Guy Debord, The Naked City, 1957 Ilustration de l’hypothèse des plaques tournantes en psychogéographique

Cultura | Architettura

Giocare con le mappe per migliorare la città

In anteprima dal nuovo numero di Urbano, dedicato alle mappe, un approfondimento sulla città ideale teorizzata dall’Internazionale Situazionista.

di Manuel Orazi

Dedicato alla cultura dell’urbanistica, Urbano è un magazine nato in occasione del centenario di Borio Mangiarotti, società di sviluppo immobiliare fondata a Milano nel 1920. I numeri di Urbano sono concepiti come monografie, approfondimenti verticali di un soggetto specifico. Il terzo numero di Urbano, in edicola e in libreria dal 3 dicembre, si chiama Mapping Maps ed è dedicato alle mappe.

L’Internazionale Situazionista è esistita ufficialmente per circa quindici anni tra la sua fondazione il 28 luglio 1957 in un paesino ligure a venti chilometri dal confine francese, Cosio d’Arroscia, e il suo scioglimento nel 1972 quando Guy Debord dichiarava incompiuto l’auspicato rovesciamento totale della società che era stato il fine ultimo del movimento. Le affinità con il Surrealismo, che era stato argomento di studio di quasi tutti i suoi componenti, sono evidenti sia nelle intenzioni rivoluzionarie sia nell’impostazione settaria del gruppo: periodicamente Debord infatti espelleva uno dei membri per qualche opinione o atto improprio così come Breton prima di lui.

Tra le passioni situazioniste vi era quella per le mappe perché tutti i concetti cardinali del movimento avevano a che fare con la geografia urbana ma in modo del tutto critico: situazione costruita, psicogeografia, deriva, spiazzamento (détournement). Sin dal primo momento i situazionisti negarono risolutamente che il loro fosse o potesse essere un movimento artistico, perché erano molto più ambiziosi essendo semplicemente dei rivoluzionari; in questo senso, non esiste pittura, architettura o musica situazionista, ma un utilizzo situazionista di queste discipline, Debord ad esempio in prima persona è stato cineasta oltre che filosofo.

La città in generale e le sue architetture moderne in particolare erano rifiutate in quanto strumenti di condizionamento delle classi dominanti e del capitalismo sicché Debord suggeriva fin dagli inizi di crearsi una nuova città personalizzata attraversandola in modo nuovo, senza seguire i cartelli e le indicazioni ordinarie. Sin dal 1956 comparivano mappe di città decostruite e ricomposte attraverso l’uso di frecce arbitrarie. Nei primi anni Sessanta la critica situazionista si fece sempre più serrata, ad esempio Raoul Vanegeim su L’International Situationniste n. 7 (1962) e 8 (1963) pubblicava un fortunato saggio dal titolo “Banalités de base”, dove l’avversione verso gli architetti – ultimo anello della catena di comando della società – è esplicito: «Presto o tardi anche l’Internazionale situazionista dovrà definirsi terapeutica; noi siamo pronti a proteggere la poesia fatta da tutti contro la falsa poesia distribuita dal solo potere (condizionamento). È importante che medici e psicanalisti lo capiscano, sotto pena di subire un giorno, assieme agli architetti e agli altri apostoli della sopravvivenza, le conseguenze dei loro atti».

Guy Debord, Guide psychogéographique de Paris. Discours sur les passions de l’amour, 1957 Pentes psychogéographiques de la dérive et localisation d’unités d’ambiance

Una figura chiave di questo periodo, specialmente in relazione alla sua funzione di ponte fra la cultura architettonica e quella artistica, è stato senza dubbio il pittore olandese Constant Nieuwenhuys, membro dell’IS. Constant si era interessato di architettura grazie ad Aldo van Eyck – autore di decine di playground ad Amsterdam –, che aveva incontrato nel 1947. Dopo lo scioglimento nel 1952 del gruppo Cobra al quale apparteneva, Constant si era orientato sempre di più verso l’architettura che dopo il 1956 divenne anche un tema centrale del Situazionismo grazie al concetto di “urbanismo unitario”, del quale ha dato la definizione: «Teoria dell’impiego di insieme delle arti e tecniche che concorrono alla costruzione integrale di un ambiente in legame dinamico con esperienze di comportamento3». Constant era del tutto insoddisfatto del funzionalismo urbanistico: «La mancanza totale di soluzioni ludiche nell’organizzazione della vita sociale impedisce all’urbanistica di elevarsi al livello della creazione, e l’aspetto squallido e sterile della maggior parte dei nuovi quartieri ne è un’atroce testimonianza».

Nel 1959 aveva potuto esporre in pompa magna una mostra dedicata al suo progetto New Babylon, una serie di quadri dedicati a una nuova città indipendente dalle città esistenti dove i legami familiari, economici e sociali erano stravolti da un’unica, perenne e comune attività ludica. Il nome di Nuova Babilonia ovviamente accentuava la minaccia verso i valori tradizionali. Constant credeva infatti in una evoluzione della specie umana da homo sapiens a homo ludens nel senso che a questa espressione aveva dato il sociologo olandese Johan Huizinga, citato anche da Yona Friedman ne L’architecture mobile pubblicato a Parigi in varie edizioni fra il 1957 e il 1964.

Apparentemente il ciclo di New Babylon e della Ville spatiale erano accumunabili e i loro due ideatori vennero in contatto diretto tra il 1960 il 1961, quando il Groupe d’Études de l’Architecture Mobile (1958–1962) capitanato da Friedman organizzò una mostra e un convengo ad Amsterdam. Negli anni immediatamente precedenti si erano moltiplicate le pubblicazioni di queste grandi città sospese sopra il territorio urbano e no, presentate attraverso l’uso di disegni, fotomontaggi ma soprattutto di mappe vista anche la loro crescita di scala continua.

Ugo La Pietra, Dai Gradi di Libertà. Tracce. Itinerari preferenziali, fotografia e interventi a china, 1969 courtesy Archivio Ugo La Pietra, Milano

In realtà c’era una netta differenza tra la condizione di svago assoluto descritto da Constant e la certezza friedmaniana di una nuova centralità del tempo libero (loisir o amusement) nella vita urbana. Friedman era più analitico e distingueva i giochi secondo due gruppi: i giochi d’imitazione (teatro, cinema, televisione ed ogni altro in cui lo spettatore delega la sua personalità agli attori) e i giochi di creazione (bricolage, il do-it-yourself, la pittura della domenica) mettendo bene in chiaro che la lista dei giochi collettivi era ancora sconosciuta, ma necessaria per poter conoscere l’avvenire del comportamento sociale. In ogni caso l’aspetto ludico era per l’architetto ungherese il primo fattore di attrazione delle città dalle campagne. Nei primi anni Sessanta, New Babylon era diventata rapidamente un’icona dell’utopia, «un falansterio per la love generation» e in seguito un «totem for the architectural empowerment of the people». Sul gioco era comunque diffuso un vago sentimento comune. Marshall McLuhan, che conosceva il lavoro degli architetti, scriveva per esempio a proposito dell’aumento del tempo libero: «Improvvisamente ci si minaccia una liberazione che metterà a dura prova le nostre risorse interiori di autonomia e di partecipazione immaginativa alla società. Può sembrare un invito agli uomini perché assumano il ruolo degli artisti».

D’altro canto Constant assolutizzava quella che ai suoi occhi appariva come una rivoluzione, senza considerare adeguatamente che si trattava anche di una trasformazione del lavoro, grazie alle dure lotte sindacali di quegli anni che ottennero un orario di lavoro più ristretto. Vi erano però alcune affinità di fondo tra Friedman e Constant. Per esempio quest’ultimo, citando il suo amico filosofo Henri Lefebvre, si definiva un utopiano e non un utopista distinguendo cioè gli utopisti dagli utopiani, ossia le utopie astratte dalle utopie concrete: il pensiero utopista esplora l’impossibile, mentre il pensiero utopiano sprigiona il possibile.

In realtà, Constant era conscio fin dall’inizio della propria incompatibilità con il positivismo dell’ambiente architettonico del GEAM. Rispondendo alla lettera nella quale Friedman aveva preso contatti con lui, Constant condivideva appieno la critica di Friedman ai ritardi dell’urbanistica contemporanea rispetto all’evoluzione economico-sociale dell’Occidente (ed in particolare all’avvento dell’automazione) ma non pensava che il suo progetto di Città mobile o Città spaziale desse delle prospettive innovative; essa, secondo Constant, rimaneva una città funzionalista: «Il tuo progetto non ha nulla a che fare con la critica sociale. Tu metti continuamente in evidenza l’abitazione privata, evadendo ogni soluzione di vita collettiva e una cultura basata sul gioco, […] un tipo di città completamente differente dalla città funzionale di oggi. Non è sufficiente trasformare la città in un senso tecnico o pratico, bisogna farlo prima di tutto in un senso sociale e culturale. La città futura non dovrebbe fondarsi sull’abitazione (che non è altro che l’opposizione tra l’interno e l’esterno) né sullo spostamento (alla ricerca dei bisogni), ma su un nuovo uso dello spazio sociale (ecologia)».

Courtesy: Yona Friedman, Fonds de Dotation, Denise et Yona Friedman, ADAGP
Courtesy: Yona Friedman, Fonds de Dotation, Denise et Yona Friedman, ADAGP

Questa critica di Constant è essenziale: se Debord aveva potuto liquidare Constant come tecnocratico perché troppo concentrato sulla definizione dei dettagli tecnici di una città non edificabile10, Constant poteva fare altrettanto con i progetti di Friedman e compagni del GEAM, in quanto tentativi di aggiornare l’architettura alle evoluzioni del sistema capitalista senza metterne in discussione le fondamenta ideologiche. Nonostante il pittore olandese non fosse propenso a essere confuso con i sostenitori delle megastrutture, New Babylon veniva da quel momento recepita come uno dei tanti progetti della neoavanguardia architettonica di quegli anni, e le sue esposizioni si moltiplicavano in giro per l’Europa di pari passo con il grado della sua complessità formale – quella che Mark Wigley ha definito “iper-architettura del desiderio”.

La risposta di Friedman alle critiche ricevute è stata cortese, ma ferma: New Babylon è la visione di uno “chef d’orchestre” che impone agli abitanti della sua città il comportamento da tenere, ciò che a suo avviso è inaccettabile: «La gente potrà scegliere la direzione di Constant e vivere insieme più collettivamente, ma tu non puoi farne una prescrizione». Il dissenso era dunque ideologico, non formale: non si può imporre alle persone il gioco perpetuo, ma solo renderlo possibile favorendo la mobilità dell’abitare e in fin dei conti l’adesione volontaria degli abitanti perché in generale «il gioco presuppone il rito, la partecipazione collettiva (anche se provvisoria), la coscienza del gioco stesso». All’opposto Constant, al pari dei situazionisti – specie gli ex lettristi –, progettava la sua città per una società al di là da venire, postrivoluzionaria e non borghese ma nomade, senza famiglie, in una città del tutto nuova, alternativa a quella esistente: un’autentica utopia, nel senso classico del termine (l’isola che non c’è), o di un’utopia paternalista basata cioè soltanto sull’iniziativa di “qualcuno che sa” – come la definirà Friedman in Utopie realizzabili nel 1975. Sia Constant sia Friedman abbandoneranno i loro progetti a grande scala all’inizio degli anni ’70, quando anche il Situazionismo veniva al termine.

Nel libro di riferimento dell’IS, La società dello spettacolo (1967), il capitolo VII era dedicato interamente alla programmazione del territorio da cui emergono prepotentemente le figure a-territoriali dei «supermarkets giganti edificati in terreno nudo, su uno zoccolo di parking» che tanto hanno segnato le prime riflessioni e i progetti di Archizoom, ma in generale anche gli itinerari nelle periferie di Ugo La Pietra, i primi montaggi di Bernard Tschumi e molti altri ancora. Nel lavoro giovanile di tutti questi autori la critica all’impetuoso sistema di sviluppo industriale del secondo dopoguerra con la conseguente creazione di nuove sterminate periferie e zone industriali si esprimeva utilizzando mappe e diagrammi assumendo spesso toni da battaglia, gli stessi che Debord per tutta la vita aveva applicato a una passione segreta venuta alla luce solo negli ultimi anni utilizzando un altro tipo di mappa, più astratto: quello dello scacchiere del gioco della guerra. Non a caso amava definirsi soprattutto uno stratega, a dimostrazione di quanto l’aspetto ludico fosse sempre stato costitutivo nella teoria dei situazionisti, «trovando il proprio luogo non in un improbabile altrove, ma unicamente nella precisa delimitazione cartografica di ciò che descrivono».