Attualità

Perché bisogna dire “terrorismo islamico”

Abbiamo approfondito con Michele Serra la questione sollevata da un suo editoriale di ieri.

di Anna Momigliano

Isis

Nella sua Amaca uscita martedì su Repubblica Michele Serra ha espresso una forte presa di posizione sulla necessità di definire “islamici” gli attentati di questa matrice, rifiutando di appellarsi a una connotazione generica di “terrorismo” senza specificazione. All’indomani delle stragi in Bangladesh, in Iraq e in Arabia Saudita, infatti, molti dei leader occidentali si sono rifiutati di utilizzare l’espressione “terrorismo islamico”, forse per non dare adito a reazioni xenofobe. Il corsivo del noto editorialista ci è sembrato uno scarto rispetto all’eccesso di cautela linguistica (che in alcuni casi può sfociare nel giustificazionismo) tipico di una parte della sinistra italiana, e non solo. Così abbiamo raggiunto l’autore via email. Proprio nei momenti di tensione maggiore è importante chiamare le cose con il loro nome, perché negando l’evidenza si finisce per rafforzare i razzisti, ci ha detto Serra.

 

Perché è così importante parlare di terrorismo islamico? Scrivi che non farlo sarebbe fonte di «debolezza e confusione». Come mai?

È importante perché esattamente di questo si tratta: la degenerazione omicida e fanatica di una fede religiosa. Di quella fede religiosa. Mai forma di terrorismo fu eseguita e rivendicata con tanta chiarezza: morte agli infedeli e agli impuri. Il jihadismo sta all’Islam come le Brigate Rosse stavano alla sinistra, e solo quando la sinistra ha capito in pieno che non si trattava di “provocatori” o di altra cosa, ma di fanatici disposti a uccidere nel nome (usurpato) del movimento operaio, si è potuto capire il fenomeno e prendere le contromisure. Un’analisi divagante del fenomeno serve solo a negare l’evidenza.

 

Avresti usato volentieri il termine terrorismo islamico anche qualche anno fa? O ti sei convinto solo di recente?

Non ricordo quando l’ho usato per la prima volta. Certo nel caso dell’orribile aggressione a Malala; nel caso della distruzione dei grandi Buddha di pietra in Afghanistan; nel caso dell’uccisione a tradimento di Massoud da parte dei talebani; dunque da parecchi anni, sono sicuro di avere attribuito al fanatismo islamico ciò che proveniva dal fanatismo islamico. Per non dire durante i massacri (dimenticati) degli algerini laici da parte delle bande jihadiste, ormai venticinque anni fa. Non credo di avere mai omesso di attribuire al fondamentalismo islamico i crimini del fondamentalismo islamico.


serra
C’è una reticenza diffusa (per esempio nell’amministrazione Obama) a chiamare il terrorismo islamico con il suo nome. È solo un problema della sinistra oppure trovi esista anche a destra?

La giusta esigenza è non confondere mai, e per nessun motivo, una comunità religiosa di più di un miliardo di persone con una sua propaggine radicale e genocida. Che fa strage, non dimentichiamolo mai, soprattutto tra i musulmani: vedi le recenti stragi di Baghdad. Se ai tempi delle Brigate Rosse qualcuno mi avesse detto “sei di sinistra, dunque terrorista”, o avesse parlato in senso lato della sinistra come di un covo di terroristi, mi sarei offeso a morte, e sarebbe stata offesa a morte anche la realtà delle cose. Ma questa giusta esigenza non deve diventare paralizzante. Non deve diventare omissione o pruderie politica. Quando Rossana Rossanda scrisse sul Manifesto il suo coraggioso pezzo sul terrorismo rosso come parte dell’«album di famiglia», non certo come un corpo estraneo alla sinistra, il terrorismo cominciò a perdere. Allo stesso modo, io penso che quando l’Islam nella sua maggioranza prenderà atto dell’esistenza di un terrorismo islamico, il terrorismo islamico comincerà a perdere.

 

Come ti spieghi questa reticenza? è solo paura di fomentare l’odio contro le persone di fede islamica, oppure ci sono ragioni più complesse? magari sensi di colpa post-coloniali?

Dei sensi di colpa post-coloniali bisognerebbe fare a meno così come dei sensi di colpa in genere. Le colpe dei padri non ricadono sui figli, checché ne dicano le Scritture di ogni ordine e grado. È importante, piuttosto, tenere conto, nell’analisi della situazione, anche dei crimini e delle idiozie che le potenze occidentali hanno messo in atto nel mondo intero. Non certo per sentirsi in colpa, ma per capire come sono andate le cose. Se cercate sul web, troverete uno studio (britannico) secondo il quale i Paesi del mondo nei quali gli inglesi non hanno avuto una presenza militare sono, se non ricordo male, ventidue su centoquaranta. Ripeto: ventidue su centoquaranta.

 

Dopo l’11 settembre c’è chi proponeva di utilizzare il termine “islamista” (anziché islamico) per indicare la minoranza più estremista dell’Islam che è legata agli atti di terrorismo. Hanno senso queste distinzioni oppure è un altro modo di non chiamare le cose col loro nome?

È un problema “tecnico”. Islamista dà più l’idea di una ideologia, di una interpretazione politico-dogmatica di una fede. Islamico è più generico. Mi vanno bene entrambe le cose, quello che non è più sopportabile è il riferimento al “terrorismo” senza aggettivi, come uno spettro senza volto e senza nome.

 

Per riprendere il paragone con le Brigate Rosse, come ci spieghiamo il doppio standard? E cioè che se uno dice che le Brigate Rosse sono un’organizzazione terrorista nessuno lo accusa di dare dei terroristi a il Pci, mentre se si parla di terrorismo islamico allora sembra che sia un’accusa a un’intera religione?

Deriva da una giusta intenzione (non criminalizzare intere comunità) ma conduce a una reticenza ugualmente dannosa. Quando Mattarella e Obama parlano di “terrorismo” e basta non rimediano certo a quell’orribile titolo di Libero dopo la strage del Bataclan: islamici bastardi. Sono le due facce di uno stesso errore. Non bisogna essere razzisti, ma non bisogna nemmeno fare finta che non esista una matrice precisa, e molto rivendicata, di queste stragi abominevoli.

 

Secondo te questo eccesso di prudenza linguistica finisce per rafforzare gli estremisti come Salvini, Trump o Le Pen?

L’effetto è esattamente quello. Quando le comunità non si sentono protette, non sentono difesi i loro valori fondanti, diventano più fragili e più soggette alle peggiori avventure ideologiche. Per questo è urgente e importante che sia lo spirito democratico a ribellarsi alla barbarie di un movimento armato che uccide gli impuri, lapida le adultere, non vuole che le donne vadano a scuola. Quel tipo di fanatismo religioso offende in primo luogo la libertà delle persone, la libertà di culto, la democrazia. I leader politici democratici dovrebbero essere in prima linea a denunciare il pericolo, a chiamare nemico della libertà chi è nemico della libertà.