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Il Premier australiano è stato accusato di antisemitismo per aver indossato una maglietta dei Joy Division Una deputata conservatrice l’ha attaccato sostenendo che l’iconica t-shirt con la copertina di Unknown Pleasures sia un simbolo antisemita.
Lo scorso ottobre è stato uno dei mesi con più flop al botteghino nella storia recente del cinema In particolare negli Stati Uniti: era dal 1997 che non si registrava un simile disastro.

Pitchfork ha dato 2 al nuovo disco dei Måneskin

07 Febbraio 2023

Ultimamente la critica musicale americana deve aver scoperto la gioia di stroncare i Måneskin. Tre settimane fa ci si era dilettato Spencer Kornhaber sull’Atlantic (ne avevamo parlato qui), che nella sua recensione rispondeva alla domanda che in tanti si stanno facendo ormai da due anni: la band romana salverà il rock? «No», la laconica risposta di Kornhaber. Adesso, alle fila dei detrattori americani dei Måneskin si è aggiunto anche Jeremy D. Larson di Pitchfork. Voto dato a Rush, nuovo disco della band: 2 (in una scala che va da 1 a 10), il massimo che si può concedere a un album «assolutamente tremendo sotto ogni punto di vista».

Larson prosegue la descrizione del disco, arricchendola con altri dettagli. Tra questi: irritante dal punto di vista vocale, banale da quello della scrittura dei testi, monodimensionale nelle melodie. «È un album rock che suona tanto peggio quanto più è alto il volume al quale lo si ascolta». Secondo Larson, Rush doveva essere l’album con il quale i Måneskin spiegavano al mondo le ragioni del loro successo. «Il tentativo più ardito di spiegare il loro status di alternativi a qualcosa è “Kool Kids”», scrive Larson. Una canzone che, nelle intenzioni della band, dovrebbe essere una presa in giro ai cool kids, appunto, ai quali «non piace il rock/ascoltano solo rap e pop». Il tentativo di presentarsi come l’alternativa alla musica mainstream di questa epoca ha lasciato piuttosto freddo Larson, che definisce “Kool Kids” una «lagna» abbastanza curiosa, soprattutto se si considera che a lamentarsi è «una band che non è soltanto vestita Gucci, ma è vestita da Gucci».

Il tentativo dei Måneskin di presentarsi come alternativi («we’re not punk, we’re not pop, we’re just music freaks», canta Damiano sempre in “Kool Kids”), insomma, non convince Larson. Che nella sua recensione spiega anche perché: il concetto di “alternativo” applicato alla musica è finito con l’inizio dell’era delle piattaforme streaming: «Consumare musica in streaming l’ha resa un evento “multiversale”, una conversione di massa che ha portato le persone ad ascoltare tutto, ovunque, nello stesso momento [in originale “everything, everywhere, all at once”, un rimando al titolo del film A24, ndr]». E se anche il concetto di alternativo esistesse ancora, precisa Larson, sicuramente non potrebbe essere applicato ai Måneskin, più di tutti il prodotto dell’industria della musica e dell’intrattenimento per come la conosciamo oggi. «Il loro successo è basato sui talent show europei e sull’algoritmo. Sono il caos che si diffonde nel vuoto, e a noi resta il compito di trovare il senso di una band che sembra la parodia di una cover di Nme di inizio anni 2000 e il cui fascino potrebbe essere descritto come Cirque du Soleil: Buckcherry».

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