Binta Diaw per Off-White, fotografia di Jim C. Nedd

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Cosa significa essere afroitaliani oggi

Un dialogo con i quattro protagonisti del progetto I Support Young Black Businesses di Off-White, nato per sostenere e mostrare i talenti e le comunità nere in tutto il mondo.

di Davide Coppo

L’opera “Chorus of Soil” di Binta Diaw riproduce la planimetria di una nave per il trasporto schiavi del Millesettecento: ogni zolla di terra rappresenta un essere umano, disteso ordinatamente nel modo in cui i mercanti dell’epoca avevano pensato, compagna dopo compagno, fianco a fianco, per riempire al meglio tutta la metratura delle segrete della barca. Nessuno spazio veniva ignorato: il male è sempre qualcosa di efficiente e ingegnerizzato, in cui niente viene lasciato al caso. È per questo che non si spazza via con una mano di vernice.

L’installazione fa parte della mostra In Search of Our Ancestors’ Garden, inaugurata il 22 gennaio alla galleria Giampaolo Abbondio, a Milano. È la prima personale di Binta, milanese, classe 1995, diplomata all’Accademia di Brera. «Ho voluto utilizzare quell’immagine perché, anche se non è legata al contesto italiano, è un simbolo forte per tutte le diaspore africane», spiega. I suoi genitori sono senegalesi. «Non penso che questa immagine appartenga a un posto preciso. È un’immagine che appartiene alla comunità afroamericana», continua, «ma trova spazio anche a Gorée, in Senegal, questa isola da cui sono partiti tanti schiavi della costa atlantica. E rappresenta anche le diaspore africane in Europa». Gorée, un’isola a forma di virgola a 20 minuti di traghetto da Dakar, è stata per secoli il principale centro di smistamento di schiavi della costa africana. Nell’estate 2013 l’isola di fu una delle prime tappe di Barack Obama durante una tournée politica nel continente. Vedere il primo presidente degli Stati Uniti con discendenze africane affacciarsi alla “Porta del non ritorno” della Maison des Esclaves fu un momento carico di un simbolismo inedito. Alcuni residenti di Dakar presenti al momento della visita di Obama indossavano una maglietta con la scritta: «Welcome home, Mr. President».

Penso che a passi lentissimi la gente inizi a vedere perché è costretta a vedere.

Sarah Misciali

Esattamente sette anni dopo, negli Stati Uniti come in Europa, le condizioni sociali, politiche ed economiche sono cambiate drasticamente, scuotendo dalle fondamenta le più profonde certezze accumulate in secoli di storia. La libertà democratica, con la crescita e il successo di diversi populisti di estrema destra, è seriamente minacciata, e in alcuni Paesi già in fase di smantellamento; una pandemia che ha contagiato milioni di persone in tutto il mondo sta facendo tremare il sistema capitalistico per come lo abbiamo sempre conosciuto; sotto la spinta anche di queste due correnti, un enorme movimento partito dal collettivo Black Lives Matter negli Stati Uniti sta chiedendo, a gran voce e in ogni ambito, la fine del razzismo sistemico su cui l’Occidente, da sempre, ha prosperato. È la prima volta da decenni che un movimento globale riempie le piazze di tutto il mondo, in un’ottica internazionalista. È anche la prima volta che l’Occidente guarda al suo corpo passato, e tenta, timidamente, di ripensarsi.

A Milano, tra le città italiane più colpite dal virus in primavera, e quella, da anni, più al centro dei cambiamenti nazionali verso un qualche tipo di modernità, il 7 giugno la piazza della Stazione Centrale si è riempita di 10mila persone, nonostante una giornata di temporali. Per la prima volta nella pur lunga storia politica della città, quasi metà dei volti non erano caucasici. Per la prima volta, una generazione di afroitaliani era in piazza a chiedere rappresentazione, diritti, opportunità. Durante la manifestazione ricordo un cartello in particolare, sorretto da una ragazza bianca, molto giovane, in alto sopra la sua testa. Diceva: «I understand that I will never understand. However, I stand». Per come sono fatti gli esseri umani, cercare termini di paragone in ciò che hanno già visto o vissuto è naturale. Parlando con Binta, e con altre donne e uomini afroitaliani, da italiano bianco, mi è però impossibile farlo: semplicemente, la mia esperienza non ha mai registrato una condizione in cui non fosse presente il silenzioso e scontato privilegio della mia pelle. Questioni imparate lentamente, a poco a poco, solo negli ultimi anni. Non un senso di colpa, ma una nuova consapevolezza. Faccio domande a cui io non potrei rispondere, ascolto cercando di elaborare al meglio, con strumenti ancora da affilare. Quando chiedo a David Blank, marchigiano e afrodiscendente, come ha vissuto l’omicidio di George Floyd e l’esplosione mediatica, e le prime manifestazioni italiane in solidarietà del movimento Black Lives Matter, dice: «È come se una cosa invisibile fosse diventata finalmente visibile. In quel momento, prima di sentirmi afroitaliano, mi sono veramente sentito nero».

Essere afroitaliano per me è una ricchezza. È avere l’onore e l’opportunità di mischiare due culture insieme.

David Blank

David fa il cantante e il corista. Il 30 aprile è uscito il suo primo singolo, prima ha lavorato con Laura Pausini e, se non ci si fosse messa di mezzo la pandemia, avrebbe girato l’Europa con Mahmood in tournée. Ha vissuto diversi anni a Londra, prima di stabilirsi a Milano. Con gli zii, in Nigeria, non ha più rapporti. Ha un certo magnetismo nella voce, mentre articola le parole lentamente, con un ordine ipnotico. Non è stato facile formarsi una propria identità, spiega, «il David di oggi è ancora un work in progress, molto in progress», dice. Sul set, balla ondeggiando ascoltando una canzone di SZA. Sulla maglietta che indossa la scritta: I Support Young Black Businesses. Lo stesso statement fu indossato a gennaio, prima del lockdown, dal giovane ballerino Carter Williams in una performance che apriva la sfilata Off-White di Parigi. Oggi, mentre continuano le proteste non soltanto in America – Portland, a fine luglio, è solo l’ultima città ad aggiungersi alla lista – suona più adatto che mai. Virgil Abloh, il fondatore di Off-White, ha dato una nuova vita alla campagna decidendo di donare i fondi guadagnati dal lancio al Chicago CRED, un’organizzazione nata per combattere la violenza nelle strade della città natale di Abloh. Non tramite repressione e punizione, ma con un approccio olistico e costruttivo, fatto di prevenzione, counseling, lavoro. In una parola: comunità.

David Blank per Off-White, fotografia di Jim C. Need

Per descriversi, David usa un’immagine bella e sorprendente: «Io sono tre città diverse. Sono nero, sono italiano, sono gay». Racconta come in ognuna di queste città abbia trovato opposizioni e difficoltà: in famiglia, per la propria omosessualità; nella comunità LGBTQI, per quella che definisce «la mascolinità tossica» di una minoranza dominata dagli uomini bianchi; in Italia, per un mix di razzismo e omofobia radicato in profondità nella cultura nazionale. «Sono dell’idea che, essendo nero, gay e italiano, ovunque io vada la mia presenza è politicizzata. Che io lo voglia o meno», dice gravemente. «Ma se devo dire la verità sono contento di far parte di questa ondata. Vedo un risveglio da parte degli afroitaliani. Io c’ero prima, quando non c’era niente, e ci sono anche ora che si stanno muovendo delle cose».

Per Tay Vines le cose sono iniziate diversamente. Oggi fa lo youtuber, l’attore, il comico o il comedian, che mi sembra una parola che esprima meglio questo lavoro che non è soltanto far ridere come lo si faceva negli anni Novanta in tv, ma è nato a Lomé, in Togo, e quando si è trasferito a Lecco, nel 2011, ha iniziato a lavorare in una fabbrica come il padre. «Ma non mi ci trovavo», ricorda. Poi: «Un giorno ho fatto un video su Facebook, una cosa da dieci secondi, e ho preso centinaia di like. A quei tempi con 100 like eri già una star». L’inizio è uno sketch amatoriale, girato a Lecco, una rap battle surreale tra bianchi e neri. Una comicità poco italiana, e Tay infatti cita modelli afroamericani, Kevin Hart, Jamie Foxx, David Chapelle. Fa 25 milioni di visualizzazioni, e la cosa si trasforma in un lavoro.

Era ora che iniziassimo a farci valere, a farci vedere, a supportarci tra di noi.

Tay Vines

Non è un tentativo casuale, quello di Tay, ma una passione antica legata all’infanzia in Africa. Ricorda: «Con mio nonno, in Togo, giocavamo sempre al principe e alla principessa». «Lui veniva apposta a Lumé dalla campagna per stare con me, si metteva una parrucca, ne metteva una anche a me, e invece di andare a giocare con gli altri ragazzini io mi divertivo a stare con lui a fare queste cose». Quando parla del movimento che sta crescendo dalle strade degli Stati Uniti, Tay è ambivalente. «Mi dispiace dirlo, ma è triste che dovevamo aspettare una cosa del genere per iniziare a muoverci», dice. «Sono cose che sono sempre successe, solo che non erano filmate… Comunque era ora che iniziassimo a farci vedere, a farci valere. A supportarci tra di noi». Poi dice qualcosa che di nuovo fa risaltare una profonda differenza di privilegio tra noi due: «Io non lo so come ci si sente a non dover sempre giustificare quello che fai. A non essere sempre al centro dell’attenzione, a non dover essere sempre attento». Io non so come ci si senta, invece, al contrario.

Anche Sarah Misciali è afroitaliana, ma nata da un padre italiano e una madre nigeriana. Oggi studia Menswear alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, e riesce a lavorare come modella e come stylist. È nata a Islamabad, «ma soltanto perché mio padre lavorava in giro per il mondo», e cresciuta a Udine. «Sono cresciuta più con mia madre», racconta di sé e delle sue radici, «e per questo sento una forte identità africana. E poi, alla fine del giorno, le persone non vedono come bianca o metà bianca: mi vedono solo come nera». È la più giovane del gruppo, nata nel 1998, e ha assorbito i racconti di sua madre sulle difficoltà di vivere, da donna africana, nel Nord-Est italiano dei primi anni Zero. Di lei dice che «è la persona più forte e saggia che conosca, ne ha vissute tante che potrebbe scriverci un libro», e lo dice con orgoglio, «come tantissime donne della Nigeria che si fanno il culo per venire e vivere qui». Per spiegare il razzismo usa l’esempio della moda, del suo rapporto con la propria immagine, parla di capelli: «Da piccola non volevo i miei capelli afro, li odiavo, facevo di tutto per tenerli lisci. Il razzismo ti porta a essere insicura». A poco a poco, racconta, è riuscita a smantellare i blocchi, e ora vuole trasformarsi in calamita per la sua comunità, valorizzare la comunità afroitaliana nella moda, poco rappresentata soprattutto in Italia: «Ci sono un sacco di ragazzi e ragazze nere nella moda, artisti emergenti con cui cerco di lavorare per i miei primi lavori di styling», racconta. «Andare negli showroom è una delle ultime cose che faccio».

Mi sento afroitaliana come mi sento italiana afrodiscendente, come mi sento solo italiana, come mi sento senegalese.

Binta Diaw

Afroitaliano: è un termine che muove i suoi primi passi soltanto da pochi anni, e ancora è poco diffuso al di fuori di chi si occupa regolarmente di tematiche di inclusione, rappresentazione e diritti. Le parole non circolano liberamente come una corrente, nelle società, ma capita che si arenino nelle anse che chiamiamo “bolle”. «Io mi sento afroitaliana come mi sento italiana afrodiscendente, come mi sento soltanto italiana, come mi sento senegalese», dice Binta. «Sono dell’idea che l’identità sia qualcosa di così complesso che identificarsi in un’unica categoria la minimizza, in qualche modo». «Prima di adesso io non avevo mai sentito la parola afroitaliano fuori dalla bocca di un afroitaliano», ragiona Sarah. «Essere afroitaliano», riflette David, e fa una pausa per trovare la parola migliore, mi sembra, «è una ricchezza». Parla lentamente, ponderando la scelta di ogni vocabolo. «È un onore poter mischiare due culture. Ovviamente non è semplice. Ma le cose che si vogliono veramente non si raggiungono facilmente». Qual è la tua comunità, David, gli chiedo. «La sto cercando». 

Sarah Misciali per Off-White, fotografia di Jim C. Nedd

Casting a cura di Charity Dago. Charity si è specializzata nell’ambito della moda passando dallo styling, la produzione di fashion show, fino alla consulenza di immagine. Esponente afro-italiana, portatrice di un’eredità che guarda al futuro, si occupa dal 2020 di management di artisti afro-discendenti nati e/o cresciuti in Italia.

Fotografie di Jim Christopher Nedd