Stili di vita | Design

Chiudere con Ikea sedendosi su una Cesca

Negli ultimi anni la sedia disegnata da Marcel Breuer è diventata un oggetto indispensabile nell'immaginario di arredatori di bilocali della Generazione X e dei Millennial.

di Giulio Silvano

Una scena del film Someone great

Il passaggio all’età adulta si manifesta iniziando a incorniciare i poster, ancor meglio se con cornici su misura, invece di appiccicarli con lo scotch o con le puntine sull’intonaco di una singola in affitto. Un altro segno dell’addio agli anni universitari è l’emancipazione da Ikea. Quest’affrancamento dalle Billy e dai tavolini Lack, dalle poltrone Poang e dalle librerie cubiche Kallax ha un nome, si chiama Cesca. Questa sedia è il simbolo dell’addio al do-it-yoursefl scandinavo – dovrebbero regalartene una quando apri la partita Iva.

Se si cerca su Instagram, tra #cesca e #cescachair si superano i 50.000 post. Alcuni se la tatuano, su un polpaccio o un bicipite. Un effigie post-hipster dell’amore per il design condiviso da più generazioni. La Cesca, disegnata da Marcel Breuer ormai quasi un secolo fa, è ovunque, una vera e propria invasione.

Il primo motivo è che se ne trovano moltissime e a prezzi accessibili, il secondo ha a che fare con il suo stile. La cromatura, il legno laccato, il rattan e la leggerezza si adattano perfettamente a qualsiasi casa, e a qualsiasi stanza. In un appartamento anni trenta di Città Studi, in uno fine secolo nel Marais, in un soggiorno di Kreuzberg, o in un nuovo fabbricato di Brooklyn; nella sala da pranzo, in cucina, davanti a una scrivania, accanto a un tavolino basso con sopra una pianta, un ricettario di Ottolenghi e una copia di The Passenger, la Cesca funziona sempre. È un camaleonte perfetto per il gusto minimale-vintage ricercato da Millennial e Gen X, incarnazione del recupero del moderno, della passione domenicale per i mercatini e per le incursioni notturne su eBay.

Protégé di Walter Gropius, che aveva spostato la scuola Bauhaus da Weimar a Dessau, Marcel Breuer raggiunge una certa fama prima di compiere trent’anni con la Wassily nel 1925 – allora chiamata No. B3 – e con altri modelli simili dove vediamo un abbandono degli elementi neoavanguardisti weimariani e dove vengono implementate al massimo le linee guida della nuova scuola: logica industriale della produzione di massa, design inteso come progettazione, e struttura in tubolare d’acciaio. «Il lavoro nel Bauhaus è di tipo sintetico», scrive Kandinskij nel 1923 nel saggio Gli elementi fondamentali della forma. Nata col nome B32, B64 coi braccioli, la Cesca diventa ancor più delle precedenti opere il risultato di un esercizio fondamentale nella scuola di Dessau: creare qualcosa di utilizzabile e riproducibile su larga scala, modificando i materiali nel modo più radicale possibile con il minor numero di passaggi. Si dice che Breuer si fosse ispirato, nel piegare i tubi di metallo, al manubrio della sua bicicletta. Prima di disegnare questa sedia, in un poster di un film non-esistente, Breuer mostra con delle fotografie una breve storia della seduta, elencando un progressivo desiderio di leggerezza, prefigurando come nel futuro l’uomo si sarebbe seduto nel nulla, galleggiando nell’aria. Ed è un po’ la sensazione che abbiamo accomodandoci oggi su una Cesca. La struttura tubolare si flette leggermente, dondolando senza scossoni, e il rattan intrecciato si inarca quanto basta sotto il nostro fondoschiena.

Il motivo per cui in molti se la possono permettere, oltre a una produzione numericamente massiccia, è che non è mai stata protetta da un brevetto. Così negli anni i manifattori ufficiali che seguivano il disegno originale di Breuer – in ordine: Thonet, Gavina, che gli cambiò nome in Cesca in onore della figlia del designer, Francesca, e oggi Knoll – hanno visto una produzione parallela di sedie quasi identiche. In un articolo del 1991 sul New York Times venivano invitati alcuni accademici e curatori a cercare le differenze tra quelle originali e quelle “ispirate a”. Ma non è facilissimo distinguerle, anche perché negli anni Breuer, lavorando con i diversi produttori, ha modificato in parte la sedia, riducendo la dimensione delle viti, o rendendola più resistente e meno elastica. Se si vuole usare un modello standard, come il metro campione nel Bureau international des poids et mesures di Sèvres, c’è una sedia originale del 1926 esposta al MoMA a New York, sia con i braccioli che senza.

Online troviamo la sedia di Breuer a qualsiasi prezzo, dalle poche centinaia di euro in su; quelle ufficiali, nuove di fabbrica, vanno per un migliaio di dollari. Sul sito di Knoll oggi, se non si sopporta l’incannicciato, si possono avere tappezzate in pelle, in velluto, in ultrasuede giapponese, e in altri tredici materiali diversi, e in decine di pantoni, dal verde lime all’arancione. Molto poco Bauhaus. Già dagli anni Ottanta, per adattarsi allo Zeitgeist multicromatico, i produttori hanno iniziato a creare variazioni per liberare questa icona del design dalla semplicità che tanto oggi (ri)amiamo, da quella semplicità del legno, nudo o laccato, da quell’ariosità che le permette di stare bene ovunque.

Per chi non può permettersi l’Arco di Flos ci sono i “vorrei ma non posso” propedeutici all’avere una casa che vorrebbe assomigliare al piano terra della Triennale, come l’Eclisse rossa dell’Artemide. Per chi vorrebbe “qualcosa” di Enzo Mari ma la putrella costa troppo, c’è l’auto-progettazione. Per chi vuole vedere la casa liberata dall’omologante potere della Svezia e delle brugole, c’è la Cesca. Che però ci sta di nuovo omologando tutti.