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Kristin Cabot, la donna del cold kiss-gate, ha detto che per colpa di quel video non trova più lavoro e ha paura di uscire di casa Quel video al concerto dei Coldplay in cui la si vedeva insieme all'amante è stata l'inizio di un periodo di «puro orrore», ha detto al New York Times.
I Labubu diventeranno un film e a dirigerlo sarà Paul King, il regista di Paddington e Wonka Se speravate che l'egemonia dei Labubu finisse con il 2025, ci dispiace per voi.
Un reportage di Vanity Fair si è rivelato il colpo più duro inferto finora all’amministrazione Trump Non capita spesso di sentire la Chief of Staff della Casa Bianca definire il Presidente degli Stati Uniti una «alcoholic’s personality», in effetti.
Il ministero del Turismo l’ha fatto di nuovo e si è inventato la «Venere di Botticelli in carne e ossa» come protagonista della sua nuova campagna Dopo VeryBello!, dopo Open to Meraviglia, dopo Itsart, l'ultima trovata ministeriale è Francesca Faccini, 23 anni, in tour per l'Italia turistica.
LinkedIn ha lanciato una sua versione del Wrapped dedicata al lavoro ma non è stata accolta benissimo dagli utenti «Un rituale d'umiliazione», questo uno dei commenti di coloro che hanno ricevuto il LinkedIn Year in Review. E non è neanche uno dei peggiori.
C’è una specie di cozza che sta invadendo e inquinando i laghi di mezzo mondo Si chiama cozza quagga e ha già fatto parecchi danni nei Grandi Laghi americani, nel lago di Ginevra e adesso è arrivata anche in Irlanda del Nord.

Morire su internet

Un documentario del New Yorker racconta la storia di una donna malata di cancro e di sua moglie, che hanno deciso di usare i social per riscrivere il modo in cui parliamo di morte e malattia.

di Studio
29 Giugno 2021

Kathy Brandt è morta di cancro nel 2019, all’età di cinquantaquattro anni. Nell’ultimo video postato sul suo profilo Twitter la si vede nel letto, la voce debole, ringrazia chi l’ha seguita fino a quel momento, «mi dispiace di essere così deboluccia», dice con una smorfia, sembra serena e stanca, come qualcuno che sta morendo. Prima di ammalarsi, Brandt ha lavorato per molto tempo in strutture di cure palliative ed è stata una sostenitrice delle cure di fine vita di alta qualità. Insieme alla moglie Kimberly Acquaviva, professoressa di Infermieristica presso l’Università della Virginia specializzata nelle problematiche che affliggono le persone Lgbtq+ e le loro famiglie quando vanno incontro a malattie terminali, Brandt ha deciso di documentare i suoi ultimi giorni di vita sui social, in particolare su Twitter. Un breve documentario del New Yorker, diretto e prodotto da Sara Joe Wolansky, racconta ora la loro storia: si intitola Documenting Death e ripercorre la strada che ha portato le due donne a condividere alcuni dei momenti più intimi nella vita di un essere umano, compreso il primo piano di Brandt postato da Acquaviva subito dopo la sua morte.

Guardare il documentario e i social della coppia, che ha un figlio adulto di nome Greyson, non si ha però la sensazione, che magari ci si aspetterebbe considerato il contenuto dei loro post, di assistere a una spettacolarizzazione del dolore. Al contrario, il loro racconto fa dell’ordinarietà della malattia, e della malattia terminale, il suo centro narrativo: ci sono giorni in cui Brandt non ha la forza di parlare, altri in cui si sente meglio ed è visibilmente più allegra, risponde paziente alle domande di sua moglie, che cerca di tirarla su come può, le chiede se le manca fare sesso – «Almeno per me, non c’è niente laggiù», risponde lei – e confessa che, al posto suo, si masturberebbe ogni giorno. Sembrano domande fuori luogo, ma forse lo sono solo nella nostra concezione ideale su come si affronti la morte, perché di fatto cosa ne sappiamo, di come ci si sente?

Come aveva fatto l’artista Sophie Calle con il suo lavoro “Rachel, Monique”, in cui aveva ricostruito l’ultimo periodo in vita della madre malata condividendone i suoi video e i suoi diari, anche Documenting Death vuole essere un’esplorazione di com’è prepararsi a morire quando si sa di dover morire – un lusso, o forse una condanna, che non a tutti è concesso. Con il loro progetto, Brandt e Acquaviva vogliono, da una parte, lasciarsi alle spalle l’odiosa retorica del cancro come una battaglia da vincere (non lo è affatto, certo la risposta del paziente è fondamentale, ma una malattia rimane una malattia, e non guarda né al “coraggio” né allo “spirito guerriero” di cui si pontifica spesso), dall’altra rompere grattare via la patina di pudicizia fasulla dei social, dove si mostra tutto tranne la sofferenza.

«Lo condivido per le persone che non hanno esperienza in campo medico e non hanno mai sentito come inizia un rantolo di morte. Questo è quello di Kathy, il video è scuro e poco chiaro, ma il suono è decente»: così Acquaviva introduce gli ultimi momenti della moglie, quando anche respirare costa fatica. Lo fa, come spiega nel documentario, perché l’esperienza nel suo campo le ha insegnato che la maggior parte delle persone che si trova ad assistere un familiare o un amico gravemente malato non è preparato ai suoni, agli odori, ai movimenti che fanno i corpi che soffrono, i corpi che si predispongono a morire: ecco perché è importante condividere. Anche superando la soglia della vergogna, delle convenzioni sociali e delle buone maniere: internet ha modificato tutti gli aspetti della nostra vita, e sarebbe illusorio pensare che non abbia cambiato il modo in cui viviamo il lutto e la sofferenza più in generale. Ma se il modo in cui commentiamo e ricondividiamo video e immagini di persone morte, anche brutali, hanno finito per anestetizzarci, Documenting Death – e l’esperimento social che racconta – riporta il discorso a una dimensione più intima, infine più umana. Non è una visione piacevole, e lascia molte perplessità – condividereste la foto della persona che amate subito dopo che è morta? – ma funziona proprio per quello.

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