila miglia, ai figli che assistono ai fallimenti seriali.

Terzo lancio, maggio del 2008. Tutto funziona per i primi due minuti, poi il razzo si guasta e raggiunge gli altri due nell’Oceano. Ormai i pezzi non li raccoglie più nessuno, si fanno le perizie basandosi sui video e sui dati dei sensori. È il 2008, l’anno della crisi economica, soprattutto per chi si occupa più di finanza che di prodotto, come Musk. Tesla non decolla, SpaceX decolla ma si sfracella in mare. Musk, pieno di debiti, fa uscire i tecnici dal loro garage sull’isola – un bunker in cemento armato, eredità della Seconda guerra mondiale – e li convoca nella sala riunioni in California. Molti pensano che il progetto sia chiuso: per quanto tempo Musk avrebbe continuato a giocare?, si chiedono gli ingegneri. Invece Musk annuncia che fornirà risorse per un quarto razzo, l’ultimo, ma il tempo stringe, avranno solo 6 settimane per portarlo in orbita. «Build it, and fly it», dice ai suoi. Gli ingegneri – piuttosto frustrati – tornano sull’isola, solito percorso, scalo alle Hawaii, secondo scalo a Kwajalein, catamarano per Omelek. Questa volta si fanno aiutare dell’esercito degli Stati Uniti, noleggiano per 500mila dollari un C-17 per trasportare il razzo sull’isola in tempi rapidi. Naturalmente, in volo, per una particolare dinamica di compressione e decompressione, il razzo rischia di implodere nella pancia dell’aereo, ma in qualche modo tutto si risolve. Ormai non sono più solo ingegneri, sono esperti di tecniche di sopravvivenza: sull’isola equatoriale si spalmano il deodorante dietro le ginocchia, come consigliano i Marines, per evitare che anche la pelle prenda fuoco. Alla fine il quarto lancio riesce, e probabilmente non può che essere così, che il fallimento fosse un’opzione è una cosa che si dice per motivare le persone quando le assumi, ma se fallisci e fallisci meglio, poi non puoi costruire questo genere di storie.

Il giorno dopo il successo, Musk mette fine all’esperienza sull’isola del Pacifico, già lavora ai disegni per il Falcon9, razzo molto più potente di quel Falcon1 auto-costruito da una squadra di MacGyver mossi da chissà cosa. Omelek Island viene smantellata e oggi, se cerchi le foto online, tutto sembra rimasto immobile: la spianata di cemento della base di lancio, le palme intorno, le erbacce lambite dalla marea, il molo di attracco del catamarano. Le foto aree non documentano gli odori, ma gli ingegneri ci assicurano che «tutto sapeva di cherosene laggiù, tutte le nostre maglie ne erano impregnate». Come quando Musk l’ha sorvolata con l’elicottero la prima volta, pensando di essere finito dentro una scena di Apocalypse Now.