La spettacolare crisi di nervi di Michele Morrone

L'autodefinitosi divo internazionale se l'è presa con tutto il cinema italiano, con Elio Germano, Luca Marinelli, i David, il circolino, l'amichettismo, le scarpe Clarks. È diventato già l'attore preferito dalla destra, anche se nessuno ha ancora capito cosa l'abbia fatto arrabbiare.

22 Maggio 2025

I gialli migliori sono costruiti tutti attorno a un pezzo mancante. Del fattaccio che sta al centro della vicenda, il giallista esperto espone in maniera lineare, sin dall’inizio, quasi tutta la cronologia, tenendo per sé i pochi e fondamentali minuti che bastano a trasformare un fatto in un mistero. Cos’è successo in quel momento e in quel luogo, e perché e chi era dove e chi ha fatto cosa. Sono 24 ore che mi chiedo se Michele Morrone sia un appassionato di gialli e se voglia aggiungere anche “giallista” alla già lunghissima lista di esperienze presente nel suo curriculum (attore, cantante, produttore, modello, influencer e pure un po’ pittore). Nel caso, visto che come attore si dà un otto – la persona più umile nella stanza, lo hanno definito sui social – gli suggerisco di darsi un 10 come giallista: è da ieri che mi chiedo cosa sia successo tra il momento in cui è stata trasmessa la sua intervista a Belve di Francesca Fagnani (in cui ne ha dette, ma non ha detto niente che il format non preveda) e quello in cui Morrone ha pubblicato quel post su Instagram, con il quale ha esplicitamente mandato a quel paese istituzioni e cittadini del cinema italiano. Il pezzo mancante, appunto: cos’è successo a Morrone tra un momento e l’altro, dov’era, perché è successo e chi c’era con lui e chi ha fatto cosa. Erano anni che un giallo non mi appassionava a tal punto.

Divo internazionale

Un divo internazionale, come Morrone si definisce, pubblica lui i contenuti sui suoi profili social? Certamente no. Un divo internazionale va protetto, soprattutto da se stesso. In calce al post Instagram nel quale il divo internazionale annunciava di essersi «rotto bellamente il cazzo» del cinema italiano (al quale, comunque, precisa di non appartenere), si legge la firma in stampatello dell’autore: MICHELE MORRONE, come a voler fugare ogni dubbio. Questo sono io, attore, cantante, produttore, modello, influencer, pure un po’ pittore e non ho un social media manager che mi fermi la mano che uso per postare quando mi vede incazzato.

Ma perché era così incazzato, Morrone? Un altro piccolo favore, la sua ultima prodezza hollywoodiana, è sempre nella Top 10 dei titoli più visti su Prime Video (in questo momento è stabile al terzo posto). Un altro successo direct to streaming, certo non paragonabile alla trilogia di 365 giorni, ormai ascesa allo stato di classico, almeno tra i porno softcore prodotti in Polonia, ma comunque un successo che rende ancora più credibile – non che prima non lo fosse, figuriamoci – la definizione di divo internazionale. È stato pure candidato ai Razzie Awards, per quell’interpretazione in 365 giorni, nella stessa categoria di attori (forse) suoi pari come Robert Downey Jr. e Adam Sandler.

Forse Morrone si aspettava di ricevere un David Speciale, magari assieme a Timothée Chalamet, addirittura al posto suo (sempre di divi internazionali stiamo parlando, d’altronde)? Ma lo ha detto lui stesso a Belve, con fare assai stannislarochelliano: a che servono i David in un mondo in cui esistono gli Oscar, che se ne fa di Cinecittà uno che, a suo dire, ha sempre saputo che nel suo destino c’era Hollywood? Questi premi minori interessano solo ai «sinistroidi che dopo aver preso un cazzo di David si sentono Dei (sic) scesi interra e si concedono il lusso di fare della morale di sinistra non perché tengono veramente al loro Paese ma semplicemente perché fa figo fare l’attore impegnato nel sociale e nella politica». Qui il riferimento non è a Chalamet, che evidentemente Morrone considera un suo pari, degno dello stesso rispetto che si merita Alessandro Borghi, l’unico attore italiano bravo quanto Morrone a detta dello stesso Morrone (sarà contento Borghi).

Bandiere rosse

Qui il riferimento è a Elio Germano, che aveva appena finito di litigare con il ministro Alessandro Giuli e adesso si trova tirato in mezzo un’altra volta. Tirato in mezzo, Germano, a una disputa che non è soltanto ideologica, per quanto Morrone mostri un abuso di certe parole (sinistroidi, Duce) e di certe formule (Che Guevara 2.0 de noialtri) che potrebbero costituire allarmanti red flag e suggerire una certa vicinanza alla destra. Confesso qui che ero indeciso se usare l’espressione inglese red flag o la traduzione italiana bandiera rossa. Da un lato, so che l’inglese è la lingua dei divi internazionali e che Morrone non avrebbe avuto nessun problema a capire. Dall’altro, mi sembra che Morrone ci tenga al suo Paese, anche solo per il fatto che invita i suoi colleghi a lasciare il mestiere di attore e intraprendere la carriera politica (un modo furbetto di sfoltire la concorrenza, c’è da ammetterlo), e quindi alla sua lingua madre.

Alla fine ho deciso di usare red flag e non bandiere rosse perché non vorrei che, nella remota ipotesi in cui Morrone leggesse questo pezzo, pensasse che pure io sono uno «con il cuore a sinistra», uno di quelli che, a suo dire, non considerano gli attori dei veri attori a meno che non si mostrino trasandati e indossino le Clarks. Questo è il punto in cui la disputa diventa anche estetica e non solo ideologica, come si diceva: Germano porta le Clarks? Di sicuro non le porta Morrone (né Borghi, viene da pensare, seguendo la logica aristotelica), che evidentemente fa di tutto per evitare di svegliarsi una mattina, destandosi da sogni inquieti, e trovarsi tramutato in un insetto mostruoso, cioè un uomo che porta le Clarks. Forse le porta Luca Marinelli, sfottuto da Morrone per i dolori provati prima, durante e dopo l’interpretazione di Mussolini in M, per i soldi, per le ville, per la mancanza di rispetto a Rimbaud che «non c’aveva na lira», manco per comprarsi le Clarks.

Certo è che, per quanto sconclusionata, la crisi di nervi di Morrone riporta al centro del dibattito pubblico, e per l’ennesima volta negli ultimi mesi, la questione del “circolino”, il problema dell’amichettismo. Che la cultura italiana, intesa sia come industria che come ambiente, ruoti quasi tutta intorno all’uno e sia governata quasi sempre dall’altro è una consapevolezza che ormai si è diffusa ben oltre i confini della cultura (industria e ambiente) stessa.

C’entra anche la politica, ovviamente, e in fondo tutti sapevano che sarebbe successo quello che sta succedendo: di poche cose i due ministri della Cultura del governo Meloni, Gennaro Sangiuliano prima e Alessandro Giuli poi, hanno parlato tanto quanto della necessità di non solo superare ma anche soppiantare la cosiddetta egemonia culturale della sinistra, che è solo il modo gramsciano di dire circolino e amichettismo. Chiunque lavori anche solo ai confini del mondo culturale italiano, e che non sia molto disonesto intellettualmente o tesserato di vecchia data del circolino, sa che il problema esiste ed è grave, e andrebbe affrontato e risolto adesso, anche se ormai è già troppo tardi: i media di destra il loro mestiere lo sanno fare, sono giorni che si leggono liste di film pubblicamente finanziati e commercialmente fallimentari, accurate ricostruzioni della catena amichettale anello per anello. È da una settimana che di tre persone che telefonano alla Zanzara, una si lamenta del finanziamento pubblico al cinema. Il finale di questa storia lo sappiamo già, è già successo in passato.

Contro l’egemonia culturale

Si potrebbe contestare, e si sta già facendo, ai volenterosi che vogliono costruire un ordine nuovo della cultura italiana, che forse ci sono ambasciatori migliori di Morrone, divo internazionale che deve sia il divismo che l’internazionalità a un film erotico polacco tra i più spernacchiati da quando gli esseri umani hanno imparato a usare la bocca per emettere suoni buffi (chi in queste ore scrive di battaglia tra cinema d’autore e cinema commerciale non capisce un’acca né di uno né dell’altro). Ma lo stesso discorso, al netto di erotismo e Polonia, di divismo e internazionalità, lo si potrebbe fare pure per Sangiuliano e Giuli. E in fondo capisco che uno la frittata la fa mettendoci dentro un po’ tutto quello che gli è rimasto in frigo e che ha urgenza di consumare.

Ma proviamo un attimo a immaginare se negli Stati Uniti direbbero mai che il problema del cinema americano sono gli attori e le attrici che hanno studiato alla Juilliard, con le dovute proporzioni l’equivalente di dire che il cinema italiano muore nelle aule della Silvio d’Amico o del Centro sperimentale. O se in quello francese direbbero che le cose vanno male per colpa dei diplomati e delle diplomate del Cours Florent o del Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique. O se in Inghilterra penserebbero mai che il loro cinema sarebbe migliore se meno persone andassero alla Royal Academy of Dramatic Art. O se meno gente portasse le Clarks.

Le scuse e il finale

Come la drammaturgia delle shitstorm prevede, ovviamente non ci sono volute nemmeno 24 ore perché Morrone arrivasse alle pubbliche scuse. Il post Instagram diventato casus belli è stato cancellato e con esso è sparita anche la mirabile raccolta di risposte che l’attore aveva dato agli utenti, a ogni singolo utente che con quel post aveva interagito (ma, davvero, possibile che una persona con 15 milioni di follower solo su Instagram non abbia qualcuno che si sorbisca questa rottura di coglioni dei social al posto suo?). Nelle scuse, testo bianco su sfondo nero, Morrone parla di una crisi di nervi data dal disagio suo e di moltissimi altri artisti, dall’amore per il suo lavoro e dal desiderio di farlo nel suo Paese (speriamo non si offendano a Hollywood o in Polonia).

Almeno siamo certi che queste scuse sono proprio sue, scritte di suo pugno, quindi probabilmente sincere: anche in questo caso, in calce c’è una firma, in realtà solo metà, soltanto Michele, si vede che lui è uno di quelli che si annuncia per nome e pure per cognome solo quando è davvero incazzato. Purtroppo, non risolveremo mai il giallo, non sapremo mai cos’è successo a Michele (Morrone) in quei fatidici momenti tra l’intervista a Belve e la più spettacolare crisi di nervi della storia del cinema italiano.

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