Cultura
Lolita e il professor Nabokov
Per raccontare Lezioni di letteratura, ripubblicato da Adelphi, un'immaginaria Lolita commenta le lezioni del suo creatore.
[Nel 1948 Vladimir Nabokov divenne professore associato di letteratura alla Cornell University. Aveva già insegnato al Wellesley College dal ’41 al ’48 e solo dopo il 1955, grazie alla pubblicazione e al successo di Lolita, poté abbandonare la didattica e dedicarsi alla scrittura e alla lepidotterologia. Di tutte quelle lezioni resta una serie di appunti e annotazioni che formano due corposi volumi, uno su vari capolavori della narrativa europea e un altro unicamente sulla letteratura russa. Il primo, Lezioni di letteratura, a cura di Fredson Bowers, introduzione di John Updike, traduzione di Franca Pece, è appena stato ritradotto e ripubblicato da Adelphi. Per raccontare il libro, abbiamo provato a ipotizzare come un’immaginaria Lolita, ovvero Dolores Haze, il più celebre personaggio dello scrittore, avrebbe commentato le lezioni del suo creatore].
Dopo svariati tentennamenti ho deciso di seguire le lezioni del professor Vladimir Nabokov, nonostante abbia la fama di uomo severo, se non addirittura intransigente. C’è da capirlo, eh: doppio esule, dal paese natale per colpa dei comunisti e dall’Europa per via dei nazisti, chissà cosa prova a essere in mezzo a noi giovani scatenate ignoranti pimpanti americane che vogliamo tutto e subito (dei miei scialbi compagni di classe non so che dire). Io, poi, giovane bricconcella con l’aria da bambinaccia, mi sentivo in soggezione oltre ogni dire all’idea del gelido aristocratico russo. Invece all’entrata, con quel girovita paffuto, il passo meditabondo e lo sguardo scintillante, mi ha suscitato subito simpatia. E mi è sembrata ricambiata. Favole, ha esordito, i romanzi non sono altro che favole. La letteratura è nata il giorno in cui un ragazzino ha gridato “Al lupo! Al lupo” e non aveva nessun lupo alle calcagna. Certo, a furia di gridarlo sarà stato divorato, ha aggiunto con un sogghigno. Ma tra il lupo vero e il lupo falso, ci ha detto, esiste un intermediario scintillante: l’arte della letteratura.
Abbiamo cominciato con Jane Austen. Che cosa dice il prof Nab? Serafico, ammette candidamente di essere partito con diffidenza. Quando un suo amico – un certo Wilson, mi pare – gli ha consigliato di leggere Mansfield Park, lui ha detto che «Jane» (per nome! ma chi ti conosce?) non gli piaceva e che, apriti cielo, era prevenuto nei confronti di tutte le scrittrici. «Appartengono a un’altra categoria», ecco cos’ha detto al suo amico. Allegria di noi giovani alunne, si può immaginare. Ma poi, guarda un po’, s’è ricreduto. Prof Nab s’è letto Mansfield Park e gli è perfino piaciuto. Di più, gli è piaciuto a tal punto che oggi ha tenuto una lunga lezione perdendosi nei meandri dei personaggi e della trama, cioè è riuscito a rendere noiosa Jane. Questo personaggio s’invaghisce di quell’altro grazie a quel frangente del cancello che crea un legame e bla bla bla, cose che quando leggi Jane cogli al volo. Ma lui era stupefatto. «Nella Austen la caratterizzazione sfuma spesso in struttura», ha mormorato sorpreso.
Come tutti gli scrittori che hanno problemi con una storia ben congegnata (Invito a una decapitazione l’ho letto e non ho perso la testa), prof Nab è ossessionato dalla forma. Mi ha ricordato di una cosa che ho scoperto a un seminario di letteratura francese. Simenon passa a trovare Gide e vede un suo giallo tempestato di foglietti e annotazioni: esasperato, l’intellettualone cercava di capire l’ingranaggio che al giallista veniva naturale. «Penso ormai sia chiaro che il mio corso, tra le altre cose, è una specie di indagine poliziesca sul mistero della strutture letterarie». Chiarissimo: struttura, struttura, struttura. Prof Nab ci disegna piantine delle tenute con i movimenti dei personaggi, sventra i capitoli come un meccanico frustrato che non trova il guasto nel motore, annota cronologie soporifere. Eppure non vuole lasciarsi sedurre dalla caratterizzazione. Ammonisce: «Molti lettori, soprattutto molte lettrici, non perdonano alla sagace e sensibile Fanny di amare un tipo noioso come Edmund, e io non posso che ripetere che il modo peggiore di leggere un libro è quello di lasciarsi puerilmente coinvolgere dai personaggi del romanzo come se fossero persone reali». A fine di lezione, di proposito, ho gonfiato un pallone con la gomma e l’ho fatto scoppiare rumorosamente. Lui s’è lasciato scappare un leggero sorriso, senza raccogliere la provocazione.
Siamo passati a Dickens. E prof Nab è contento, si capisce. Maschi tra maschi. Poi, a quanto pare, la sua carriera di lettore non è stata come quella di noi comuni mortali. Da piccolissimo il padre gli leggeva Grandi speranze. Povero bambino: a undici anni è finita che s’era già sciroppato Guerra e pace. E oggi spesso cita, forse per compensare, la lettera di Flaubert a Louise Colet: «Come saremmo colti se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri». Già, ma è troppo tardi per tutti. Dickens lo rende felice perché, sostiene prof Nab, non va corteggiato come Jane. «Se fosse possibile, mi piacerebbe trascorrere i cinquanta minuti di ogni lezione in silenzio, a meditare su Dickens, a concentrarci su di lui, ad ammirarlo». E qui subito ha svelato l’arrendevolezza della sua passione. «Provo un’inconfessata tenerezza per la storia secondo la quale Dickens, nei giorni difficili della sua giovinezza londinese, una volta si trovò a camminare dietro un operaio che portava in braccio un bambino con un grosso testone. L’uomo procedeva senza voltarsi, e Dickens lo seguiva; il bambino, da sopra la spalla dell’uomo, guardava Dickens e questi, che nel camminare mangiava delle ciliegie da un sacchetto di carta, silenziosamente ne infilò alcune in bocca al piccolo». Bella faccia tosta per uno che ci rimprovera a ogni piè sospinto di sentimentalismo e ribadisce sempre che per uno scrittore di genio non esiste la “vita reale”.
Prof Nab si incanta anche per i nomi dei personaggi e i giochi di parole. Gli piace che il «My Lord» di un cancelliere in pronuncia diventi Mlud e infine Mud, fango. E noi, che abbiamo letto qualche pagina del prof Nab, capiamo il motivo. Ci sente l’umorismo, la beffa verso il reale, la stratificazione dei sensi, la botola del nonsense. Ogni scrittore in fondo legge sé stesso: è assassino e vittima insieme. E come ci rapisce invece, quando si abbandona all’eros della lettura e della letteratura, quando ci esorta ad accarezzare i particolari: «Nel leggere Casa desolata dobbiamo solo rilassarci e lasciare che sia la spina dorsale a prendere il sopravvento. Anche se leggiamo con la mente, la sede del piacere artistico si trova fra le scapole. (…) Veneriamo la spina dorsale e il suo fremito. (…) Il cervello non è che il proseguimento della spina dorsale: lo stoppino percorre di fatto tutta la lunghezza della candela». Tutta la classe era ammaliata e per una volta non riusciva più a spegnere la flebile fiammella del cervello. E lì ho di nuovo intercettato il suo sguardo. Prof Nab s’è impappinato ed è tornato a elogiare l’amore dei bambini in Dickens. Memo: in classe la prossima volta meglio evitare di mettermi un dito in bocca mentre ragiono.
Quando arriva il turno di Flaubert al prof Nab luccicano gli occhi, è di buonumore. L’esordio è folgorante. È importante sapere se i romanzi sono storie vere? Macché. Non dobbiamo mai e poi mai formulare quella domanda. «Evitiamo di prenderci in giro e ricordiamo che la letteratura non ha alcuna valenza pratica, salvo nel caso specialissimo di uno che voglia diventare, per quanto incredibile sembri, professore di letteratura». Risate. Lui compiaciutissimo. Di Madame Bovary ha amato ogni virgola e si sente. Prima di tutto ha fatto piazza pulita dai condizionamenti sociologici, perché secondo lui il romanzo di Flaubert tratta del calcolo delicato del destino umano, non dell’aritmetica del condizionamento sociale. E poi, lapidario: «Gli ismi scompaiono; l’istico muore; l’arte rimane».
Poi è entrato nel libro, e come ci è entrato. È un poema, è una sinfonia: il velo di mistero dietro a ogni tecnica e stratagemma di Flaubert viene sollevato per guadagnarne uno ancora più profondo. (Prof Nab ama ripetere un paradosso: un capolavoro deve comunicare «la Precisione della Poesia e l’Emozione della Scienza»). È come se ci portasse dietro le quinte ad ammirare il sistema di contrappesi di una scenografia meravigliosa e poi, tornati in platea, ci ritrovassimo ad ammirare nuovamente a bocca aperta l’incanto dello spettacolo, senza ricordare nulla dell’ingranaggio retrostante. Prof Nab ci prende per mano e ci guida tra gli echi (sospiri, prima; rantoli, dopo) di Madame Bovary: gli strati del cappello di Charles Bovary e della torta nuziale; la perdita della levriera; il simbolo del portasigari; il motivo ricorrente del cavallo; le grida di un vagabondo in due momenti chiave. Rime, nodi, risonanze. Le sue intuizioni sono innumerevoli, tra i miei appunti trovo: “L’adulterio è un modo estremamente convenzionale di mostrarsi superiore alle convenzioni”; o ancora: “L’amore che Charles quasi inconsciamente sviluppa per Emma è un sentimento vero, profondo e sincero, completamente diverso dalle emozioni brutali e vanesie provate da Rodolphe e Léon, i suoi amanti pretenziosi e rozzi.
Questo è dunque il bel paradosso della favola di Flaubert: la persona più banale e inetta del romanzo è l’unica riscattata da qualcosa di divino grazie all’amore totale, indulgente, incrollabile che prova per Emma, vive e morta”; o ancora: “In Emma la volgarità, il filisteismo, è velato dalla leggiadria, dall’astuzia, dalla bellezza, dall’intelligenza tortuosa, dalla tendenza a idealizzare, dai momenti di tenerezza e comprensione, e dal fatto che la sua breve vita da uccellino si concluda in umana tragedia”. La vita da uccellino… E di nuovo mi ha guardata. Ma a questo punto io non sapevo più nemmeno dove posare lo sguardo: se sul libro, sul chiosatore, sulla luna, sul dito, sulla stolta che sono, su Emma o su Flaubert, in una girandola di confusione e di malia. Ho deglutito la gomma per sbaglio. Con Proust, faticavo a stargli dietro. Mi è sembrato di scrivere per ore e ore, eppure della lezione sulla Recherche mi è rimasto un solo appunto – «Proust è un prisma» – in cui, come in una sintesi improba di quella miniatura gigantesca in sette volumi, sembrava esserci tutto. James Joyce. Prof Nab sostiene che per capire il suo capolavoro sia sufficiente la copia dell’Evening Telegraph – il giornale di Dublino – di giovedì 16 giugno 1904. È ovviamente la copia della giornata in cui è ambientato l’Ulisse e prof Nab, un po’ piccato, ha concesso un dettaglio biografico e ci ha raccontato che Joyce lo scelse perché in quel giorno aveva conosciuto la sua futura moglie Nora. «E con ciò chiudiamo il lato d’interesse umano». Ecco, non esageriamo. E poi rieccolo spazzare via ogni ombra di simbolismi e allegorie. Ad esempio con l’Odissea. Per carità: «Tutta l’arte è, in un certo senso, simbolica, ma noi grideremo “Al ladro” al critico che trasforma deliberatamente il simbolo raffinato di un artista nell’allegoria stantia di un pedante – le mille e una notte in un convegno di paramassoni».
In ultimo, Kafka. Angoscia, paranoia, alienazione: la classe è in fibrillazione all’idea di cosa dirà il prof Nab alle prese con La metamorfosi. E lui cosa ti fa? Comincia con il rifiutare due punti di vista largamente diffusi: il primo è quello religioso (Max Brod e la categoria della santità) e il secondo è quello psicoanalitico (l’insetto come senso di inutilità davanti al padre). E poi tutta una lunghissima disquisizione sul tipo di insetto in cui Gregor Samsa si è trasformato. È del tipo con zampe articolate? E le numerose zampette quante sono? Sei? Di più? Cambia tutto! Secondo prof Nab dovrebbero essere sei, quindi è un insetto. Ma quale? Samsa è convesso, ergo – shock della classe – non è uno scarafaggio. C’è un personaggio che lo chiama “scarabeo stercorario”, ma tale non è. Forse è un coleottero, ma dovrebbe avere delle alucce. Samsa non se ne avvede? Prof Nab non si lascia sfuggire una delle sue ineffabili battutine: «Ci sono dei Gregor, e come loro tante altre persone comuni, che non sanno di avere le ali». Risatine e suo compiacimento. Io, zitta: non gli ho dato soddisfazione. Come si fa con i bambini ottusi, ci ha fatto il disegnino del coleottero. Ecco la critica letteraria, e ha ragione. Quindi ha chiuso ammonendoci: «Presto sempre la massima attenzione a non sopravvalutare l’importanza dei simboli perché, una volta separato il simbolo dal contesto artistico del libro, non lo si gusta più (…). Di questi simboli fatui, ne troverete in quantità nell’approccio psicoanalitico e mitologico all’opera di Kafka, in quella miscela alla moda di sesso e mito che tanto attrae le menti mediocri. In altre parole, i simboli possono essere originali oppure stupidi e banali. E l’astratto valore simbolico di un’opera d’arte non dovrebbe mai prevalere sulla sua ardente, bellissima vita». E di nuovo prof Nab mi ha guardata e io mi sono sentita un insetto – poco importa quale – inchiodato al muro.
Un libro è un mondo, ha continuato implacabile. Il lettore esplora quel mondo. Che cosa deve fare uno scrittore? Ricrearlo. La realtà – quella cosa che andrebbe scritta tra virgolette – è solo un serbatoio di possibilità da riorganizzare, ricreare, amalgamare. È il caos che l’unico vero demiurgo – cioè lo scrittore – rimonta per dare un senso o per dare il senso del nonsenso, è uguale. Quindi si è congedato con garbo: «Il lavoro fatto con questo gruppo è stato un’associazione particolarmente piacevole fra la sorgente della mia voce e un giardino di orecchie: alcune scoperte, altre chiuse, molte assai ricettive, alcune soltanto ornamentali, ma tutte umane e divine». Silenzio.
Quando il giardino di orecchie umane e divine si è diradato, mi sono attardata per qualche motivo insondabile ad abbeverarmi alla sorgente di quella voce. Lui stava riordinando gli appunti. «L’arte dello scrivere», ha detto, «è un’attività futile se non comporta anzitutto l’arte di vedere il mondo come risorse potenziale della narrazione». Chissà perché voleva rivelarlo proprio a me. «È stato un piacere averla come alunna, con quei rimasugli di smalto color ciliegia sulle unghie e i suoi saltuari lecca lecca. Mi ripete il suo nome?». «Dolores». Ha fatto un sorriso da gattone. «Ma i suoi amici non la chiameranno certo così…». «No, usano un nomignolo». «E quale?».