Attualità

Moonrise Royale

Due film che non hanno nulla in comune e che dicono invece molto l'uno dell'altro, dell'adolescenza e dell'amore

di Francesco Pacifico

Sono in vacanza a New York e sabato sono andato due volte al cinema. Per coincidenza, o per nostalgia degli scout, ho visto due film ambientati su un’isola, nella natura, con protagonisti adolescenti. Nel pomeriggio, un film giapponese di dieci anni fa, Battle Royale, che parla di liceali che si ammazzano per sopravvivere; la sera, il nuovo di Wes Anderson, Moonrise Kingdom, che parla di due giovani innamorati che lottano contro ogni difficoltà per realizzare il loro sogno di amore tutto tenerezze e finali agrodolci.

Cominciamo da Wes Anderson, che è un tema caldo. Un ragazzino molto particolare con gli occhiali, emarginato durante il campo scout, diserta per fuggire nella natura insieme a una ragazzina residente nell’isola, conosciuta a un concerto. Un giorno conoscerò i nomi di questi due attori come fossero mio fratello e mia sorella: hanno due volti incredibili, lei asimmetrico, lui ordinatissimo, e rappresentano l’ideale estetico e amoroso di Anderson molto meglio di Luke Wilson e Gwyneth Paltrow nei Tenenbaum. L’educazione sentimentale come la conosco io ha a che fare con il tentativo di nascondere le nostre origini, la sfiga di avere dei genitori, una famiglia, degli orari di pranzo e cena, il coprifuoco, fratelli e sorelle, e mostrarci in versione idealizzata a un partner coetaneo, per cominciare a immaginarci emancipati, più simili ai nostri desideri che alla nostra realtà. Wes Anderson, che dev’essere cresciuto in un luogo meraviglioso, con genitori meravigliosi, riesce a raccontare la storia di due ragazzini che allo stesso tempo provano a fare i grandi e si trascinano dietro tutto l’impaccio senza praticamente vergognarsene. L’adolescenza di Wes Anderson è un paradiso in cui due amanti minorenni non si vergognano troppo dei propri limiti, non si giudicano, e non includono nella propria storia il giudizio di tutti gli altri coetanei. I due scappano e si accampano in una spiaggia piccola e ben protetta da sguardi indiscreti, e lì imparano a baciarsi e, sostanzialmente, a convivere. Lei ha una famiglia intensa e oppressiva, tre fratellini che ascoltano la musica classica, un padre geloso. Lui ha perso i genitori, e la famiglia cui è affidato si sbarazza di lui appena sa che ne ha combinata un’altra – la fuga dal campeggio.

Intorno a loro, una serie di adulti vestiti più o meno ridicoli: da Ed Norton capo scout in pantaloni corti, impeccabile mentre fuma una sigaretta durante l’ispezione, riassumendo il cuore dell’estetica scout da Baden Powell in poi – virilità, omosessualità, sacrestia, precisione; a Bruce Willis poliziotto triste, amante segreto della madre della ragazzina, Frances McDormand, sposata con Bill Murray ormai più meme che attore (“in senso buono”). Gli adulti qui non sono veri, sono però belli quanto le scenografie, che sembrano finte come quelle di Fantastic Mr. Fox (“in senso buono”): case di bambola, foreste umide, librerie, finestre, giradischi, notti di pioggia, carta da parati. A parte Bruce Willis, che come amante e poliziotto solitario dà molto, gli altri adulti improvvisano sui toni ridicoli, molto bene – come nel caso di Tilda Swinton che interpreta la parte di “Social Services”, un’assistente sociale che è tanto macchetta da non avere un nome: gli altri la chiamano proprio “Social Services”. A livello di prova corale il film suona quindi come una jam session rarefatta come, per dire, in Burn after reading dei Coen. Il peggiore è Harvey Keitel, in alto nelle gerarchie scout, pura barzelletta in movimento.

Il film ha un solo problema, solo che per me è un problema grande, che forse, al prossimo film di Wes Anderson, mi spingerà ad ascoltare un disco per non seguire la storia e limitarmi a guardare le scenografie e le smorfie. Il problema è “la realtà” e provo a riassumerlo nella maniera meno irritante possibile.

C’è una scena in cui il ragazzino viene tanato dagli altri scout e dunque inseguito in giro per l’isola. Se catturato, verrebbe spedito in orfanotrofio e separato per sempre dalla ragazzina, la cui famiglia vive nell’isola. È un momento importante: i due innamorati sono appena stati sposati da un altro capo scout, Jason Schwarzman, un tipo sinistro ma simpatico e soprattutto dotato di poteri da funzionario amministrativo per cui può celebrare un matrimonio. In realtà l’ha fatto per soldi, e ha detto pure che in assenza di certificati vari il matrimonio non avrà valore legale ma certamente un valore simbolico. Insomma il ragazzino si è sposato con la ragazzina, ma per tornare al campo, a prendere una cosa che si è scordato, viene beccato e inseguito. A questo punto il racconto del film – inquadrature caricaturali da lontano tipo uno contro tutti, tipo grande prato con ragazzini che corrono composti, insomma tipo inseguimenti alla Wes Anderson – si fa del tutto inaffidabile. In un’inquadratura gli scout sembrano ormai a pochi metri dal protagonista; in quella dopo sono di nuovo lontani; poi compaiono gli amici del protagonista; il quale poi risulta salvo. La scena è così confusa che ho la sensazione di averla vista nel dormiveglia. (Oddio, non lo escludo.)

Dopo quel momento, ogni cosa nel film comincia ad andare a favore degli innamorati: i conflitti, gli ostacoli, non creano più vera tensione, e la realtà sembra essere il luogo deputato alla realizzazione di ogni desiderio di un adolescente. Che non è esattamente quello che anche i più fortunati di noi ricordano, pensando all’adolescenza. La maniera in cui Anderson liquida la realtà offrendo ai suoi protagonisti, in sala di montaggio e nella sceneggiatura, lo stesso aiuto incondizionato che Bruce Willis o Jason Schwarzman offrono ai ragazzi dentro il mondo del film, mi costringe a domandarmi dove sia disposto ad arrivare per realizzare le proprie fantasie. I due protagonisti in definitiva mi sembrano due raccomandati. Ci manda il regista, fateci passare.

Battle Royale, di Kinji Fukasaku, è ambientato nel futuro, ma girato nel presente senza grandi effetti futuristici: una classe di quindicenni – credo – viene scelta per un rito inquietante che ricorda un po’ Hunger Games (il film giapponese è del 2000): i ragazzi vengono portati su un’isola e si devono ammazzare, ne sopravviverà soltanto uno. È un orgoglioso film di serie b con tante idee interessanti: mescola la commedia teen cupa tipo Mean Girls o Heathers alla storia di nerd, alla commedia romantica. È che ogni personaggio della classe vive il film adolescenziale che gli spetta, ma in versione deviata dal problema della sopravvivenza. Il motivo di questo gioco è assurdo e splendidamente giapponese: la gioventù del Giappone non conosce più i valori e la disciplina; per educare questa generazione andrà colpita ogni anno una classe. È un motivo così bello e paranoico che non lo riesco a mettere in discussione. Il resto del tempo, i ragazzi si ammazzano nell’isola, o in certi casi si suicidano tristissimi per non commettere violenze, o si coalizzano per cercare di scappare dall’isola nonostante i collari elettronici che li faranno esplodere se sopravvivono in numero superiore a uno. Più sembra irreale, più questo film fa pensare che chi va in guerra ha in fondo pochi anni più dei protagonisti di Battle Royale, e il dovere di uccidere deve sembrare altrettanto strano che in questo film, dove all’improvviso delle educate ragazzine in uniforme capiscono che verranno ammazzate dalle migliori amiche e il dolore è tale che alcune si lanciano dalle scogliere.

Ora non so se si può definire “realtà” quella che si contrappone a sogni e desideri degli adolescenti in Battle Royale. (Cito solo di passaggio che a dirigere la Battle Royale c’è un ex professore interpretato da Takeshi Kitano, e Kitano fa delle smorfie incredibili.) Però aver visto nel pomeriggio un film tutto votato a spiegare, con il minor numero di parole possibili, che anche se sei giovane e innamorato non è detto che otterrai ciò che vuoi, mi ha permesso di trovare del tutto irreale il regno di piacere assoluto di Wes Anderson.