Cultura | Design

Oggetti per convivere con l’ignoto

Unknown Unknowns è il titolo della 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano, che passa in rassegna idee e tentativi per dare ordine al caos di questi tempi difficili.

di Enrico Ratto

Amy Karle Regenerative Reliquary , 2016 Courtesy the artist Photo: Ars Electronica Vanessa Graf

Con l’ignoto dovremo imparare a conviverci, ma potremmo trovare qualche soluzione per farlo senza traumi. Con l’ignoto, con il caos, con l’assenza di confini tra le discipline, ovviamente con l’assenza di disciplina, convivere persino con queste quattro grandi crisi che hanno aperto il nuovo millennio (tutte insieme, in vent’anni) e che sono elencate all’ingresso della 23° Esposizione Internazionale di Triennale Milano (dal 15 luglio all’11 dicembre 2022): terrorismo, crollo dei mercati finanziari, pandemia, guerra tra i popoli.

Più che soluzioni sono tentativi, modelli proposti dei ventitré Paesi che partecipano a questa esposizione da un titolo che sembra volerci dire che di questo universo non conosciamo pressoché nulla: Unknown Unknowns. Pressoché intraducibile, è una condizione storica, e anche un po’ generazionale. Per affrontarla occorre avere basi solide, probabilmente occorre partire (ripartire, dopo averla presa di mira per qualche anno) dalla scienza. Stefano Boeri, Presidente di Triennale Milano, ha chiamato come main curator Ersilia Vaudo, astrofisica e Chief Diversity Officer all’Agenzia Spaziale Europea e ci spiega il suo punto di vista. «Certo sono stati anni difficili per la scienza. La scienza va capita sia quando offre delle certezze, sia quando apre dei dubbi giganteschi e lo fa esplorando lo sconosciuto. Quello della scienza è un percorso, non è mai un punto di arrivo, dovremmo imparare a leggerla in questo modo».

Ma questa esposizione ci racconta anche che il famoso piano b (no Planet b) può esistere, e che dopo questi vent’anni in cui abbiamo incrociato le dita e confidato quasi esclusivamente nelle operazioni di sostenibilità ambientale, nell’utilizzo responsabile delle risorse, di sicuro tutto questo non è sufficiente. La situazione è più complessa, e forse anche più affascinante di un rubinetto da aprire con parsimonia: la fase due della cura della Terra passa attraverso la convivenza tra le specie, la tutela della biodiversità, il rapporto “umani e non umani” che condividono un pianeta. Quindi, se da una parte abbiamo il padiglione Francia che fa funzionare l’illuminazione con il pannello solare sul tetto dell’edificio della Triennale (cose vintage), dall’altra abbiamo i padiglioni di Paesi Bassi e Germania che con i loro progetti “Interspecies Play” e “Red Forest” sottolineano la necessità e le modalità di un possibile dialogo tra tutti gli elementi che compongono il sistema pianeta Terra.

È la fase due dei nostri tentativi di salvare il Pianeta? chiediamo a Boeri. «Abbiamo capito che c’è bisogno della biodiversità, della coesistenza, dell’intreccio della vita di più specie», spiega l’architetto “«non vuol dire la miscellanea senza regole, tutt’altro. Quello che noi proponiamo non è deresponsabilizzarci. Io sono assolutamente contrario a questa teoria del post-umano, della fine dell’antropocentrismo, credo siano stupidaggini. Credo che il tema sia l’opposto, credo sia quello di un nuovo antropocentrismo, fingere di non essere noi gli autori di un pensiero sul pianeta è una follia ed è anche un’ipocrisia. Quello che noi dovremmo fare, invece, è imparare ad acquisire il punto di vista delle altre specie viventi, sia di quelle che abitano con noi le città sia di quelle che non abitano le città, sia delle specie viventi animali sia vegetali. E fare del nostro meglio, sviluppando la nostra empatia per rappresentare il loro punto di vista. Credo, anzi, che questa sia la massima espressione dell’antropocentrismo».

Quando vediamo ventitré Paesi, di cui solo una parte occidentale, esporre le loro soluzioni per il futuro, ci chiediamo se questo mondo antropocentrico sarà ancora metropolitano. «Di sicuro questi agglomerati di cemento, vetro, asfalto forse non sono il luogo migliore in cui vivere nei prossimi anni», dice Boeri, «le città totalmente minerali non sono più l’obiettivo dei nostri progetti. Che poi le città come densità di relazioni umane, e magari in futuro come relazione di interspecie, rimangano l’habitat principale della nostra specie sul nostro pianeta, io credo di sì«.

L’uomo dunque al centro, e lo mostra in modo evidente l’installazione di Francis Kéré, architetto Pritzker Prize 2022, originario del Burkina Faso con studio a Berlino – «una figura straordinaria della cultura mondiale, non solo dell’architettura ma anche della geopolitica», dice Boeri – nello spazio bar della Triennale. “Under a Coffé Tree” è il titolo, simbolo delle persone che si incontrano in una piazza, così come le popolazioni dell’Africa si ritrovano all’ombra di un albero, e il loro incontro diventava il seme della condivisione dello spazio pubblico, della comunicazione, dello scambio sociale. Ma anche il suo muro nel padiglione del Burkina Faso (per la prima volta in Triennale) allestito da Kéré è un inno all’anti-decorativismo: quei colori, quei disegni a cui ognuno può partecipare, sono lì per esprimere valori, credenze, armonia tra “tutte le creature, senzienti e non senzienti, che popolano il pianeta”.

Molti i nomi e le collaborazioni di questa Esposizione, da Fondation Cartier pour l’Art Contemporain, ai Formafantasma («attivisti quieti«, come li ha definiti Paola Antonelli in una intervista), a Emanuele Coccia che dà forma e materia alla filosofia contemporanea con una la installazione all’ingresso, accanto al grande padiglione Italia curato da Marco Sammicheli.

E poi, appunto, Ersilia Vaudo che cura la grande mostra tematica Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries. È lei che ci sta dicendo che di questo universo conosciamo solo il 5%, per cui se c’è di qualcosa dobbiamo parlare, meglio partire dallo sconosciuto. Sono i misteri della matematica recitati nell’installazione di Patti Smith e le forze del cosmo che ci sorprendono per le forme che riescono a dare alla materia. «La gravità è il più grande dei designer», dice Ersilia Vaudo, e queste sono frasi perfette, che impiegano ben poco per  circolare sui social.