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Milano e il virus: immaginare il futuro della città

L'assessore all'urbanistica Pierfrancesco Maran ci ha parlato di cosa cambierà e dei nuovi piani.

di Davide Coppo

Un'immagine del Parco Sempione scattata il 4 maggio del 2020, giorno di inizio della Fase 2 (Photo by MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)

Più di Roma, Torino o Napoli, le immagini di Milano vuota sono tra le più simboliche della pandemia. Un po’ per gli errori di comunicazione e gestione nelle prime fasi di contenimento, un po’ perché la Lombardia è stata e continua a essere una delle zone più pesantemente colpite dal Covid-19 del Pianeta, un po’ perché la città, con le amministrazioni Pisapia e Sala, era diventata qualcosa di più di una città. L’emergenza sanitaria ha avuto come corollario la frenata di tutta quella comunicazione caratterizzante degli anni passati, molto spavento e sgomento stando in città, e pure un po’ di Schadenfreude in altre parti d’Italia.

Per la cosiddetta Fase 2 il Comune di Milano ha diffuso – a partire dal 24 aprile – un documento chiamato “Milano 2020. Strategia di adattamento”, con cui si propone di tornare «al volante» della gestione dell’emergenza, delineando, a partire dalla crisi, una visione diversa della città. I cambiamenti, negli ultimi dieci anni di Milano, hanno riguardato in larga misura i trasporti e la trasformazione del tessuto urbano della città: questo è stato il primo tentativo di immaginare una città nuova, che non vuole solo preservare l’esistente ma ripensarsi a partire da un momento tragico. Abbiamo incontrato, per parlare di questo esercizio di immaginare il futuro, l’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran.

ⓢ Come è andata la prima giornata di Fase 2?
È stata abbastanza tranquilla. Eravamo preoccupati, anche perché, essendo il trasporto pubblico così ridotto, è ancora più importante che i cittadini abbiano chiaro che il 4 maggio non è un liberi tutti, ma che bisogna proseguire con lo smart working, con tutte le precauzioni, mantenere le distanze, eccetera. L’impressione che abbiamo dal primo giorno è che questa consapevolezza sia ben presente, quindi anche i numeri della città ci dicono che a oggi sono gestibili. Poi ovviamente va visto cosa succede nei prossimi giorni, però in un momento in cui si guarda il futuro a vista, il primo giorno è andato bene.

ⓢ Quando comunicaste l’allargamento delle zone pedonali, il Guardian fu uno dei primi quotidiani a riprendere la notizia, ancora prima di molti media italiani. Come sta funzionando il dialogo con l’estero da questo punto di vista?
Effettivamente siamo stati tra i primi a presentare una strategia cittadina per il “dopo”, che ha avuto una buona visibilità, e il sindaco Sala è a capo della task force C40 dei sindaci per progettare la ripresa. Da questa situazione le città possono reagire in due modi: quello di chiudersi negli spazi privati e privilegiare di nuovo le auto, oppure provare a mantenere alcuni elementi dello stile di vita urbano: spazio pubblico, aree pedonali, spazio a bar e ristoranti che lo perderanno all’interno. Mi sembra, ed è la cosa che mi conforta in una fase storica in cui nessuno sa qual è la cosa giusta, che tutte le città del mondo stiano prendendo la stessa strada.

ⓢ Il maggiore spazio all’occupazione di suolo pubblico può essere un primo passo verso una deregulation di una burocrazia che, in Italia, è sempre stata più severa rispetto ad altre città europee?
Semplificando credo che quest’estate sarà meglio mettere due tavolini in più anziché uno in meno. Bisognerà trovare una modalità di silenzio-assenso, su questo stiamo lavorando. Sul futuro non dobbiamo dimenticarci delle criticità che queste situazioni daranno, e che vanno gestite. Dobbiamo essere tanto aperti sulla possibilità di mettere tavolini fuori quanto rigidi sul rispetto degli orari.

ⓢ Come vivi la nuova sicura crescita della spesa pubblica?
È preoccupante: avviene in tutti i Paesi ma l’Italia è più indebitata degli altri. Però abbiamo spesso visto salire la spesa in momenti in cui poteva non essere necessario, in questo momento è indispensabile. Il tema è se riusciremo a utilizzarli nel modo migliore, e questo non sarà semplice anche perché hai la doppia leva dell’assistenza dei tanti in difficoltà e del rilanciare lo sviluppo.

Nel documento “Milano 2020 – Strategia di adattamento” si parla dell’allargamento del ciclo di vita giornaliero della città, di sfruttare di più tutte le 24 ore. Culturalmente, in Italia, la sera – o la notte – è sempre stata percepita come un periodo in cui non si lavora: mercati chiusi, biblioteche chiuse, attività chiuse.
Sì, ma possiamo anche pensarlo in una logica meno visibile e altrettanto rilevante: tutto il tema della logistica legata alle attività commerciali è sempre stata orientata alle ore diurne. Se spostiamo queste attività in orari in cui danno meno problemi di traffico, potrebbe già far parte di quella strategia. Ad oggi stiamo discutendo molto del tema degli orari ma nessuno ha ancora preso provvedimenti.

Come si tiene traccia dei progressi di questo momento per pensare i nuovi passi?
È una fase dove fare previsioni non è semplice. Conterà molto la psicologia collettiva: a giugno riaprono i bar e i ristoranti, ad esempio, i cittadini preferiranno comunque restare a casa e consumare solo da asporto, oppure, come auspichiamo, ci sarà un ritorno alla socialità nei luoghi pubblici, nel rispetto delle norme? Questa è una domanda su cui è difficile fare una previsione fino a quando non la vedremo in concreto.

Nel documento si parla di “nuovo ordinario”: sembra una parola che richiama non soltanto una fase, ma un cambiamento antropologico.
Secondo me sarà una fase molto difficile. È stato difficile ma necessario il lockdown, percepito da tutti come un elemento di sopravvivenza, io credo che diventerà ancora più complicato il fatto che avremo di fronte mesi, se non anni, di parziale privazione di libertà che consideravamo acquisite. È stato difficile stare in coda un’ora al supermercato? Sarà ancora più difficile stare in coda per fare qualsiasi tipo di acquisto, o in metropolitana. Sono tutti elementi che a medio termine rischiano di essere percepiti come inaccettabili, e gestire questo non sarà per niente semplice.

Com’è la situazione nei cantieri degli scali?
Abbiamo questa data che sono le Olimpiadi del 2026 che impongono per molti scali, come quello di Porta Romana, il rispetto dei tempi. La gara dello Scalo Romana, che si sarebbe dovuta concludere a maggio, slitta a settembre. L’impressione che abbiamo avuto dagli investitori è che quasi tutti hanno messo in pausa per qualche mese gli investimenti, ma che nessuno voglia davvero mollare il colpo. Questo per noi è importante, anche perché l’urbanistica ragiona non sulla città del giorno dopo, ma su quella che nascerà dopo alcuni anni.

C’è un focus, nel documento, sullo spirito di collaborazione dei cittadini, che poi significherebbe anche la creazione di un’identità di quartiere in una città che l’ha sviluppata, questa identità, meno di altre (vedi Roma). La cosa che in città si è vista con più sorpresa, nelle ultime due amministrazioni rispetto agli anni del centrodestra, è che alla crescita abitativa della città si è affiancata una crescita del senso di comunità, laddove di solito è il contrario.
È interessante come siano cambiati i nostri concittadini in questi anni: tra il 30 e il 50 per cento dei milanesi non era residente a Milano dieci anni fa. Questo stava portando, prima del lockdown, alla riscoperta di sistemi collaborativi di quartiere. Se non ci fosse questo tipo di accoglienza, faremmo fatica, come pubblico, a offrire supporto ad alcuni soggetti. Ma la cosa su cui dovremo lavorare molto è che questa dinamica è molto marcata nei quartieri più anagraficamente giovani, e fa fatica nei quartieri più popolari, dove il mix tra anziani e stranieri è più debole nel creare nuove basi di senso di comunità.