Cultura | Letteratura

Lydia Davis, venerabile maestra del racconto brevissimo

Flash fiction, poesie in prosa, romanzi in miniatura: cosa c'è in Osservazione sulle faccende domestiche, l'ultimo libro di Davis da poco uscito per Mondadori.

di Fabrizio Spinelli

Foto di Will Oliver/AFP via Getty Images

«“È nuovo il maglione?” chiede una donna a un’altra, un’estranea, seduta accanto a lei.

L’altra risponde di no.

Fine della conversazione.»

Queste tre righe, con gli a capo vistosi, tipici di ciò che la nostra educazione scolastica ci induce a riconoscere come poesia, costituiscono uno dei numerosi racconti di Osservazione sulle faccende domestiche (titolo originale Can’t and Won’t, 2012, da ora in avanti Osfd), il nuovo libro di Lydia Davis tradotto in italiano da Adelaide Cioni per Mondadori. La storia è abbastanza nota: Lydia Davis è la traduttrice di Proust, Flaubert, Blanchot e Leiris in inglese, e pare che proprio mentre lavorasse a La strada di Swann abbia iniziato a scrivere (quasi un antidoto contro la sintassi oceanica di Proust) dei racconti minuscoli, di una sola frase o di un solo periodo, che la critica americana ha battezzato flash-fiction. Sono degli stati Facebook, talvolta dei tweet, molto spesso privi di qualsiasi salienza, scritti però con una perizia formale invidiabile, da un utente misterioso che non ha foto profilo e potrebbe essere un bot.

Opinione personale: ritengo The Collected Stories of Lydia Davis (2009, che raccoglie in tutto quattro raccolte di racconti, pubblicate in italiano da Bur in due volumi dopo una seminale traduzione per minimum fax di Break it Down) uno dei libri più importanti del recente panorama letterario statunitense (e perciò ça va sans dire, globale). Osfd ne riprende la struttura e, come dire, la prospettiva, ponendosi come continuazione delle precedenti raccolte. Il libro appare come una specie di diario collettivo, una collezione eterogenea di appunti, schizzi, frammenti, distici, frasi origliate, trascrizioni di sogni, favole freudiane, monologhi, parabole, motti di spirito, osservazioni acute ecc., inframmezzate con racconti tratti dall’epistolario di Flaubert. Per quanto la voce che impariamo a riconoscere nel corso delle pagine sia abbastanza stabile (un basso continuo, una prosa asciutta, una conversazione informale piena di curiosità e intelligenza), essa si rifrange in abbozzi di personaggi ed è al contempo come braccata dal fantasma dell’impersonalità. In Osfd non troverete frasi da sottolineare o parole da cercare su Google, vi chiederete piuttosto chi è che parla, a chi si rivolge, perché ci sta raccontando quello che stiamo leggendo e soprattutto quale sia il suo significato profondo (spoiler: nessuno). Forse Osfd ha una vocazione più ombelicale rispetto alle precedenti raccolte (sono diversi i testi dominati dalla figura di una donna che di mestiere scrive, e almeno una volta nel libro questa donna si chiama Lydia Davis), di sicuro, nel complesso, appare al lettore più familiare, appunto più domestico, privo della violenza straniante di un racconto meraviglioso come questo (da Inventario dei desideri, Bur):

«La gente non sapeva quello che sapeva lei, che in realtà lei non era una donna ma un uomo, spesso un uomo grasso, ma più spesso, probabilmente, un uomo vecchio. Il fatto di essere un uomo vecchio le rendeva piuttosto difficile essere una donna giovane. Le veniva difficile parlare con un uomo giovane, ad esempio, nonostante lui fosse chiaramente interessato a lei. Era costretta a domandarsi: Perché questo giovane sta flirtando con un vecchio?».

Possiamo leggere i racconti di Davies come masse di documenti senza soggetto che premono per una narrazione, blocchi immaginali che si fermano alla soglia del narrativo, percezioni magicamente trasformate in eventi, riconvertite in aneddoti impersonali nati però da una colluttazione di citazioni intime. Microfenomeni che combaciano con lo spegnersi e l’accendersi dell’attenzione, ritagli di esperienze decostruite, inneschi.

Breve elenco di opere che mi sembrano in qualche modo riconducibili ai racconti in miniatura di Davis (in ordine sparso): alcune cose di Geografie e Drammi di Stein, la sua coazione tautologica; le prose di Rimbaud (non quelle di Baudelaire); i diari e le parabole di Kafka; Eventi di Thomas Bernhard; i racconti più brevi di David Means; la prosa di apertura di Brevi interviste con uomini schifosi (titolo: Una storia ridotta all’osso della vita postindustriale; forse pure qualcosa di Ottetto senza il piagnisteo metanarrativo) di DFW; Centuria di Manganelli, i Sillabari di Parise; in generale, un’aneddotica tipica dei libri di viaggio, dei diari, delle raccolte di aforismi; le scritture di area OuLiPo; Francis Ponge; le cose meno astruse e metafisiche di Michaux; in generale, i paragrafi in prosa dei libri di poesia non brutti; Strada a senso unico di Benjamin (ma senza lo svisceramento poliziesco dell’immagine), il Beckett terminale, tutto quello che ha scritto Russell Edson.

Torniamo a Proust. Se Proust lavora per espansione, esaurendo tutte le possibili declinazioni della sensazione/situazione che analizza, Davis lavora per contrazione e condensazione: i suoi testi più che rappresentare, presentano (è un’idea che Todorov usava per spiegare certe caratteristiche dell’opera di Rimbaud), mostrano quasi lo schema di un’emozione o di un contesto conflittuale, senza risolverlo, scioglierlo o spiegarlo in maniera appropriata. La sua scrittura è una comunicazione tronca. Molto spesso si finisce per credere che la cosa più importante di un racconto sia quello che ne è rimasto fuori, ciò che non viene detto ma suggerito dallo spazio bianco. Se togliamo a un romanzo la trama, i personaggi, le interpolazioni saggistiche e sociologiche, e gli lasciamo solo le interiora, per poi sottoporle a un esame istologico, abbiamo forse un’idea vagamente corretta di quella cosa che fa con la scrittura Davis. La domanda da porsi a questo punto (una domanda senza risposta) è perché chiamiamo questa cosa flash-fiction, o short-short stories, e non poesia?

Il più importante scrittore di poesia in prosa americano, Russell Edson, ha provato a descrivere il genere da lui così perfettamente dominato con queste parole: «Una poesia liberata dalla definizione di poesia, e una prosa liberata dalle esigenze della narrativa; una forma personale disciplinata non da altra letteratura ma dall’infelicità; dunque un modo di essere felice» (cito dallo straordinario Portrait of the Writer as a Fat Man). È una definizione che si applica benissimo anche al lavoro di Davis. Leggendo una prosa di Edson (tratta dall’unica traduzione italiana disponibile, Il Tunnel, uscita per Taut questa primavera) che è un Venerato Poeta, viene da pensare che potrebbe essere stata scritta da Davis, che è una Venerata Autrice di Racconti:

«Un uomo scrisse testa sulla testa, mano su ogni mano e piede su ogni piede.

Suo padre gli disse, fermo fermo fermo, perché la ridondanza è come avere due figli, che poi è come avere due figli di troppo, è come dire che già un figlio è di troppo.

L’uomo disse, posso scrivere padre sul padre?

Sì, disse il padre, perché un padre non riesce a sopportare tutto questo da solo.

La madre disse, io me ne vado se viene tutta questa gente a cena.

Ma l’uomo scrisse cena su tutta la cena.

Quando finì la cena il padre disse al figlio, scriverai rutto sul mio rutto?

L’uomo disse, scriverò Dio vi benedica su Dio».

Iniziamo così a sospettare che la differenza che sussiste tra i testi di Edson e quelli di Davis sia puramente nominalistica: i primi sono inseriti in un libro di poesia, i secondi in un libro di racconti, con tutti gli addentellati del caso e le complicate torsioni teoriche che ne derivano. Entrambi tuttavia rompono i contratti di genere ereditati dalla tradizione, e li ridiscutono rigo dopo rigo, costringono cioè il lettore a chiedersi continuamente cos’è che hanno davanti e come devono leggerlo, frustrando le sue aspettative. Fanno cioè quello che la letteratura (o almeno la poesia-poesia, il racconto-racconto e il romanzo-romanzo) ha smesso da troppo tempo di fare: turbare i nostri schemi cognitivi e le nostre abitudini di lettori, non rafforzano il senso della realtà ma lo scompongono, non ci danno lezioni etiche universali ma ci costringono a dubitare di tutto, non disciplinano il nostro comportamento di essere umani e non manipolano la nostra reazione emotiva. Ecco un ultimo racconto da Osfd, intitolato Revisione: 2.

«Continua con Bambino ma elimina Priorità. La priorità, non le priorità. Taglia parti di Progredire. Aggiungi a Paradosso che la noia è contenuta nell’interessa, mentre l’interesse è contenuto nella noia. Levalo. Trova Tempo. Continua con Tempo. Continua con Aspettare. Aggiungi a Bambino che afferra con la mano la zampa di una strana rana. Aggiungi Priorità e Nervoso a Revisione: 1. Continua Kingston con Famiglia e Supermercati. Continua con il Brontolone. Comincia Kingston con la Tigre Siberiana».