Cultura | Personaggi
Nanni Ricordi e l’invenzione della canzone italiana
Un libro racconta la storia del primo talent scout, promotore della "rivoluzione leggera" che cambiò il corso della musica in Italia.
Sul finire dei Cinquanta a Milano, prima di terminare puntualmente la serata al derby, la culla del cabaret italiano, a casa di patron Gianni Bongiovanni, c’erano un paio di luoghi molto frequentati da un milieu artistico giovane, squattrinato e di grande talento, ancora in cerca di un’identità. Uno era il famoso bar Jamaica, in quel di Brera, tappa fissa del gruppo dei fotografi (Dondero, Mulas ecc) e del clan dei pittori, nonché luogo prediletto anche di Luciano Bianciardi, sempre pronto ad inveire contro la città in cui era costretto a vivere. «I milanesi credimi», lo potevi sentir borbottare, avvolto nel suo montgomery blu, «son coglioni come poca gente al mondo».
L’altro era il club Santa Tecla, un’osteria divenuta uno dei locali più alla moda della città meneghina sul modello delle caves parigine, terreno prediletto di apprendisti chansonniermaudit che sembravano vivere una sorta di inquietudine da Generazione Perduta e che erano cresciuti con le sonorità jazz e con i testi esistenzialisti dei cugini francesi. Uno di questi si chiamava Giorgio Gaberscik, aveva una voce da basso e suonava la chitarra nel gruppo Rocky Mountains Ol’ Times Stompers. Un altro si presentava con i nomi piu’ disparati, da Gigi Mai a Gordon Cliff, ma in realtà si chiamava Luigi Tenco, suonava il sax, era affascinato dal cool jazz e passava gran parte del suo tempo ad ascoltare “Route 66” di Nat King Cole, che pare rifacesse alla grande.
Non sarebbero stati soli. Da Genova, dove in quel periodo era più facile fare lo spedizioniere che non il cantautore (espressione peraltro conosciuta), erano arrivati in tanti, da Gino Paoli, grafico e promettente pittore, a Bruno Lauzi, noto allora come battutista formidabile, uno che quando gli chiedevano perché scrivesse sempre canzoni tristi rispondeva serafico: «perché quando sono allegro esco». Dormivano tutti alla Pensione Corso, dove avevano trovato una proprietaria accomodante che faceva prezzi stracciati, avevano uno spirito di gruppo che non troverà uguali nella storia della canzone italiana ma sopratutto ebbero la fortuna di incontrare sulla loro strada un giovane ambizioso e competente, Carlo Emanuele Ricordi, detto Nanni, erede di Giovanni Ricordi, fondatore della più grande casa editrice musicale italiana, che nel 1958 ebbe l’intuizione di creare un nuovo ramo d’azienda, la Dischi Ricordi, dando il via a quella “rivoluzione leggera” che lanciò la prima generazione di cantautori e che impresse un cambiamento radicale al linguaggio musicale italiano.
«Nanni è stato Il primo talent scout dell’era moderna della canzone italiana», scrivono Claudio Ricordi e Michele Coralli, autori del libro L’inventore dei cantautori (Il Saggiatore), che finalmente rende omaggio alla sua storia ripercorrendo la vita di un personaggio d’altri tempi. Perennemente entusiasta, amante della perfezione, «facile da avvicinare ma difficile da conquistare», per usare le parole della figlia Marella, musicista brillante, era un eccellente pianista, iscritto al Pci, «Berlinguer mi propose di trasferirmi a Roma e aprire un settore dedicato allo spettacolo all’interno del partito, ma rifiutai», lavorò per un breve periodo alla Siae e a metà dei Cinquanta fu spedito in America in un ufficio Ricordi a specializzarsi in diritto d’autore.
Sono gli anni delle eleganti frequentazioni newyorkesi, gli incontri con Menotti e Glenn Gould, le cene con Marlene Dietrich e della grande amicizia con Leonard Bernstein, con il quale si narra di memorabili partite a tennis. Nel ’57 però è richiamato in Italia. La Ricordi, per celebrare l’anniversario dei 150 anni, gli affida il compito di produrre il primo disco, la Medea di Cherubini, interpretata nientemeno che dalla Callas. Il ragazzo esegue, ma con la consapevolezza di dover necessariamente volgere lo sguardo in avanti, aiutato in questo dalla convinzione, eredità dell’esperienza americana, che la distinzione tra musica classica e non fosse semplicemente un antico retaggio da sfatare.
«Dissi che non si poteva uscire con un titolo e poi più niente: avremmo buttato via soldi, tempo e credibilità. Se volevamo essere una casa discografica bisognava dare continuità. Così convinsi i dirigenti a non fermarsi alla celebrazione dell’anniversario e a considerare quel disco come il primo di una piccola casa discografica». Restava aperta una questione centrale: «Possibile che non ci sia nessuno, qua in Italia, in grado di dire qualcosa attraverso il veicolo canzone?». Per dare forza al nuovo progetto si decise di trasformare i negozi di proprietà della casa editrice, che vendevano per lo più spartiti e strumenti musicali, in negozi di dischi, per promuovere direttamente le proprie incisioni. L’altra idea brillante fu quella di inventarsi, grazie al lavoro di Angelo Boneschi e dei fratelli Giampiero e Gianfranco Reverberi, veri artefici della cosiddetta (non) scuola genovese, la figura dell’arrangiatore, cosi da riuscire a «plasmare un suono originale, al tempo stesso spontaneo e stuzzicante».
Il primo a essere messo sotto contratto fu Giorgio Gaber. «Non cantava pezzi suoi (non avevano ancora inventato i cantautori). Quindi lui non lo sapeva e io non lo sapevo che cosa sarebbe successo, però fraternizzammo, e fu il primo contratto!», racconta Nanni Ricordi in un’intervista contenuta nel libro. A stretto giro toccò a tutta la combriccola di amici, da Luigi Tenco a Gino Paoli. La sua La Gatta, scritta nella celebre mansarda genovese di Boccadasse vendette all’inizio poco più di cento copie in sei mesi, prima di trasformarsi misteriosamente in un insperato successo da centomila dischi la settimana che lanciò definitivamente il futuro autore di Il cielo in una stanza. «Quando Nanni sentiva qualcosa di un po’ diverso, ci si buttava sopra. Il tutto in un’atmosfera assolutamente da amici, una cosa che non è mai più successa», ha ricordato Paoli.
Molte delle decisioni alla fine prendevano realmente forma nel salotto milanese di Nanni Ricordi, dove c’era sempre un pianoforte a disposizione. «Ci andavo ogni volta che mi veniva in mente un pezzo», ha raccontato Enzo Jannacci. «Scrivevo in milanese perché c’erano le tronche, quindi era più facile fare le rime. Scrissi El portava i scarp del tennise mi dissero che non avrebbe mai venduto una copia, e invece ha venuto moltissimo». Poi toccherà alla Vanoni, che veniva dal Piccolo di Milano e s’inventò il personaggio della ragazza borghese che cantava le canzoni della mala, a Sergio Endrigo e persino a Lucio Dalla, messo sotto contratto dopo essere stato scovato in un localetto bolognese dove si dimenava con il suo clarinetto.
Tutto molto semplice, ad ascoltare le parole del protagonista di questa storia. «La mia fortuna è stata quella di avere incontrato questi personaggi. Li ho fatti cantare come volevano, siamo diventati amici, ci siamo divertiti. Arrivavano, mi portavano dei pezzi, facevamo i dischi. Non ho mai avuto dubbi, per me erano bravi, rappresentavano il mondo con nuove musiche e nuove parole».