Attualità | Polemiche

Il caso Masha Gessen

Un suo articolo pubblicato sul New Yorker ha causato polemiche in Germania e riacceso la discussione su cosa sia oggi l'antisemitismo.

di Giulio Silvano

Difficile, se non impossibile, trovare una questione geopolitica recente che abbia polarizzato così tanto il mondo occidentale come l’operazione militare di Israele nella striscia di Gaza dopo l’attacco di Hamas. Ma ormai le notizie, più che sugli sviluppi militari o strategici o politici, hanno molto a che fare con le stesse prese di posizione sul tema, cioè con il prendere le difese di una delle parti in causa. La presidente della University of Pennsylvania, una delle più prestigiose università americane, è stata costretta a dimettersi questa settimana per aver risposto che la libertà di parola vince su tutto, compresa la difesa di un gruppo terroristico. Era accusata, da parte di una commissione della Camera americana, di non aver limitato l’antisemitismo e gli inneggiamenti al genocidio espressi nel suo campus da gruppi filopalestinesi. Anche la presidente di Harvard rischia il posto per lo stesso motivo. Dal 7 ottobre sono stati molti i casi di attacchi di natura discriminatoria verso studenti ebrei, oltre a manifestazioni in cui si inneggia all’Intifada o si grida lo slogan “From the river to the sea, Palestine will be free”, visto – soprattutto dalla destra americana – come invito alla distruzione dello Stato ebraico.

Artforum ha mandato a casa il suo caporedattore, David Velasco, per aver pubblicato una lettera aperta a sostegno della Palestina, e in risposta la fotografa Nan Goldin ha detto che non lavorerà più con la rivista. Alla Fiera del libro di Francoforte c’è stato il caso Adania Shibli. Negli anni recenti, nemmeno sull’invasione russa dell’Ucraina, nemmeno sull’Afghanistan o su Charlie Hebdo si era creata una polarizzazione così feroce, un manicheismo così automatico. La storia di Masha Gessen è l’ultima nella lista di queste reazioni al posizionamento rispetto alle operazioni militari di Netanyahu.

La biografia di Gessen contiene molti dei grandi temi dello Zeitgeist. È uno scrittore nato in Russia, ebrea – il padre era un sionista, il nonno un bolscevico e ha perso alcuni parenti nella Shoah –, trans, non-binario, e usa i pronomi they/them. Da ragazzo, rifugiato, è arrivato in America. Poi ha scelto di tornare a Mosca e lì è diventato uno dei più grandi oppositori di Putin, soprattutto sui diritti Lgbtq+, ed è stato costretto a tornare negli Stati Uniti, da dissidente, per proteggere i figli dalle regole putiniane contro i genitori gay (una delle figlie era stata adottata da un orfanotrofio per bambini con genitori positivi all’Hiv). Il governo russo l’ha inserito in una lista di persone non benvenute nel Paese. Si è dimessa dal Pen America quando l’organizzazione aveva cancellato un incontro con degli scrittori russi, nel periodo di russofobia post-invasione (vi ricordate Paolo Nori e l’affaire Dostoevskij?). Per il suo lavoro da intellettuale Gessen avrebbe dovuto ricevere venerdì l’Hannah Arendt Prize, un premio tedesco “per il pensiero politico” che in passato è stato vinto da persone come Julia Kristeva, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo e Timothy Snyder. Poi, questa settimana, Gessen ha pubblicato sul New Yorker un articolo molto lungo in cui, tra le altre cose, ha parlato delle similitudini tra lo stato della striscia di Gaza degli ultimi diciassette anni a un ghetto. «Non il ghetto ebraico di Venezia o il ghetto come i bassifondi delle città americane, ma come un ghetto ebraico in un Paese dell’Est Europa occupato dalla Germania nazista». Per un momento la consegna del premio è sembrata in dubbio, poi si è deciso di darglielo lo stesso, ma il giorno dopo. La fondazione Heinrich Böll che ospita l’evento e che insieme al senato di Brema mette i 10 mila euro del premio, ha detto che i commenti di Gessen erano «inaccettabili». La fondazione ha ritirato la sua partecipazione e la città ha deciso di procedere lo stesso, cambiando la location della cerimonia. Subito si è urlato al maccartismo, prima di capire che il premio Gessen lo avrebbe ricevuto comunque.

Nel lungo articolo Gessen cerca soprattutto di fare un ragionamento su come l’Occidente – e la Germania soprattutto – definisce l’antisemitismo e su come questo si differenzia dall’antisionismo. Cita la definizione della International Holocaust Remembrance Alliance (I.H.R.A.), secondo cui «l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, e può esser espressa come odio verso gli ebrei», attraverso «manifestazioni verbali e fisiche». Uno degli esempi che fa l’ I.H.R.A., organizzazione intergovernativa nata per rafforzare e divulgare l’educazione sulla Shoah, riguarda anche lo Stato di Israele. Affermare che Israele sia «razzista» o «comparare le politiche israeliane contemporanee di Israele a quelle dei nazisti», sarebbe secondo l’organizzazione un atto antisemita. E siccome si parla di un aumento statistico di azioni antisemite, Gessen dice che questo in Germania è avvenuto solamente se si conta l’antisionismo come antisemitismo, usando cioè lo standard della Remebrance Alliance che, dice la scrittrice, è diventato uno standard sempre più comune nelle istituzioni governative americane ed europee, compresa la Germania.

Ma il paragone con il ghetto Gessen lo fa per spiegare che, per molti anni, i diversi governi israeliani hanno oppresso Gaza in quel preciso modo. Dire “ha cominciato Hamas” per Gessen non è corretto. Per tornare a Gaza, Gessen scrive che sia i nazisti in Europa che gli israeliani con la Striscia operano secondo lo stesso blueprint: «Un’autorità occupante può scegliere di isolare, impoverire, e adesso mettere in pericolo mortale, un’intera popolazione nel nome della protezione della propria gente».

Ma tolte le reazioni a caldo sul premio, c’è un modo per vedere questa storia che la allontani dai puri fatti di cronaca geopolitica. Ha a che fare con la storia e l’identità della Germania. Il Paese del nazismo e della Shoah, delle leggi razziali e delle stelle gialle, vive nel (giusto) terrore di mostrare anche solo un’unghia di antisemitismo, in ogni sua forma. Non gli sarebbe mai perdonato, e quindi deve stanare in anticipo ogni forma anche solo apparentemente evanescente di odio antiebraico, anche quando si sconfina nella discussione politica dell’operato dei governi israeliani. Quello che potrebbe aver dato fastidio alla fondazione Heinrich Böll, oltre ai paragoni più espliciti con i ghetti degli anni Quaranta, è una critica che Gessen fa alla Germania su come convive con la memoria dell’Olocausto. «L’insistenza sull’eccezionalità della Shoah» da parte delle istituzioni tedesche e il loro impegno ad affrontarne gli strascichi, scrive Gessen, posizionano l’evento come «qualcosa che i tedeschi debbano sempre ricordare e menzionare ma che non devono avere paura di ripetere, perché è diverso da qualsiasi cosa che sia mai successa o che succederà». Ma l’unicità storica che viene applicata allo sterminio ebraico, dicono in molti, serve proprio al suo contrario: non bisogna normalizzarlo perché le cose normali sono più difficili da rilevare, anticipare ed evitare (e giusto perché si parla di Arendt, sappiamo quanto sia stata controversa la sua impressione sul processo Eichmann, quando parlò di banalità del male – che tra l’altro pubblicò proprio sul New Yorker). La vicinanza tedesca a Israele, senza sé e senza ma promossa dal cancelliere Olaf Scholz, si spiega anche, e soprattutto, con questo. L’affaire Gessen, più che con Israele e Gaza, sembra avere a che fare con il senso di colpa collettivo di una nazione.