Cultura | Design
Ancora Memphis, ma senza toccare
Memphis Again in Triennale fino al 12 giugno è una sfilata dei mobili più pazzoidi della storia del design italiano, che fa rimpiangere la spensieratezza degli anni Ottanta e invidiare chi può permetterseli.
Memphis Again © Delfino Sisto Legnani e Alessandro Saletta
C’è un momento leggendario che viene raccontato negli annali del design italiano, uno di quegli eventi che ha contribuito a put Milan on the map e che molti conoscono a memoria, ma che non si può mai omettere: il 19 settembre del 1981 una grande folla, si parla di oltre duemila persone, si accalca all’ingresso dello showroom Arc’ 74 di Brunella e Marco Godani al numero 12 di Corso Europa, bloccando il traffico. Sono tutti lì per vedere la mostra Memphis, the New International Style. Alcuni hanno ricevuto l’invito con sopra una testa di un dinosauro dai denti aguzzi e l’occhio rosso, un disegno di Luciano Paccagnella. L’idea di questa nuova direzione del design è di Ettore Sottsass, che qualche anno prima aveva creato lo Studio Olivetti dopo aver lavorato per l’azienda di Ivrea. La direzione editoriale della mostra è di Barbara Radice, sua seconda moglie e compagna per il resto della vita. Dentro lo showroom di Corso Europa ci sono cinquantacinque pezzi che sbalordiscono i presenti, accostamenti cromatici coraggiosi, lampade audaci, tavolini con laminati plastici e pattern giocosi, divani e poltrone che ricordano gli interni della casa di un cartone animato. Ad alcuni sembra quasi uno scherzo, ad altri il futuro, o meglio, il presente. Nato l’anno prima a casa Sottsass, il gruppo Memphis – il nome viene dalla canzone “Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again” – sembra voler esaltare l’edonismo visivo degli anni Ottanta appena iniziati, la libertà quasi pazza, quasi esagerata di poter fare quello che si vuole con il design. «Non potevo credere che stavamo davvero producendo dei mobili così folli», disse Arata Isozaki, uno dei membri del gruppo. Anche se chiamarlo gruppo gli dona troppa serietà, lo rende troppo istituzionale – Memphis sembra piuttosto una vacanza, un momento in cui tutto è possibile, e come tale dura poco, dall’81 all’86, per volontà dei vari designer e artisti che poi continuano con i loro progetti individuali in libertà.
Martine Bedin, che ha creato la celebre lampada Super, parla di rifiuto della «inevitabilità del disegno tecnico rassicurante imposto dall’industria», con il sogno di «ridisegnare tutto, di dare al mondo un’immagine molteplice, leggere, spiritosa, libera». Un buco rumoroso nello spazio-tempo del Salone del Mobile dove si può creare una libreria con una decina di colori che sembra un totem, dove si dice addio alla simmetria facendo appoggiare l’angolo di un divano su una sfera lucida, dove un ring col tatami diventa salotto, dove le lampade potrebbero essere fenicotteri robot, dove i tavoli diventano triangoli affilati giallissimi, dove vasi e casalinghi vengono destrutturatati e ricostruiti, un po’ dada nell’epoca della Tv commerciale. C’è psichedelia, ma ordinata. Decor animalier ma senza il sauvage. Pattern da disco club, materiali da diner. E c’è nel sottotesto un immaginario americanissimo – Las Vegas, Palm Spring, Miami – cioè palme, Jacuzzi e ombrellini da cocktail.
Nel 2022 a vedere la sequela briosa di prodotti che la Triennale ha messo in fila cronologica, a serpentone, “come una sfilata”, nella mostra Memphis again a cura di Cristoph Radl (fino al 12 giugno) – con musica synth di Seth Troxle che fa venire voglia di bere un Alexander o un Blue Lagoon – non possiamo che chiederci: cosa c’è ancora da dire oggi su Memphis? I Millennial e la Generazione X possono amare o non amare la colorata baldanza 80’s di Sottsass, De Lucchi, Nathalie Du Pasquier, Matteo Thun, Shiro Kuramata, eccetera eccetera – difficile non farlo, è così pop, così fun – ma è molto raro che possano godere di prima mano di questi mobili, che siano tavoli, sgabelli, o day-bed. In primis perché gran parte dei pezzi non furono mai veramente prodotti in serie, e oggi si trovano a volte nei negozi di modernariato, o su eBay, a prezzi piuttosto alti. Ma soprattutto per via dello spazio. I giochi di forme, l’azzardo delle sagome, poco si adattano al mercato immobiliare, soprattutto di Milano. Il recupero della Cesca da parte dei figli dei boomer, l’amore verso il Bauhaus, il ritorno in massa al modernismo – che è proprio quello contro cui si schierava il gruppo Memphis – diventa necessario con i metri quadri disponibili ai più, non appena si sfugge dal Leviatano Ikea. C’è forse anche una questione estetica verso questo postmodernismo da fumetto, troppo ardimentoso per i palati vintage-minimalisti – davanti all’iconica libreria Carlton di Sottsass quasi tutti dicono “Bellissima, ma dove la metto?”, che è anche un po’ il “Bella, ma non ci vivrei”.
Non è un caso che spesso queste coloratissime librerie, o le vetrine, o i mobili da toilette di Sottsass & Co. diventino oggetto da collezione, come nel noto caso di Karl Lagerfeld, che riempì di Memphis uno dei suoi appartamenti, quello nel Principato di Monaco. Alla morte di David Bowie, Sotheby’s organizzò la vendita di parte della sua collezione – un’intera parte del catalogo Bowie/Collector era dedicato a mobili e oggetti Memphis, tra cui l’orologio Metropole di George J. Sowden e il divano Big Sur di Peter Shire. Mobilio da Vip, insomma. O pezzi da museo, che è proprio quello che sta succedendo. A questo punto, la cosa migliore sarebbe far diventare questa mostra parte della permanente della Triennale, per far vedere cosa si poteva fare senza la paura (del mercato, della critica, dell’inquinamento visivo?) – scriveva Sottsass a proposito: «Il fatto è che ci è passata la paura: la paura di dover rappresentare o di non dover rappresentare qualche cosa o qualcuno, siano élites o derelitti, siano tradizioni o cafonaggine. Ci è passata la paura che ci manda il passato e anche quella che ancor più aggressiva che ci manda il futuro». Una sezione solo Memphis, così anche i giovani ne potranno godere – ma senza potersi sedere o toccare nulla.