Industry | Moda

Milano-core

I grandi marchi e i grandi show, le seconde volte dei direttori creativi e il problema dei brand indipendenti della nuova scena italiana: cos’è successo alla settimana della moda di Milano.

di Silvia Schirinzi

Guardando alla moda che oggi Milano produce si potrebbero indicare grossolanamente due binari paralleli su cui viaggiano i marchi che animano la settimana della moda, che si conclude oggi e che (è questo il momento in cui, come sempre, bisogna ricordarlo) non è più una settimana da anni ma i soliti tre giorni convulsi e isterici al limite dell’idiozia, spiace ripeterlo ogni volta ma anche questo è un sintomo di un problema più grande. Da una parte ci sono dunque gli uber-marchi, impegnati nella ridefinizione di sé stessi attraverso show sempre più grandiosi e sempre più affollati di celebrity che causano blocchi del traffico e hanno lanciato il trend dello streaming degli arrivi alla sfilata su TikTok – provate a farvi un giro sulla piattaforma poco prima che inizi uno di questi grossi show: ci troverete molte più interazioni che nei live ufficiali, spesso aridi e senza la possibilità di commentare, ha ragione @ideservecouture quando dice che andrebbero commentati come si fa con gli eventi sportivi – e dall’altra ci sono i marchi di nuova generazione, guidati da designer “giovani” per l’Italia perché hanno tra i trenta e i quarant’anni, che si devono barcamenare tra la necessità di fare uno show, il supporto intermittente del sistema e le richieste commerciali. In mezzo, poi, ci sono quegli altri giovani, anche qui l’età varia a seconda della nazionalità, che sono oggi alla guida di un brand storico, vedi le seconde prove di Maximilian Davis da Ferragamo, Marco De Vincenzo da Etro, Rhuigi Villaseñor da Bally e Filippo Grazioli da Missoni.

Le seconde volte di Etro, Ferragamo, Missoni e Bally
Un panorama variegato che di fatto rappresenta la vivacità che ancora anima la capitale della moda italiana, la quale però fa sempre fatica a credere in sé stessa e sembra continuare a muoversi nei solchi già tracciati perché incapace di cogliere e valorizzare quello che di nuovo sa esprimere. Lo scorso settembre avevamo parlato dei debutti, tutti piuttosto cauti, che in questi giorni erano attesi alla loro seconda volta. È andata molto meglio, va detto, almeno nel caso di Marco De Vincenzo da Etro, che ha il compito difficilissimo di riscrivere un’estetica che, per sua stessa ammissione, non gli appartiene – «Sto raccontando una storia non mia, mi sto immergendo nell’universo del marchio», ha detto – e che dalla collezione maschile presentata a gennaio sembra più a suo agio nel raccontare il suo punto di vista.

E poi c’è Maximilian Davis da Ferragamo, che ha presentato una collezione convincente che va nella giusta direzione di consolidare la sua nuova direzione creativa: un’eleganza asciutta da Hollywood sofisticatissima e una grande attenzione agli accessori, dalle maxi borse alle scarpe con tacchi arditi, che provano a ridefinire l’appeal del marchio. Il suo è stato uno show preciso, con il cast e la location giusta, la speranza è che continui così e che ritroveremo Ferragamo dove è sempre stato, sui red carpet e ai piedi di chi può permetterselo. Anche Grazioli da Missoni è sembrato più sicuro dell’esordio, mentre Villaseñor ha forse bisogno di più tempo: Bally non ha uno storico di ready to wear a cui ispirarsi e la location, splendida, della Casa degli Atellani ha forse alzato troppo l’asticella rispetto alla collezione andata in scena. Il fatto che poi la Casa degli Atellani sia al centro delle mire di Bernard Arnault, magnate di Lvmh e proprietario di molti marchi di moda (ma non di Bally), un’operazione che il Ministero della Cultura dice di «monitorare» per salvaguardare il patrimonio del Paese, aggiungeva un altro strato di riflessione che qui non è possibile approfondire, ma che nondimeno va segnalato.

Prada Autunno Inverno 2023-24. Photo courtesy of Prada

Il problema dei nuovi marchi della scena italiana
Ricordare fino alla pedanteria quanto la fashion week di Milano sia ormai ridotta a meno di quattro giorni, è necessario per comprendere poi come le nuove voci finiscano, ogni stagione, per essere schiacciate in un calendario di appuntamenti troppo fitto e dispersivo che non permette agli addetti ai lavori, soprattuto stranieri, di dare il giusto risalto a queste realtà. E quando succede, è probabile che li trovino impreparati: e qui c’è il problema più grande, quello del sostegno, spesso intermittente e farraginoso, ai marchi della nuova scena italiana. Marco Rambaldi sembra aver trovato un equilibrio con una collezione più solida che pure manteneva gli elementi chiave del suo racconto (compresa la dedizione ai corpi differenti, ormai completamente sparita dalle grandi passerelle a riprova che si è sempre trattato di inclusività forzata e non di un vero lavoro sull’abito), mentre da Act N1 Luca Lin è ora da solo alla guida del marchio fondato insieme a Galib Gassanoff: la collezione era comprensibilmente un sunto di quello che ha reso Act N1 riconoscibile in questi anni, ma avrebbe beneficiato di un editing più asciutto e della possibilità di esplorare altre idee. Il momento, però, è delicato e l’augurio è che Lin possa continuare a esplorare la sua poetica con una nuova, risoluta, spinta creativa. Ha la forza per farlo.

Dopo la riflessione sulle madri della scorsa collezione, Jezabelle Cormio è tornata a parlare di donne, ragazze e bambine con uno show che si è tenuto in un campetto di calcio e che voleva mettere l’accento sul problema del professionismo atletico in Italia: «Non pensavo fosse così difficile trovare venti ragazze che giocano a calcio», si leggeva in uno dei cartelloni appesi dietro le porte, le cui reti erano infiocchettate con il tocco ironico che caratterizza Cormio. Nel 2019, per Rivista Undici ho intervistato Cristiana Girelli, attaccante della Juventus, stella del movimento calcistico femminile in Italia – che negli ultimi anni in realtà ha fatto passi da gigante – che quella difficoltà la conosce bene e che quando si è ritrovata, per la prima volta, a giocare davanti a 40 mila persone ha pensato: «Quando ho fatto la borsa per uscire dallo spogliatoio ho pensato ai miei colleghi maschi, a quanto sono fortunati a vivere una cosa del genere ogni settimana». Un po’ come i designer della nuova leva, che spesso hanno la capacità intellettuale per indagare parti della cultura del nostro Paese inesplorate dalla moda del vestir bene e del buon gusto italiano, ma non l’appoggio necessario per farlo. Ne è un altro esempio Vitelli, un progetto che vuole scardinare la retorica sull’artigianato italiano, ma che sfila di domenica quando la maggior parte della stampa e dei buyer internazionali sono già in viaggio per Parigi o impegnati in re-see delle collezioni altrui.

Fuori calendario ci sono poi altri marchi che stanno provando a raccontare altre storie, da Garbagecore ad Adriana Hot Couture (qui la nostra intervista) fino al neonato Lulli International Service: tutti, per scelta e per forza, fuori dal calendario ufficiale. Per non parlare poi di chi è italiano e ha origini straniere, si pensi al caso della designer Stella Jean ha deciso di lasciare il suo posto in segno di protesta contro la decisione di Camera della moda di interrompere il sostegno al collettivo WAMI (We Are Made in Italy), il primo che riunisce designer italiani BIPOC (e il fatto che dobbiamo usare un termine inglese la dice lunga sullo stato di questo dibattito del nostro Paese, ne scrivevo qui). Per fortuna, uno spazio per loro c’è stato, in uno degli eventi più genuinamente partecipati che mi è capitato di vedere in questi giorni: quello che si è tenuto da Modes, in Piazza Risorgimento, dove Michelle Francine Ngomno, fondatrice e presidente di Afro Fashion Association e ideatrice dei Black Carpet Awards, ha presentato le collezioni di dodici nuovi designer da conoscere (qui il recap di Vogue Italia, che sosteneva l’evento). E proprio la partecipazione sentita era un segnale che questa Italia c’è, esiste e contribuisce al patrimonio creativo, culturale ed economico del Paese, nonostante le enormi difficoltà a essere riconosciuta. 

Uber-marchi e modi differenti di raccontare la femminilità
Tornando al binario uno, invece, di collezioni notevoli ce ne sono state, a cominciare da Prada, che questa volta ha voluto invertire l’ordine prestabilito dando il via alla sfilata con una decostruzione dell’abito da sposa, che nell’uniforme immaginata da Miuccia Prada e Raf Simons diventa uno splendido ensamble di gonna, maglioncino e ballerine, e continuava inglobando capi e accessori del guardaroba quotidiano, compresi gli abiti da sera ispirati alle divise delle infermiere, i bomber corti e i cappotti con il dettaglio della cappa couture, in un sunto sempre più coeso. Prada rimane il baluardo di una certa femminilità intellettuale ed è oggi un marchio oltre sé stesso che sa parlare alla Generazione Z, basta seguire il dibattito scatenatosi su TikTok e Twitter dopo che la creator Madeleine White ha tagliuzzato una tuta Prada per presentarsi alla sfilata (ovviamente invitata dal brand): il discorso sulla moda online è oggi caotico e spesso incomprensibile, e ci vuole la fermezza di Prada per starne al centro.

Bottega Veneta Autunno Inverno 2023-24. Photo courtesy of Bottega Veneta

L’evento della settimana è stata poi la terza sfilata di Matthieu Blazy da Bottega Veneta, che concludeva la sua trilogia italiana iniziata un anno fa. L’omaggio all’artigianato in movimento si è tradotto in una collezione ricca di idee e suggestioni, in cui Blazy ha dimostrato tutto il suo talento: veder crescere il suo punto di vista all’interno di uno dei marchi che rappresenta lo “stealth wealth” all’italiana, ovvero il lusso vero che sta nei materiali e nelle lavorazioni, è un piacere di quelli a cui si assiste raramente nella moda di oggi. Dal set della sfilata, in cui campeggiavano gli originali “Corridori” di Ercolano, provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e “Forme uniche della continuità nello spazio” di Umberto Boccioni, una delle ispirazioni della sua collezione di debutto, alla collezione in sé, quello di Blazy è stato un omaggio alla parata italiana, sacra e profana allo stesso tempo: i suoi personaggi sono tanti e diversi fra loro, ma convergono in un’unica direzione. Mentre i social si chiedono cosa fosse di pelle o cosa no – un po’ una versione di quel trend di TikTok “è una torta o un oggetto reale” – a dimostrazione di come la moda possa ancora stupire attraverso i vestiti, la sfilata ha visto anche il debutto italiano del testimonial d’eccellenza, RM dei BTS, che ha mandato in visibilio la città (del potere del K-pop ne parlavo in una delle ultime newsletter di Rivista Studio, si legge qui).

Anche Walter Chiapponi da Tod’s ha presentato una collezione che esprime al meglio quell’idea di eleganza senza sforzo, fatta di materiali preziosi, conclusa da Laetitia Casta in splendida forma. Tutt’altra femminilità sulla passerella di Glenn Martens da Diesel, bombastica celebrazione della libertà sessuale simboleggiata dalla montagna di scatole di preservativi brandizzati Diesel (collaborazione in vista con Durex) che era al centro del set dello show: Martens è uno di quei designer che ha oggi un seguito di culto, come dimostrano i total look, veri o presunti, che sempre si vedono fuori dalla sua sfilata, nonché uno degli show più divertenti della fashion week (c’era anche Alexis Stone vestito da Jennifer Coolidge, che in molti hanno scambiato per la vera Jennifer Coolidge). Da Gucci, la seconda collezione di passaggio prima del debutto di Sabato De Sarno a settembre, era una celebrazione delle infinite sfaccettature dell’archivio: un reset che apre la strada alle tante possibilità che si possono esplorare e che va nella direzione di aumentare l’attesa per sapere cosa farà il nuovo direttore creativo.

È ritornato da due stagioni in ottima forma anche Alessandro Dell’Acqua da N21, con una delle collezioni meglio riuscite della settimana e una di quelle che sa posizionarsi in un universo femminile che non può esaurirsi né nell’iper sexy né nel power dressing, piuttosto in tutto quello che di interessante, e reale, c’è nel mezzo. Ottima anche la seconda collezione di Andrea Incontri per Benetton, che ha il difficile compito di riscrivere l’identità del marchio italiano che si è inventato quello che oggi è diventato il fast fashion, mentre Sunnei, portando tutto il suo team in passerella e facendolo letteralmente tuffare tra il pubblico (tutto in piedi) continua nel suo esercizio di rottura del formato tradizionale della sfilata. Milano, insomma, aveva tanto da dire anche questa volta, peccato non sappia farsi ascoltare come dovrebbe.