Cultura | Musica

Com’è invecchiato l’indie in 20 anni

Cosa significa il ventennale di Is This It, il primo album di successo degli Strokes, per i Millennial che sono cresciuti con loro.

di Davide Coppo

Ho letto qualche mese fa, da qualche parte su internet, una battuta che faceva tipo: i Millennial che ascoltano gli Strokes ancora oggi sono come i Boomer (i nostri genitori, alla fine) che ci facevano ascoltare i Dire Straits negli anni Novanta. Mi ha fatto ridere. Poi ho pensato: però è vero. Qualche ora dopo, probabilmente, in una delle mie decine di playlist di Spotify sarebbe partita una canzone degli Strokes. Quando ho iniziato a sentire l’avvicinarsi del ventennale di Is This It non ho avuto la reazione tipica di chi si accorge di essere improvvisamente invecchiato, quel “cosa?” o, più in gergo da internet e messaggi direct, “WTF”, che ci si potrebbe aspettare. Non mi stupisce l’enormità di quel numero – vent’anni! – che è più o meno l’età che avevamo io e ogni altra persona che, generazionalmente, con quel disco e in quella scena è cresciuta. Perché è evidente quanto il mondo oggi sia diverso da quel mondo là. Quello di vent’anni fa.

Innanzitutto, la musica. È difficile trovare, nelle classifiche di oggi, qualcosa di simile agli Strokes o al mondo che nei mesi successivi si generò e si prese le copertine delle riviste musicali e di moda e di lifestyle e di cultura, quella scena multiforme e multiculturale chiamata indie. Gli Strokes, per dire la cosa più evidente a un colpo d’occhio, erano bianchi. E uomini. E ricchi. Quasi tutta la scena indie che si sviluppò nei dieci anni successivi rimarrà fatta di giovani ragazzi bianchi, con pochissime eccezioni notevoli: Gary Powell, batterista dei Libertines, Kele Okereke, leader dei Bloc Party; Dev Hynes, chitarrista dei Test Icicles (e che sarà poi Lightspeed Champion, e poi ancora Blood Orange). Per quanto riguarda la presenza femminile, gli Yeah Yeah Yeahs di Karen O segnarono effettivamente la scena indie come poche altre band, ma rimane il fatto che le donne erano una minoranza evidente.

Il mondo era diverso, insomma, ma quel disco cambia la musica più di quanto, all’epoca, sembrasse possibile. Il rock, nel 2000, era in pessima salute: le chitarre erano uncool, il poserismo che nacque sull’onda dell’indie (e di Myspace) alla Velvet Underground non esisteva ancora, i Nirvana erano lontani e la Rough Trade non produceva una band capace di segnare il suo tempo dall’epoca degli Smiths. Gli Strokes vengono infatti scoperti dall’Inghilterra, e proprio da quella piccola etichetta che, pochi mesi dopo, si affretterà a far firmare anche i Libertines per avere l’equivalente albionico di Casablancas, Hammond e soci. Solo dopo arriva la RCA negli Usa, che riesce però a far sparire anche quella sottile vena di denuncia politica che emergeva dal disco, chiedendo l’eliminazione dall’edizione americana del cd del brano “New York City Cops”, scritto per ricordare l’omicidio, da parte della polizia di New York, di Amadou Diallo.

Is This It esplode subito. Gli Strokes suonano ai festival più importanti (i festival!), vanno nei salotti giusti – Saturday Night Live e Letterman – e soprattutto si vestono troppo bene per passare inosservati. Si dice che la collezione autunno-inverno 2000/2001 di Hedi Slimane per Yves Saint Laurent, chiamata The Black Tie, fu fondamentale per definire l’estetica skinny dell’indie degli anni seguenti, e proprio Slimane sarà il padrino di moda per la scena indie nei dieci anni successivi, soprattutto nel suo percorso con Dior, ma gli Strokes hanno già le carte giuste in tasca. Da un lato Casablancas, figlio di quel Casablancas, è cresciuto nel mondo della moda; e poi c’è Albert Hammond Jr. che suona sempre in abito e cravattino e All Star, Fabrizio Moretti che si fidanza con Drew Barrymore nel 2002, il primo video della band, “Last Nite“, diretto da Roman Coppola, fratello di Sofia. Gli Strokes giocano a fare i punk ma si buttano senza timidezza nel jet set, come faranno poi anche i loro omologhi inglesi, con Pete Doherty e Kate Moss a formare una delle coppie più iconiche del decennio.

La coolness degli Strokes era salvifica nell’occidente post 11 settembre, i jeans skinny e le magliette vintage ci facevano pensare che un rock figo e che non fossero i Dire Straits (e nemmeno i Talking Heads, per i più fortunati) fosse effettivamente possibile, e soprattutto fatto per la nostra generazione. I testi erano strani, non si capiva il senso generale ed erano soprattutto iper-individualistici, e proprio per questo funzionavano. Imran Ahmed, oggi direttore di BoF, nel 2005 descriveva su Pitchork gli ingredienti dei testi dei Bloc Party, ricetta simile per molte altre band: noia, sesso e consumo di droghe. Nessuna denuncia, nessuna guerra dell’Iraq, nemmeno la volontà magari cafona di fare soldi, perché non ce n’era bisogno (meglio comunque dei Libertines, che mischiavano elogi albionici pre-Brexit – «Down in Albion, they’re black and blue» – e sottili fascinazioni imperiali alla Kipling). Band mediamente privilegiate per un pubblico mediamente privilegiato che voleva soltanto fare clubbing, guardare vecchi film, bere moltissimo, drogarsi un po’ e ovviamente scopare. Legittimo, e però anche naturale che non sarebbe potuta durare troppo.

Band mediamente privilegiate per un pubblico mediamente privilegiato che voleva soltanto fare clubbing, guardare vecchi film, bere moltissimo, drogarsi un po’ e ovviamente scopare. Legittimo, e però anche naturale che non sarebbe potuta durare troppo

Nonostante il boom di copertine, gli Strokes vendono pochino, meno di quanto ci si aspettasse. Nel 2017 la giornalista e scrittrice Lizzy Goodman pubblica il libro Meet Me in the Bathroom: Rebirth and Rock and Roll in New York City 2001-2011, da cui si evince la velocità con cui la band si disintegrò, incapace di cavalcare il suo stesso successo, facendosi sorpassare nel mainstream da gruppi come i Killers, nonostante, come dice nello stesso libro la giornalista di Rolling Stone Jenny Eliscu, «c’è una differenza tra chi ha fatto l’underground e gli hipster. L’underground rimane, è più arte che soldi. I Killers non sono mai stati parte dell’underground». La critica li stronca perché Room on Fire è troppo simile a Is This It, poi esce First Impressions of Earth e questa volta è troppo diverso da Room on Fire – «l’abbiamo presa nel culo due volte», dirà Hammond. Succede quello che succede spesso alle band che non diventano i Rolling Stones: iniziano a litigare, c’è la solita droga e la solita rehab (per Hammond) e soprattutto la mancanza di una visione. Dave Gottlieb, vicepresidente marketing della loro etichetta americana, dirà: «Room on Fire è un disco buono tanto quanto Is This It; problema è che nessuno nella band sapeva venderlo. Gli chiedi: qual è la vostra visione? Quali sono i vostri obiettivi? Nessuno ha una risposta».

Anche l’aura rock svanisce in fretta, nei litigi: Austin Scagg, giornalista, racconta nello stesso libro di Goodman di quando andò in tournée con la band in Brasile e Sud America. Con una videocamera, voleva riprendere tutto il backstage, vivere una vera esperienza rock: «Pensavo sarebbe stato tipo con i Led Zeppelin. Una costante orgia di alcol e droga. Era il contrario. Gli Strokes si stavano sgretolando davanti ai miei occhi, davanti al mio obiettivo. Un sacco di risentimento e di tensione. In tutto il tour, non ho visto una sola donna nuda».

Oggi Is This It è probabilmente un disco più cult di quanto sembrava potesse diventare in quegli anni. Non una pietra miliare come i cult degli anni Settanta, ma i decenni passano ed è ragionevole pensare che quel tipo di dischi appartengano al Novecento pre-internet. Forse perché nella scena non è morto nessuno, e anche il più autodistruttivo del gruppo, Pete Doherty, è diventato un morbido inglese che si veste male e va in vacanza a Phuket, come ogni inglese che si rispetti (Winehouse era diversa, troppo unica e anarchica per essere legata solo a una scena). La magia dell’indie sconta oggi tutti gli anni che effettivamente ha, eppure mi sembra che nessuna band, dopo gli Strokes, sia riuscita ad avvicinarsi a quello che hanno fatto gli Strokes in termini di rilevanza musicale e di costume. Questo, però, lo dico perché sono forse diventato come uno di quei Boomer che ascoltano da 30 anni lo stesso disco dei Dire Straits.