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L’esilarante passione di Sangiuliano martire
Il supplizio tv, l’arrampicatrice con gli smart glasses, le vendette affidate a Instagram: lo scandalo del Ministro è una produzione fantozziano-hollywoodiana.
Come tutte le svolte storiche, anche lo scandalo Sangiuliano è diventato tale per una inspiegabile e incomprensibile serie di curiose circostanze. Fino all’intervista al Tg1, alla fine questa era stata più o meno la solita storia: di un marito infedele, di un uomo imbarazzante, di un ministro mediocre, di una persona così impacciata nel maneggiare la “fama” da riuscire a farsi paparazzare in vacanza al mare in compagnia dell’amante e pure di Giuseppe Cruciani. Da quando Maria Rosaria Boccia ha deciso di regalarci questo breve e multimediale saggio di sputtanamento, Sangiuliano si è comportato come il Question Hound, il cane del meme “This is fine”: il ministero della cultura gli brucia tutto attorno e lui se ne sta seduto alla scrivania ripetendo che non vede proprio nessuna ragione per dimettersi. Anzi, a un certo punto ha sostenuto, con la stessa passione con la quale aveva sostenuto altre tesi altrettanto strampalate (come quella che appioppava a Dante la colpa di aver fondato la destra italiana), che gli italiani avrebbero dovuto addirittura ringraziarlo. Per cosa non è dato saperlo. Forse per aver finalmente dato a questo Paese alla periferia dell’impero il suo short king.
Dove sta la svolta storica, allora. Sta proprio nell’intervista al Tg1 (da apprezzare la naturalezza con la quale quest’ultimo ha abbracciato la nuova identità di TeleMeloni), un momento talmente surreale da non sembrare vero o tantomeno “preparato” come ovviamente è stato. A metà tra un’intervista di Dipre per il sociale e un episodio di Between Two Ferns di Zach Galifianakis, l’intervista del direttore di testata Gian Marco Chiocci segna appunto una svolta storica nella politica italiana, la definitiva adesione al modello americano in cui, una volta che i vizi da privati diventano pubblici, la redenzione passa inevitabilmente davanti a un’altrettanto pubblica umiliazione. È possibile Sangiuliano sapesse già tutto e fosse a questo che si riferiva quando pretendeva ringraziamenti: sapeva che ci avrebbe finalmente regalato uno scandalo come quelli che si vedono nelle serie di Shonda Rhimes. Niente appartamenti intestati all’insaputa dell’intestatario, niente orologi regalati in spregio a bizantini codici di condotta, niente 730 compilati sbadatamente. Solo politica e sesso, presunzione e ambizione, ingenuità e vendetta. Certo, come in tutte le circostanze in cui improvvisamente ci mettiamo a fare gli americani, di miglioramenti ce ne sono ancora da fare. Soprattutto in fase di scrittura, diciamo così. Per esempio: Shonda Rhimes non userebbe mai la dicitura “relazione affettiva” per una tresca. E ancora: se Gian Marco Chiocci fosse un personaggio di finzione scritto dai coniugi King (gli autori di The Good Wife, testo sacro su sesso, corna, potere e vendetta), non avrebbe mai permesso al ministro di sproloquiare così a lungo su questioni bagatellari, su cartuccelle piene di scontrini e biglietti dei mezzi, su conti correnti e app di home banking. Come avrebbe reagito Oprah Winfrey alla conferma da parte di Sangiuliano dell’esistenza di chat – definite affettuose tanto quanto lo fu la sua relazione con Boccia – tra lui e la sua Lady Vendetta? Sicuramente non con uno stacco di montaggio sulla prossima, noiosissima domanda.
Si dirà: siamo in Italia e ci mancherebbe che un governo di destra-destra non applichi le pratiche dell’autarchia pure ai suoi scandali. È vero anche questo, è una posizione legittima pure questa. D’altronde, se davvero questa storia ha le potenzialità di essere il Grande Romanzo Estivo Italiano (e ce le ha, a saperle vedere), deve ovviamente essere anche un Grande Romanzo della Pubblica Amministrazione. Poche cose accendono la fantasia dell’italiano come la fatturazione e la rendicontazione, e si capisce quindi che lo Scandal italiano non può che diventare una questione di tracciabilità: nel giorno tale ero nel posto tale e ho fatto questa cosa a quest’ora, ho gli scontrini e le ricevute che lo dimostrano, vizi privati ma pure i soldi con cui me li pago lo sono, per sapere tutto della mia relazione extraconiugale contattate il mio commercialista.
Non per sminuire la rilevanza di Maria Rosaria Boccia in questa storia, ma il suo è un metodo multimediale non così facile da apprezzare per il grande pubblico di un Paese ancora tanto analogico. Audio Whatsapp, storie Instagram, leak, sneak peak, info dump, smart glasses, screenshot di mail, foto rubate ai detentori dei diritti, enti il cui nome sembra un tentativo di phishing (Fashion Week Milano Moda): vuoi mettere con l’immediatezza di una ricevuta stampata su foglio A4 e un cerchietto fatto col pennarello rosso a evidenziare la parte importante (il prezzo del biglietto per un viaggio a Taormina)? Boccia non se ne abbia a male, ma lei è davvero Anna Delvey, solo in un Paese in cui le figlie della borghesia bene ambiscono a una consulenza ministeriale invece che all’ingresso nel mondo delle socialite di mestiere. Lei è una manipolatrice che parla una neolingua fatta di parole come «interfacciarsi» in un posto in cui vige ancora il volgare di certi attempati giornalisti che ridacchiano parlando di «esperta pompeiana»: non sarà mai compresa davvero, la distanza linguistica è eccessiva, non sprechi caption su Instagram nel tentativo di colmarla. Certo, c’è da dire che pure Delvey, negli Stati Uniti, è finita a fare Dancing with the Stars. Chissà se Milly Carlucci ha già avuto il numero di Boccia.
Forse la rabbia di Sangiuliano, oltre che dalla repentina distruzione di quel pochissimo di reputazione e prestigio che si era costruito in questi anni, viene anche da questo: dalla consapevolezza di essere il protagonista noiosetto, rispetto a Boccia, nell’anatomia della sua stessa caduta. Il solito povero diavolo, galletto peccaminoso che poi si ritrova a piangere per il perdono delle donne della sua vita, una la moglie e l’altra il Capo del suo governo. Deve essere l’onta più terribile, questa della banalità, per un uomo che ha coltivato la presunzione di distruggere l’egemonia culturale della sinistra un decreto ministeriale alla volta, che ha pensato di riuscire tutto da solo a riempire il cronico vuoto culturale della destra, che si è sognato artefice di un cosmo nuovo in cui rientravano Dante e Colombo, Galileo e Musk, in questo cosmo nuovo probabilmente tutti coevi. Deve essere stato insopportabile per un uomo come Sangiuliano, così permaloso da prendersela davvero quando Geppi Cucciari lo ha smascherato come lettore debole nel mezzo della finale del premio Strega, così serioso da prendere sul serio le innocue battute di Un giorno da pecora, deve essere stato insopportabile per questo uomo la consapevolezza di essere finito a fare la solita parte nella recita più vecchia del mondo, quella del marito traditore e dell’amante vendicativa.
Certo, pure lui ci ha messo del suo, accostandosi a precedenti minori come Salvini o Franceschini. Un uomo come lui, uno di quelli così pieni di sé che ce li si aspetta a indossare il papillon come capo casual (non so perché ma nella mia mente Sangiuliano indossa sempre il papillon), avrebbe potuto almeno provare a sedersi sulle spalle dei giganti fedifraghi: Togliatti o Craxi, per esempio. Ma, in effetti, forse questo era chiedere troppo: un comunista l’uno e un socialista l’altro, intollerabili anche nella comune cattiva sorte matrimoniale per uno destrorso come Sangiuliano, che dei suoi anni in Rai serbava l’orribile ricordo degli incontri in corridoio con i «piccoli Stalin col colbacco in testa» che spadroneggiano in viale Mazzini.
Comunque, avrebbe potuto provare paragoni più lusinghieri, Sangiuliano: bastava tornare indietro fino al padre della Seconda Repubblica e alla sua Lady Vendetta, Patrizia D’Addario (chi paragona Boccia a Noemi Letizia invece che a D’Addario non ha capito nulla dell’una, dell’altra e dell’altra ancora). Forse è per sfuggire alla banalità del gossip che Sangiuliano alla fine ha deciso di sottoporsi a quel supplizio di intervista (d’altronde, come ha mirabilmente spiegato Stefania Nobile, «gli italiani amano i pentiti» e ancora di più i martiri): per smettere di assomigliare al cane del meme, quello che mentre la stanza brucia si ripete “This is fine”, per abbandonare la stanza gettando almeno un fiammifero acceso nel fuoco che, fa niente, divampa già da un pezzo.