Attualità | Dal numero

La Milano dei cinesi

Per celebrare l'anno del maiale, un estratto dal nostro numero su Milano, dedicato a via Paolo Sarpi e dintorni.

di Cristiano de Majo

Membri della comunità cinese durante la celebrazione del capodanno (18 febbraio 2018, foto di Emanuele Cremaschi/Getty Images)

Nonostante abbia sempre orbitato intorno a via Paolo Sarpi da quando vivo a Milano, Paolo Hu, che non si chiama Paolo ma non mi hai mai detto il suo vero nome, è l’unico cinese con cui abbia avuto un abbozzo di rapporto. È il padre di Hu Jinqiao, compagno di classe, prima alla materna e poi alle elementari, di mio figlio Matteo. Arrivato in Italia a 10 anni, Paolo è l’unico cinese che abbia incrociato che dimostra un qualche interesse verso di noi, e anzi qualcosa di più. Parla la lingua a un buonissimo livello, porta suo figlio alle feste di compleanno dei miei (cosa per nulla scontata per un bambino cinese) e, quando gli ho chiesto quali ristoranti preferiva, mi ha detto che al cinese non ci va mai e che a casa preferiscono cucinare italiano. Mi ha dato dei consigli immobiliari, invece.

Mi ha detto che adesso conviene comprare nella zona nord, tra Sarpi e Sempione e, quando gli ho fatto notare che è già salita tantissimo, mi ha detto: «Ancora di più». Con fare un po’ cameratesco, mi ha rimproverato perché sono separato, suggerendo velatamente che gli uomini italiani non sono seri. Sua moglie è una ragazza carina, e così come lui è esuberante, lei è timida, con capelli lunghi e lineamenti rotondi, e apparentemente troppo giovane per avere tre figli. Quando ho portato la mia fidanzata a comprare le lenti a contatto nella sua ottica di via Paolo Sarpi, le ha detto che dai suoi occhi uscivano «fulmini di drago», suggerendo velatamente che fosse una che strega gli uomini, o forse flirtando (sua moglie non c’era, suo figlio era alla scuola cinese, essendo domenica). È un po’ il bozzetto comico di un incontro-scontro tra civiltà, me ne rendo conto, ma è la cosa più “umana” del mio rapporto con la Milano cinese. Anche se poi in realtà questa Milano cinese, per me che ho imparato a conoscere la città partendo proprio dalle strade intorno a via Paolo Sarpi, è la Milano in cui mi sento più a casa.

Certo, senza capirla fino in fondo, ma sviluppando una familiarità emotiva con il paesaggio urbano – a metà tra una bella zona pedonale del Nord Italia e una scena di Blade Runner – e con quello umano, fatto di strani personaggi ricorrenti: come il suonatore d’arpa, un cinese altissimo e magrissimo che staziona, alternandosi, sempre negli stessi due angoli di via Paolo Sarpi, suonando sempre la stessa melodia per ore, giorni, mesi e che, alle lamentele di chi è ormai arrivato al punto massimo di sopportazione, oppone un sorriso gentilissimo e una scrollata di spalle. O come quello che tra me e me ho ribattezzato “il contabile della mafia”, un uomo di mezz’età con i capelli lunghissimi bianchi che incrocio spesso fuori a uno dei bar dall’aria più tetra, sempre con la sigaretta tra le labbra e addosso dei completi sgargianti, e stretti nella mano un pacchetto di bigliettini di carta ripiegati che ho fantasticato possano essere i suoi crediti. O come i condomini del palazzo di ringhiera di via Messina dove vive la mia fidanzata, quelli che stendono funghi mai visti e piccoli pesci a essiccare sul ballatoio; quegli altri che litigano urlando a volumi impossibili; è la casa dove una notte, durante un litigio particolarmente turbolento che mi ha spinto a uscire sul pianerottolo, ho visto un uomo uscire urlando con la faccia piena di sangue.

Poi più indistintamente ci sono i ristoranti e i fast food dove andiamo a mangiare, i parrucchieri strapieni della domenica, lo struscio del weekend con quelle famiglie che sembrano teletrasportate dagli anni ’50 e i ragazzi con le maglie Supreme e le sneaker costose che vanno in giro coi bicchieri di bubble tea. È una città parallela, ma per niente nascosta, da cui forse potremmo capire che, se ci interroghiamo sull’integrazione, possiamo ricordarci di Chinatown, per quanto il luogo comune voglia che i cinesi non hanno nessuna voglia di integrarsi (cosa vorrà dire poi?). Un po’ è merito dell’autosufficienza cinese, un po’ della Milano aperta. Il simbolo di tutto questo potrebbe essere l’ufficio postale di via Lomazzo, a pochi passi dalla neonata piazzetta Ho Feng Shan (sorta di Schindler cinese), dove uno sportello in lingua cinese – luogo presso cui sembrano svolgersi spesso complicatissime e cruciali operazioni finanziarie – convive senza problemi con i soliti pensionati che si lamentano di qualunque cosa.