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L’anno in cui tutta la musica è diventata mainstream

Probabilmente non abbiamo mai ascoltato tanta musica come nel 2022, e mai come nel 2022 è stato difficile scoprire qualcosa di nuovo, diverso, rivoluzionario.

30 Dicembre 2022

In un panorama musicale del quale è impossibile vedere ogni anfratto, composto in misura sempre maggiore anche da scene sommerse e lontane, più che di grandi novità il 2022 sembra essere stato un anno di conferme e di consolidamento. Anche aiutato dal cosiddetto ritorno alla normalità che ha riguardato un po’ tutti gli ambiti della nostra vita, e che nel settore musicale ha significato soprattutto il ritorno dei live, dei festival e delle registrazioni non più svolte a distanza. La parte del leone l’ha fatta ovviamente il pop delle superstar internazionali, quelle già nell’empireo come Taylor Swift (il suo Midnights è un fenomeno sociale più che un disco) e Beyoncé (con Renaissance la regina del mondo ha confermato il trend del ritorno della dance), e di quelle in ascesa come Harry Styles, mentre Bad Bunny è diventato un fenomeno sempre più globale, come anche The Weeknd, che a proposito di consolidamento si è giocato la carta di un disco sulla falsariga del successo stellare del precedente. Anche se chi, nell’ambito del mainstream, è davvero riuscita a mettere d’accordo tutti, dalla vostra cuginetta adolescente che vi ha pregato di trovarle un biglietto per il concerto a Kevin Martin (The Bug) è stata Rosalía. Il suo Motomami ha avuto tutte le carte in regola per essere un successo stellare ma anche per risultare interessante e particolare alle orecchie più rodate.

Del tutto diverse l’immagine e i riferimenti, ma se la vostra cosa sono le buone vecchie chitarre è probabile che il vostro disco dell’anno sia quello dei Fontaines D.C. (Skinty Fia). Interessante anche lo scarto laterale fatto dai Radiohead, o meglio da Thom Yorke e Jonny Greenwood, con il progetto The Smile, che un po’ tutti sembrano aver trovato più interessante delle ultime prove della band madre. Altre uscite molto celebrate in un ambito che per comodità chiameremo “rock” sono state quelle di Alvvays, Black Midi e Black Country New Road, ma non si può non citare anche l’originale visione del folk dei Big Thief, l’interessante vena di follia creativa dei Jockstrap (I Love You Jennifer B il loro disco), e la potenza dei Soul Glo (Diaspora Problems). Su un altro piano sta Weyes Blood: anche se molti continuano a preferire il suo Titanic Rising (2019), And In The Darkness Hearts Aglow l’ha confermata come una delle voci più eleganti e creative del cantautorato contemporaneo. Si sono fatti notare molto quest’anno anche i The 1979 – ve la butto lì come annotazione perché vi confesso che il disco precedente mi aveva fatto talmente orrore che con quello nuovo proprio non mi sono azzardato, però pare che piacciano molto ai giovani.

E a proposito di giovani, cosa è successo ai piani alti della classifica in Italia? La Fimi ancora non ha comunicato i suoi dati finali, ma non sorprenderà vedere in cima ai dischi più venduti dell’anno Sirio di Lazza, ancora insidiato da album dell’anno scorso che hanno continuato ad andare molto bene (Rkomi in primis, ma anche Blanco e Sfera, oltre ovviamente ai Maneskin). Un altro exploit importante è stato quello di Irama, in grado di tenere insieme il pubblico più tradizionale con le ballatone come quella sanremese ma anche quello più giovane con i brani più radiofonici, e con un lavoro ben studiato sui featuring. A livello musicale, nel genere l’uscita più notevole è stata forse c@ra++ere s?ec!@le di ThaSup (non più Tha Supreme), che si conferma un piccolo genio con molta fantasia e poca paura di rischiare.

Ma se a livello socioculturale la parola dell’anno è stata probabilmente “maranza” e il suo mutamento semantico (da sinonimo di discotecaro ad amante della trap), è interessante notare anche come questa particolare specie di sottocultura abbia in comune, come sempre nell’ambito delle sottoculture giovanili, l’estetica (tute, maglie da calcio, borsello, permanente, Nike) e la colonna sonora. Dove a farla da padrone sono Paky e Rondodasosa, ma anche Shiva. Paky è arrivato a un successo importante rappando veramente, senza concessioni alla hit radiofonica, e raccontando in modo crudo e senza filtri la sua vita e la realtà di Rozzano, mentre di Rondo è notevole come sia un fenomeno globale, realmente ascoltato anche all’estero. Se sul rap più canonico scontiamo da sempre un ritardo culturale, è interessante notare come il fenomeno drill (il sottogenere cui Rondo fa riferimento) si sia effettivamente diffuso in contemporanea attraverso il web in tutto il mondo. L’ultimo considerevole successo che citeremo dai piani alti della classifica italiana è quello dei Pinguini Tattici Nucleari, praticamente gli 883 dei nostri giorni. Sempre dalla provincia di Bergamo sono ritornati i Verdena, continuando a fare quello che fanno al meglio.

Avventurandoci in territori meno battuti, Caterina Barbieri prosegue meritatamente la sua conquista delle platee internazionali. Nell’ampio panorama che comprende elettronica, elettroacustica, improvvisazione e classica contemporanea quest’anno abbiamo potuto godere di una serie di uscite formidabili come quelle di Kali Malone (Living Torch), Pan Daijing (Tissues), Ellen Arkbro (con Johan Graden), Lucrecia Dalt (¡Ay!) e Sarah Davachi (Two Sisters), in quella che per quanto mi riguarda potrebbe tranquillamente essere una lista di dischi dell’anno. Dall’Italia spicca anche Rimorso di Mai Mai Mai, segnalato da più parti tra i lavori più interessanti di questi mesi. Nel suo album è presente anche un featuring di Nziria, che mi ha permesso di scoprire il suo XXYBRID, un lavoro che per vari motivi purtroppo troverete raramente nelle classifiche di fine anno ma che lo meriterebbe. In ambito elettronico, ma a dire il vero a trascendere i generi, è uscito (su PAN) anche X, wheel, primo album di Heith (Daniele Guerrini) dopo molti EP, un lavoro molto vario e di rara bellezza tra ambient, psy, stoner e folk. In ambito sperimentale mi fa piacere segnalare anche una particolare uscita a firma Sebastién Forrester: Orpheus’ Pipes (Object – Oriented Studies) è un disco formidabile, fatto di manipolazioni di registrazioni tradizionali di cornamuse.

Nel mondo black/hip-hop è stato l’anno del ritorno di Kendrick Lamar, con un disco importante, forse fin troppo denso, ma anche di un ritorno atteso molto più a lungo, quello dei Black Star di Mos Def e Talib Kweli, un buon lavoro passato molto sottotraccia per una scelta di distribuzione decisamente suicida (soltanto attraverso l’abbonamento a una piattaforma di podcast). Il disco dell’anno, nell’ambito, per quanto mi riguarda però è quello di Danger Mouse & Black Thought: gli ingredienti che compongono Cheat Codes sono splendide basi, rap fatto come si deve e featuring di peso. Un altro che è tornato in forma è Nas, mentre Pusha T in forma lo è sempre stato, e tale si è confermato. Due nomi che hanno realizzato ben due dischi a testa, entrambi formidabili, sono poi quelli di Billy Woods e di Ka. Il secondo non sbaglia mai un colpo, mentre il primo con Aethiopes e Church si conferma come una delle voci più creative del panorama underground.

A livelli altissimi si ripresenta anche una leggenda del reggae come Horace Andy, protagonista anche lui di due dischi (Midnight Rocker e Midnight Scorchers, entrambi prodotti da Adrian Sherwood per On-U Sound). Altri due nomi, questa volta in coppia, e in un ambito molto più nuovo, ma già ampiamente canonizzato, hanno continuato a fare il loro: si tratta di Bladee e Ecco2k con Crest. Due altre figure che, in ambiti diversi, hanno realizzato lavori molto belli e interessanti in questo 2022 che si va a concludere sono Oren Ambarchi e Moor Mother, accomunati se non altro dal comparire con più di un disco in questa nostra lista ideale. Ambarchi in solitaria con Shebang e insieme a Johan Berthling e Andreas Werliin con il minimalismo di Ghosted, mentre Moor Mother con Jazz Codes e con un disco su Hyperdub che segna l’esordio del duo 700 Bliss. Altra uscita bellissima è stata In These Times del percussionista e producer Makaya McCraven.

Scorrendo i nomi citati finora mi accorgo anche di assenze pesanti come Denzel Curry, Anteloper, la freschezza di Yaya Bey, l’impressionante Natural Brown Prom Queen di Sudan Archives, le conferme di SZA e Little Simz, Huerco S. che torna sulla strada giusta con Plonk, il successo di Steve Lacy con Gemini Rights, un bel disco dei “soliti” Bitchin Bajas, il ritorno di Brian Eno, il cantautorato obliquo di Eric Chenaux, la musica da camera di Spiralis Aurea di Stefano Pilia, il magico trio sloveno dei Širom, il nuovo progetto Wild Terrier Orchestra di Jay Glass Dubs, le percussioni dell’incredibile Nok Cultural Ensemble, la fusione tra dub e musiche tradizionali di Maral con lo splendido Ground Groove

Passando al discorso concerti torniamo a menzionare Kendrick Lamar, perché il suo live milanese di quest’estate è stato probabilmente l’evento del 2022, anche perché dopo un primo concerto ai Magazzini Generali nel 2013 in cui si era limitato a rappare sopra alla base (mentre in patria già portava live set molto più elaborati), questa volta ci ha degnati di uno spettacolo completo. Per il 2023 attendiamo la venuta di Travis Scott e di The Weeknd, i due più grossi nomi in programma, in un ambito sempre un po’. Sarà interessante anche vedere cosa combinerà Marracash con il suo festival Marrageddon, dopo aver portato nei palazzetti di tutta Italia uno dei tour più significativi degli ultimi anni, anche nel mostrare la maturità raggiunta dal genere.

Se quest’anno mi ha fatto impressione che gli Animal Collective abbiano pubblicato il loro undicesimo album (Time Skiffs, mentre il solo Panda Bear ha trovato anche il tempo di realizzare un bel disco in coppia con Sonic Boom, Reset) e che sono in giro da ventidue anni, non meno me ne ha fatta l’uscita di Meet Me in the Bathroom, il documentario a firma Will Lovelace e Dylan Southern che racconta la scena newyorkese dei primi anni Duemila (Strokes, Interpol, Yeah Yeah Yeahs, LCD Soundsystem, Rapture…). È stato l’ultimo colpo di coda del rock? Fu vera gloria? Comunque la pensiate, sarà che è stata una delle prime che ho vissuto a un’età già abbastanza matura da viverla compiutamente e in diretta, ma mi ha colpito vederla ormai legittimamente oggetto di storicizzazione.

Insomma di musica nel 2022 ce n’è stata tanta e per tutti i gusti, e grazie alla facilità di accesso data dallo streaming probabilmente se ne è ascoltata molta di più di quanto non si facesse decenni fa. Sembra però, in tutti gli ambiti, sempre più difficile imbattersi in qualcosa di nuovo e mai sentito, di rivoluzionario e allo stesso tempo numericamente almeno rilevante, davvero in grado di rompere bolle e schemi, e non di esaltare soltanto il ristretto manipolo di appassionati di cui non nego di fare parte. A partire dal 2016 in Italia in ambito discografico è davvero cambiato tutto, e il nuovo rap italiano si è preso un mainstream che fino a quel momento era ancora principalmente fatto dai vari Ligabue e Eros Ramazzotti, o da Alessandra Amoroso e Valerio Scanu per guardare ai giovani. Ora che la musica effettivamente ascoltata dai giovani coincide con il mainstream discografico, è andato scomparendo quel sottobosco creativo che anche con numeri minori riusciva comunque a essere vitale, e ci troviamo nell’inedita situazione in cui gli under 30 ascoltano effettivamente soltanto la musica mainstream, le sottoculture coincidono con la cultura di massa, e non sembrano essercene altre all’orizzonte. Ma non penso che la musica non sia più quella di una volta, forse sono solo io che non sono più quello di una volta, o forse sono altri i settori, i luoghi o i modi in cui il mondo sta cambiando.

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