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I massoni hanno fatto causa alla polizia inglese per una regola che impone ai poliziotti di rivelare se sono massoni Il nuovo regolamento impone agli agenti di rivelare legami con organizzazioni gerarchiche, in nome della trasparenza e dell’imparzialità.
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Marlon Brando, sadomasochista

Ritratto psicoanalitico di uno dei più grandi attori di sempre, tornato in questi giorni al cinema con un nuovo final cut di Apocalypse Now.

24 Ottobre 2019

Nella loro recente biografia, James Dean: Tomorrow Never Comes, Darwin Porter e Danforth Prince, raccontano che Dean e Marlon Brando avevano un rapporto sadomaso in cui quest’ultimo era il dominatore e l’altro il suo schiavo sessuale sodomizzato e ustionato con le sigarette. Una bufala o c’è qualche fondamento? Quando Brando studiava recitazione, l’insegnante, Stella Adler, chiese agli allievi di reagire come allo scoppio di una bomba atomica come se fossero dei polli. Lui le disse: «Io sono un pollo. Che ne so di bombe atomiche?». Appunto. Che ne so io di James Dean e Marlon Brando? Non le ho viste le presunte bruciature di sigarette. Ma ho visto e rivisto i film di Brando e non ho potuto fare a meno di notare che, bisessualità a parte, su cui mi guardo bene dal pronunciarmi, rivelano in lui una certa propensione al sadomasochismo, eccome!

A Brando piaceva molto fare a botte non solo nella vita reale ma anche nei film. Soprattutto quando era lui a prenderle, come se provasse piacere nel dolore. In Fronte del porto, gli scagnozzi del Boss del sindacato scaricatori alla fine lo pestano a sangue su un molo fin quasi a ucciderlo. Idem ne La caccia, dove impersona uno sceriffo, in epoca moderna, massacrato di botte dai borghesi beoni e razzisti. «Aspetto con ansia di essere frustato da lei. Non dimentichi dunque… con la pelliccia», scriveva von Sacher-Masoch alla donna che sarebbe diventata sua moglie (Confesssioni di Wanda von Sacher-Masoch, Adelphi). Ebbene, anche a Brando non dispiaceva di essere frustato. Anzi. Nel bel western I due volti della vendetta di cui è anche regista (la sola e unica volta), è un bandito frustato dallo sceriffo (a ogni frustata reagisce con un frisson e un gemito soffocato degni del San Sebastiano di Gabriele d’Annunzio, legato all’albero e trafitto dalle frecce), sceriffo che poi gli fracassa la mano destra col calcio del fucile. In Riflessi in un occhio d’oro è un maggiore dell’esercito, sposato con Liz Taylor e attratto sessualmente da un soldato, che picchia il cavallo reo di averlo fatto cadere. Liz Taylor lo cornifica a tutto spiano e durante una festa lo colpisce col frustino in faccia. Il soldato alla fine penetra in camera di lei (marito e moglie dormono separati) e Brando gli spara uccidendolo, geloso due volte.

In Improvvisamente un uomo nella notte, prequel del Giro di vite di Henry James, due orfanelli, fratello e sorella, affidati alla governante e all’istitutrice sono affascinati dal giardiniere (Brando), il quale coinvolge la seconda nei suoi giochi sessuali perversi. I bambini li spiano durante i loro convegni segreti a base di bondage e diventano piccoli mostri. Fanno annegare l’istitutrice e il maschio uccide Brando con arco e frecce, come il già citato San Sebastiano, icona e patrono dei gay cattolici. Brando viene ucciso anche in altri film, et pour cause, giacché Freud ascrive il sadomasochismo alla pulsione di morte: Viva Zapata!, I giovani leoni, Queimada!, Ultimo tango a Parigi, Missouri, Apocalypse now e L’ isola perduta (dove viene sbranato: la fine di Adone nel mito), mentre in Pelle di serpente e gli Ammutinati del Bounty muore bruciato vivo tra le fiamme come quelle dell’Inferno. In Apocalypse, di nuovo nelle sale in questi giorni con un ennesimo final cut, si lascia uccidere –desidera la propria morte – per liberarsi dall’abbrutimento in cui è caduto e dall’orrore insito in lui e in ciò che lo circonda. Viceversa, in La notte del giorno dopo, I due volti della vendetta e Missouri è lui a uccidere.

Marlon Brando e Jack-Nicholson in Missouri

Ora, qualcuno potrebbe obiettare che erano solo film e che stava recitando. Rispondo che dato il suo enorme potere contrattuale poteva scegliere i ruoli che voleva – che lo affascinavano – e rifiutare quelli che non gli piacevano o lo lasciavano indifferente. Inoltre seguiva il Metodo, imparato da Stella Adler e all’Actors Studio. E sanno anche i sassi che il Metodo, di cui è stato il massimo rappresentante e fulgido esempio, consiste nell’attingere a piene mani nel proprio vissuto, nei conflitti familiari, nell’inconscio, non esclusi gli angoli più bui, più inconfessabili.

Brando disse a Capote – era il 1956 – di essere andato da uno psicanalista. «Da principio avevo paura. Avevo paura che potesse distruggere gli impulsi che fanno di me un uomo creativo, un artista». Quegli stessi impulsi – a cui, come si vede, teneva così tanto da farne il fondamento della propria arte – che ne hanno fatto un mostro sacro e che mette in mostra quasi impudicamente durante le riprese di Ultimo tango, al punto che Bertolucci disse che il film più che suo era di Brando: aveva riscritto i dialoghi, vi aveva infilato un sacco di riferimenti autobiografici, vi si era messo a nudo anima e corpo come forse non aveva mai fatto prima di allora. Brando, poi, quando vide il risultato sullo schermo sentì il bisogno di fare marcia indietro e si lamentò dicendo che Bertolucci lo aveva “brutalizzato”. Maria Schneider, è cosa nota, ha accusato Brando e Bertolucci di averla “molestata”. Nel finale del film lei vuole interrompere la relazione tormentata con Brando («Mi sono stufata di farmi violentare»), ma lui non ci sta e lei gli spara uccidendolo. Poi racconta, mentendo, che era uno sconosciuto che voleva violentarla. In Un tram invece è la verità: Brando tortura psicologicamente, umiliandola, la cognata depressa, schiava del sesso e dell’alcol, e infine la violenta facendola impazzire del tutto.Ne I due volti tortura psicologicamente, in un rapporto edipico, l’ex complice che lo aveva tradito (Karl Malden), ricomparendo minaccioso nella sua vita e seducendo sua figlia (adottiva) per vendetta.

Spesso e volentieri nei suoi film Brando è l’emblema del “macho”, ma l’uomo masochista secondo Freud si “femminilizza”, si castra e la castrazione lo riconduce alla vita infantile quando la madre ha il diritto di punire il bambino. C’è una scena molto emblematica al riguardo in Desirée, dove incarna Napoleone. Asserragliato con gli ultimi dei suoi in un castello dopo Waterloo, una delle sue ex amanti viene a chiedergli di arrendersi e lui cede consegnandole la spada (il simbolo fallico). Dopo di che, castrato, femminilizzato, si avvia a Sant’Elena dove finirà i suoi giorni. L’anno di Desirée, il 1954, è anche quello in cui muore sua madre, Dorothy, attrice in compagnie filodrammatiche e insegnante di recitazione, il motivo per cui è diventato Marlon Brando. «Ho fatto l’attore per compiacere mia madre», disse più volte, ma la madre aveva il vizio del bere e per un periodo andò a vivere con lui a New York dopo aver lasciato il marito, Marlon Brando senior. Sperava di smettere, ma riprese a bere. «Io non potevo più sopportare… di vederla sfasciarsi (…) come una statua di porcellana. L’ho scavalcata con un passo. Sono uscito, così. Ero indifferente. E da allora sono stato indifferente» (Brando a Capote). La madre morì dopo non molto. È da lì, forse, che viene la sua propensione al masochismo?

Marlon Brando in Désirée, del 1954, diretto da Henry Koster

Nel suo saggio Amore e morte nella letteratura americana, pubblicato nel 1965, Leslie A. Fiedler ha avanzato la tesi (scandalosa per l’epoca, in seguito sempre più accreditata) secondo la quale la psiche americana è incapace di amore romantico e di affrontare la sessualità adulta perché ossessionata dalla morte. A riprova, l’eroe archetipico americano lascia la famiglia e si addentra nei boschi, viaggia lungo il fiume o va per mare, tutti luoghi dove incontra il suo Altro, con cui stabilisce un rapporto omoerotico (spesso pericoloso). In poche parole, nella psiche americana non è possibile il Romance ma solo il Bromance (mescolanza di brother, fratello, e romance) o il Buddy Male (il film sull’amicizia virile) che dir si voglia. Esattamente quello che succede al cacciatore bianco Natty con il pellerossa Chingachgook in L’ultimo dei Mohicani, a Ismaele col polinesiano Queequeg in Moby Dick e ad Huckleberry Finn con lo schiavo nero Jim nel romanzo omonimo di Mark Twain, per citare solo alcuni classici, e relativi “buoni selvaggi”. Il critico André Bazin riassunse tutto ciò in maniera telegrafica: «Una buona donna non vale un cavallo».

Brando è il perfetto erede di questa tradizione, il che spiega il suo grande amore per i nativi americani e l’adesione al Black Panther Party negli anni ‘60 e ‘70. A causa dei primi rifiuta l’Oscar per Il padrino e rischia la vita in uno scontro a fuoco con gli uomini della legge (vedi Marlon Brando – La mia vita, scritto con Robert Lindsey, Frassinelli, 1994), mentre col suo bazzicare e sostenere (anche economicamente) il secondo diventa sorvegliato speciale da parte dell’FBI, senza contare che ha sposato una modella e attrice di origine indiana, un’attrice messicana e una polinesiana, con cui va a vivere su un atollo di sua proprietà (tutti matrimoni finiti in pochi anni o pochi mesi, con un figlio che uccide il fidanzato della sorella che poi si suicida; al che qualcuno ha parlato di tragedia greca, in un nesso inestricabile tra arte e vita, vita e arte). La troupe del western tardivo Missouri non si sorprende quando durante le riprese arrivano agenti dell’Fbi e mettono Brando alle strette nella sua roulotte (vedi «Una schietta conversazione con il primo attore» di Bruce Cook, in Missouri).  Né stupisce quando cattura le cavallette, morsica le rane, mangia pesci vivi e inventa un’arma speciale, unione di un arpione e una mazza. «Mi affascinava molto perché ero esperto di lancio di coltelli». Ma soprattutto succede una cosa straordinaria durante le riprese di Missouri: si distrugge la carriera (per la quale, come confessò Brando stesso, aveva perso interesse dopo la morte della madre) con le sue stesse mani.

Marlon Brando in Missouri, diretto da Arthur Penn

Il momento in cui accadde ce lo descrive lo scrittore Jonathan Lethem: «Brando, disarmato e svestito, a bagno, avvolto nella schiuma, di fronte alla pistola spianata di Nicholson, domina in tutto e per tutto il giovane attore semplicemente mostrandogli la schiena adiposa. (…) L’aspetto scioccante di quel momento è la complicità che Brando mostra con il collasso delle sue energie virili e di ciò che rappresentano per lo spettatore. La reazione di Nicholson prefigura la repulsione del pubblico di fronte a quel relitto (…) per la sua stazza e la sua bruttezza pantagrueliche (…) le macerie dell’uomo più bello che si era mai visto (L’estasi dell’influenza, Bompiani). Questa non è solo recitazione, signori! E’ autobiografia in atto, sia sul palco che ventiquattro fotogrammi al secondo!

Dopo Missouri, flop di critica e pubblico, gli offrono solo film minori o camei (strapagati come per Superman, ma pur sempre camei). Questo anche per la brutta reputazione che si era creato in modo del tutto auto distruttivo con le sue bizze da primadonna, i ritardi, i manierismi. Fino ad arrivare al De Profundis de Il coraggioso (1997), in cui – cameo anche qui – è un uomo ricco e obeso che vive in uno scantinato e propone a Johnny Depp, un pellerossa in epoca moderna, uno snuff film (destinato a un pubblico di sadici depravati) in cui verrà torturato a morte. Gli offre 50.000 dollari e Depp accetta. Per una settimana se la spassa coi soldi, poi si reca all’appuntamento mortale. Scende nel sotterraneo ed entra. La porta si richiude dietro di lui. The end. Neanche a farlo apposta la carriera hollywoodiana di Brando era iniziata con Il mio corpo ti appartiene in cui era un reduce di guerra paralizzato per le ferite – una vittima – e si chiude con un carnefice, un torturatore – di un indiano, per di più. Sipario.

L’autore di questo articolo è stato lo sceneggiatore di alcuni importanti film italiani, tra cui C’era una volta in America

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