Cultura | Dal numero

Milena Vukotic, un mistero leggero nella storia del cinema italiano

Incontro con uno dei volti celebri degli anni '60 e '70, nella memoria collettiva per il personaggio di Pina, la moglie di Fantozzi.

di Valeria Montebello

Giulietta degli spiriti, Il fascino discreto della borghesia, La bisbetica domata, Amici miei sono solo alcuni dei capolavori in cui ha recitato Milena Vukotic. I ruoli che ha interpretato sono spesso stati secondari, di contorno. È minuta, esile, ha la voce bassa, lo sguardo tenero, gentile. «Sicura che non vuole un caffè, qualcosa di dolce? Si sieda sulla poltrona, quella lì è più comoda», mi dice appena entrata in casa sua. Ma, nonostante l’apparenza dimessa, Vukotic tira fuori, ogni volta che parla o si muove, un’energia intensa – non come quella che si è abituati a vedere, quella anfetaminica del fare il più possibile – ma di un’intensità profonda, che viene da chissà dove e ha il potere di calmare chi ha davanti, di disarmarlo. Sembra una fatina che cammina sempre in punta di piedi, sarà per la sua altra passione, la danza classica. S’inserisce perfettamente nella schiera degli aiutanti di cui si legge nelle fiabe: geni e fatine, giganti buoni, grilli e lumache parlanti, creature incantate che spuntano per miracolo. Sono i personaggi che qualcuno forse dimentica alla fine della storia, eppure donano a qualsiasi racconto, anche il più tetro, luce, magia.

Nell’era del protagonismo a tutti i costi il suo esempio è controtendenza. Come si sente ad aver interpretato così spesso il ruolo da non protagonista?
È un po’ un trabocchetto. Da una parte, nel cinema, ma nel mondo della rappresentazione in generale, c’è un dato fisico che credo sia essenziale. I protagonisti devono essere quasi sempre belli, corrispondere a un certo ideale di bellezza. Sicuramente io non ho mai corrisposto a questo canone.

Quindi il suo carattere e le sue caratteristiche fisiche hanno influenzato i ruoli che le hanno proposto. E i ruoli che ha interpretato hanno influenzato il suo carattere?
Penso che automaticamente, a causa delle mie caratteristiche, sia stata vista come una non protagonista, una figura di sostegno, di seconda fila. Sebbene la parte più emozionante per un attore sia quella di poter trovare dei caratteri diversi, delle maschere diverse da interpretare.

Però ha interpretato tanti ruoli.
Tanti ruoli, sempre sulla stessa scia.

Come definirebbe questa “scia”?
Un personaggio non dico perdente, però un pochino patetico.

Secondo lei la bellezza può offuscare la bravura di un’attrice?
La bellezza può camuffare il talento ma l’energia di ciascuno è più forte della bellezza, che aiuta ma non basta. Se questa energia non è vibrante la recitazione non funziona. Credo eh, non ne sono sicura.

Lei, parlando per archetipi, incarna una femminilità che si vede poco in giro: dolce, mite, lontana da femme fatale e aggressività…
La cosa interessante è captare il mistero che ognuno ha dentro di sé, quello che non è evidente. Ogni giorno c’è la possibilità di capire qualcosa di più di se stessi, è un lavoro continuo. Non lo facciamo perché siamo inondati dalle necessità, oggi più di ieri. Fare, produrre…

Questo “meccanismo produttivo” influenza il suo lavoro?
Quando facevo Gian Burrasca di Lina Wertmüller, un piccolo capolavoro con un attore più bravo dell’altro, i costumi di Piero Tosi, la musica di Nino Rota, lavoravamo finché una scena non veniva davvero bene, non c’era la costrizione di dover fare sei pagine al giorno. Fare senza essere convinti di ciò che si fa è tristissimo, ci si adegua, però non era così una volta, vivevamo il lavoro con maggiore tranquillità e approfondimento.

Grand Hotel Folies varietà TV 1980

Com’è stato lavorare con Lina Wertmüller?
Abbiamo lavorato molto insieme, sia al cinema che al teatro.

Due donne molto diverse.
Altroché, diversissime, Lina è focosa, passionale, ma siamo molto amiche.

Che rapporto ha con la nostalgia, le appartiene?
Si possono trovare tante cose senza per forza andare indietro.

Su un certo modo di fare cinema?
In questo senso sì.

Il cinema italiano era un cinema forte.
Lo è tutt’ora, è pieno di talenti.

Chi le piace?
Virzì, Moretti, Verdone, Amelio, Nuti, il primo Sorrentino. Ci sono molti registi meno popolari che sono grandi. David Grieco con La macchinazione, sulla morte di Pasolini, ha fatto un bel lavoro. O Elisabetta Pellini, una giovane regista e attrice con cui lavorerò a breve.

Torniamo indietro. Ha lavorato con registi dall’immaginazione sfrenata. Lei si sente affine a questo mondo fatto di sogni?
Le racconto una storia molto significativa per me. Ho fatto gli ultimi tre film di Luis Buñuel. Quando dovevo girare il primo, Il fascino discreto della borghesia, ho letto un libro su di lui di Freddy Buache e volevo chiedere a Don Luis – lo chiamavamo così – di firmarmelo. Nonostante fosse molto gentile non avevo mai osato. Finiamo le riprese, ci salutiamo, lui mi dice che ci saremmo rivisti a Roma per andare a fare un aperitivo in via Veneto, a lui piacevano molto gli aperitivi, e io, nonostante la confidenza, non glielo faccio firmare. Torno a casa dispiaciuta, mi dicevo che era ridicolo non riuscire a superare l’imbarazzo. Quella notte sogno che qualcuno della produzione mi dice: «Non farla tanto lunga, dammi questo libro che glielo faccio firmare io». Nel sogno lui firma il libro e scrive: «Noi siamo tutti uomini liberi».

Tutto questo per una firma.
La mattina dopo il sogno, torno sul set. Stava girando una scena, sempre di un sogno, con dei soldati. Era seduto, mi avvicino, arrivo con il mio libro e gli chiedo: «Don Luis volevo dirle che ho sognato che lei mi firmava questo libro con questa frase: Noi siamo tutti uomini liberi». Lui mi guarda, fa una bella pausa e mi risponde: «Dovevo essere completamente ubriaco». Poi mi ha firmato, finalmente, il libro e ha scritto: «Noi siamo tutti uomini – cosiddetti – liberi, cara Milena».

Si è ritrovata fra Buñuel e Fellini, due che sognavano parecchio.
Fellini e Buñuel si stimavano molto. Quando dovevo girare il primo film con Buñuel, Fellini mi chiese di salutarglielo, mi disse: «Lo considero un maestro, l’unico in grado di rappresentare i sogni nella realtà». Prima di andarmene aggiunse: «Senti un po’, sai quanti anni ha Buñuel?». Io non ne avevo idea. Arrivo a Parigi, prima volta che incontravo Buñuel. Gli dico del saluto da parte di Fellini e lui: «Amo molto Fellini, me lo risaluti…». Poi anche lui mi chiese: «Quel âge a Fellini?».

Come mai erano così interessati al dato anagrafico?
Delle civetterie.

Fellini, un altro incontro importante per la sua carriera.
Con Fellini è un’altra storia. Sono stata molto legata, e lo sono tuttora, a Fellini e a Giulietta, al loro mondo. Ho lasciato il mio percorso di danza classica quando ho visto La strada di Fellini. Ero stata toccata. Non ho fatto grandi cose con lui a livello lavorativo, ma ci legava un grande rapporto di amicizia, insostituibile. Sono stata accolta nella loro casa a Fregene dove si facevano grandi pranzi e cene, con tanta gente. Lui amava molto queste occasioni conviviali, era allegro, giocoso, ironico.

Fellini nonostante l’ironia era anche un uomo di fede, spirituale…
Io posso parlare del mio rapporto con lui. Nella sua opera viene fuori la sua spiritualità.

Esoterico anche?
Mi ha raccontato delle cose alle quali ha assistito con Gustavo Rol, un uomo molto persuasivo.

Quali cose?
Alla trasformazione di qualcosa che stava su un tavolino, una cosa che ha preso vita, mi pare fosse un pesce.

Chissà l’immaginazione fino a che punto influenzava queste visioni.
Rol convinceva le persone, aveva una capacità anomala.

Lei che rapporto ha con la magia?
Fellini mi regalò I Ching. Il libro dei mutamenti.

L’ha letto?
L’ho guardato sì, ma è come una Bibbia.

È scettica?
Non direi scettica. È difficile da capire, da esprimere.

Jean Cocteau è un altro artista del sogno con cui ha lavorato.
Ho fatto una cosa con lui. Sono stata a casa sua a Parigi una volta, le porte erano delle lavagne, questo mi ricordo, dove scriveva o faceva schizzi.

Insomma, un insieme di mostri sacri.
Sì. E si vedevano molto anche fra loro, si divertivano, si prendevano in giro. Si interrogavano e litigavano come studenti, trepidanti. Meraviglioso. Questo oggi non so se succede, voi forse trepidate sui social.

Dalla vita di un autore, 1974

Usa i social?
Non li so usare. Mentre partecipavo a Ballando con le stelle qualcuno si occupava dei social e ho iniziato a capire cosa voleva dire.

Le è piaciuto?
No, per carità. Mi hanno messa in qualche cosa (Instagram, nda), sono stata al gioco, ho fatto foto, ma non mi piace che tutti debbano essere al corrente della vita di tutti.

Meglio incontrarsi?
Sì.

Villaggio è stato un altro dei suoi incontri.
Anche con lui eravamo amici, ma in un altro modo rispetto a Fellini. Abbiamo fatto tantissimi film insieme, tutti i Fantozzi. Ma Paolo era un uomo più segreto. Siamo tutti un po’ segreti però lui…

Villaggio più segreto di Fellini?
In un altro modo. Fellini è al di sopra. Con Paolo avevamo un rapporto di grande affetto e ammirazione, molta gratitudine per il personaggio che mi ha affidato.

Pina!
Tutti mi chiamano Pina. Anche ieri sono andata a una presentazione e tutti volevano farsi un selfie con Pina.

E lei come reagisce?
Lo faccio, perché no. Ma mi chiamano proprio Pina.

Non le dà fastidio?
Un pochino e glielo dico. “Ma lei è Pina?”. Io rispondo: “Anche”.

Pina è un personaggio iconico, ha fatto ridere milioni di italiani.
Lui era un genio, non facile, ma un genio. Ha inventato un personaggio universale.

Grand Hotel Folies varietà TV, 1980

Ha incontrato tanti registi importanti, figure maschili forti. Dopo il #MeToo c’è stato un ribaltamento, da registi da cui imparare qualcosa a orchi da cui le donne devono difendersi. Penso a Polanski e al suo ultimo film J’accuse.
Film stupendo. Mi ha scandalizzata il fatto che, ancora prima che arrivasse a Venezia, la presidentessa di giuria del Festival abbia messo un veto sul film. Scandaloso. Lui è un gigante. Ha avuto le sue storie private che sono state ribadite, pagate, perdonate. Ma oggi tutti possono dire tutto e farlo sapere a tutti, solo per avere più popolarità.

La biografia è separata dall’arte?
Non credo che si possa catalogare in modo così brutale una persona.

Del vittimismo di certe donne che sembra non si sappiano difendere cosa pensa?
Una frase come “abbiamo sopportato per paura di non lavorare” non ha fondamento. Ognuno è responsabile di quello che fa. Se una donna non vuole subire non subisce.

A lei non è mai capitato?
No. Torniamo alle mie caratteristiche fisiche…

Ha avuto problemi a conciliare la sua carriera con i legami personali?
Io mi sono unita al mio uomo. Alfredo (Baldi, nda).

Ho letto il suo nome sulla porta affianco alla sua.
Sì, abitiamo in due appartamenti diversi.

Come mai questa decisione?
Ho sempre abitato qui, con mia madre. Ad un certo punto cercavamo casa, poi si è liberato l’appartamento accanto al mio ed è venuto qui.

Vi vedete spesso?
Tutti i giorni, facciamo tutto insieme. Gli appartamenti sono comunicanti, attraverso il balcone.

L’ideale.
È fondamentale poter avere i propri spazi e mantenere i propri ritmi. Questa è la soluzione ideale, sì, sarei molto invidiosa se qualcuno l’avesse trovata e io no.