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Le interviste di Dalla
Incontro con Jacopo Tomatis, musicologo che ha curato E ricomincia il canto, raccolta di dialoghi avvenuti negli anni tra i giornalisti e il cantautore bolognese.
(Photo by Luciano Viti/Getty Images)
Le centinaia di interviste a Lucio Dalla, dal Corriere della sera a quelle alle piccole radio di provincia, in breve: «Un insieme di aneddoti inventati, contraddizioni e improvvise finestre sulla sua intimità, comunque sempre protetta con cura dai riflettori». Parola di Jacopo Tomatis, musicologo che ha curato E ricomincia il canto (il Saggiatore), una selezione di quarant’anni di colloqui fra il cantautore bolognese e giornalisti. E l’immagine che ne viene fuori, dice lui, è quella dell’icona pop per eccellenza, longeva, pronta a cambiare e a ripensarsi, con pochi simili in questo senso in Italia. Tradotto: solo lui poteva permettersi, ammettere e persino cercare un atteggiamento del genere, così difficile da seguire nei saliscendi eppure famigliare, nei difetti, a chi si mette all’ascolto.
E certo la carriera dell’artista bolognese non racconta una storia diversa: è passato dalla canzone politica a quella da classifica, ha sporcato il nazionalpopolare con l’amarezza della casa (“L’anno che verrà”), è stato icona assoluta e giovanile in Borotalco di Carlo Verdone e poi freak da circo in tv. Poi, in mezzo, citazioni colte e ammiccamenti sconci ai suoni più commerciali, slanci superomistici (chi non ha mai davvero pensato che il Nuvolari, straordinario, della canzone non sia altro che una sua recondita proiezione?) e passioni terrene, con annesse goffaggini di cui andare, in realtà, pure orgogliosi. E le interviste – ancora – come mezzo per dare estensione a un personaggio sfaccettato, un po’ piacione e sempre lucidissimo nell’incoerenza. C’è da impararne.
ⓢ Però: in cosa di preciso le interviste di Dalla descrivono il personaggio meglio di quelle di altri musicisti?
Faccio una premessa: l’idea del libro mi è stata proposta dal Saggiatore, che ne aveva già pubblicati altri su musicisti come David Bowie e Leonard Cohen. Ma ecco: Dalla, al contrario loro, è molto più spiazzante e difficile da raccontare attraverso le interviste. Compresi i grandi cantautori della tradizione, da De André e Gaber, quasi tutti i nomi in questione hanno partecipato a interviste posate, lunghe, approfondite, rigorosamente col cronista di fiducia. Al contrario, lui si è concesso a tutti, comprese le testate più piccole e sconosciute, dicendo puntualmente tutto e il contrario di tutto. Si è contraddetto raccontando balle e mitologie personali in realtà mai esistite. Non ci si può fidare di molte cose uscite dalla sua bocca; è più il fascino del racconto in sé.
ⓢ E perché faceva tutto ciò?
Per piacere, a tutti. Ed è questo il punto. Nonostante sia stato associato ai cantautori italiani, queste interviste mostrano come il suo intento fosse quello di arrivare a più persone possibili. Aveva una sorta di ossessione per il “pubblico”, che tra l’altro è una delle parole più ricorrenti qui, seconda solo a “comunicazione”. Si preoccupava di dire cose che interessassero alla gente, anche contro il gusto della critica. È andato verso il nazionalpopolare in maniera consapevole, senza paura. E la differenza con De André e gli altri sta nell’essere stato capace di scrivere dischi progressive con Roberto Roversi – complessi, politici – e brani da classifica come “Attenti al lupo“, fino a presentarsi in bermuda, col parrucchino di Cesare Ragazzi, al Festivalbar. Voleva davvero arrivare a tutti, dall’intellettuale all’uomo della strada. Ma non come trasformista: come intrattenitore, performer. E in questo resta una delle più grandi icone pop italiane, nonché una delle più sincere e coerenti.
ⓢ E anche i giornalisti sembravano assecondarlo, perlomeno leggendo queste interviste. Tranne Giorgio Bocca che in un’intervista all’Espresso («Ma che ci trovano in quel Dalla?») lo fa passare come antipatico.
Di tutte, è l’unica in cui l’intervistatore si mette di traverso a Lucio Dalla – anche se chiaramente bisognerebbe ascoltare la registrazione originale per capire come sia andata davvero. E anche Lucio, comunque, non ha la cordialità di sempre, né la voglia di stupire a tutti i costi l’interlocutore, di piacere, di essere pop anche in quel senso, adattando le risposte al contesto. Che è una cosa che invece lo caratterizza negli altri colloqui, dico. Alla fine Bocca gli concede l’onore delle armi, certo, ma probabilmente a monte c’erano vecchie ruggini, che risalivano a una richiesta di intervista non accolta da parte di Bocca, ad alcune domande un po’ cattive sue e al Settantasette, che Dalla aveva vissuto male, senza riuscire a identificarsi nei giovani. Tra l’altro quell’evento fu una sorta di spartiacque nella carriera di Lucio, che da lì abbandonerà la canzone politica con Roberto Roversi, e questo anche perché la sensibilità comune stava cambiando. Sceglierà Banana Republic con De Gregori, gli stadi, insomma i grandi successi fino ai primi anni Ottanta. Però era proprio la cultura di sinistra ad essere andata in crisi, e i cantautori – che le erano organici – si adeguarono diventando star compiutamente pop, senza piacere più alla critica. Ecco, «Ma che ci trovano in quel Dalla?», che è dell’estate del 1979, è particolare proprio perché si inserisce in quel momento di cesura.
ⓢ Dalla ha sempre seguito le mode quindi?
Assolutamente, e queste interviste lo confermano. Non ne abbiamo solo per quanto riguarda i suoi esordi come jazzista; poi, per il resto, raccontano una trasformazione continua del personaggio. Negli anni Sessanta, per esempio, fa beat e si pone come autore buffo, surreale, con dichiarazioni freak. Non sfonda, e quindi da “4 marzo1943” (1971) si avvicina ai cantautori, prima di sperimentare con Roberto Roversi – poeta, che gli scrive testi bellissimi – con dischi politici come Anidride solforosa e Automobili. Quindi, da “Com’è profondo il mare” si occupa delle liriche da sé, semplificando la musica e diventando fenomeno di massa almeno fino agli inizi degli Ottanta. In quel momento è un’icona, col cappello e gli occhiali tondi. Infine: “Caruso“ e, nei Novanta, il suo più grande successo commerciale con “Attenti al lupo“, con un pop generico e meno incisivo sulla cultura di massa italiana. Che, va detto, lo accompagnerà fino alla fine, in dischi francamente meno memorabili.
ⓢ Al di là del rapporto con le mode, che personaggio emerge da queste interviste? L’immagine che ho io dopo averle lette è quella di un freak incantatore, ultraterreno, e però al tempo stesso anche fatto di carne e di passioni che lo rendono vicino al grande pubblico.
Esatto, un uomo che vive ventiquattro ore al giorno, in un’esistenza popolata da eventi, muovendosi ad altissima velocità fra le proprie, tante passioni, come il basket, il calcio e l’andare in barca a messa. Per il resto, inventa aneddoti senza lasciare spazio a malinconie, che probabilmente nasconde ma non dà a vedere. Un po’ perché si dice sempre protesto al futuro – “domani” è un termine che ricorre nelle sue canzoni, basti pensare a “Futura” – e un po’ perché paradossalmente sul proprio intimo rimane molto riservato. Un argomento su tutti: l’omosessualità.
ⓢ Ecco, ce ne è traccia nelle sue interviste? Se oggi Dalla avesse trent’anni, al contrario di allora, farebbe outing
Non lo so: una dichiarazione del genere oggi non creerebbe sconvolgimento a nessuno, ma non credo che l’omosessualità non fosse sdoganata nell’arte negli anni Settanta, anzi. La verità è che il suo non era un calcolo, ma una dichiarazione di libertà. A livello di interviste ne parla poco, fa sempre il vago. Non ne nega né afferma, compreso quando ne parla – siamo sempre nei Settanta – con una rivista del movimento omosessuale. Citerà sempre “L’anno che verrà”: «Si farà l’amore ognuno come gli va». E in questo senso è stato un’icona pop moderna, perché ha sempre rifiutato queste etichette come oggi fa tutta la comunità Lgbtq+.
ⓢ Anche per quanto riguarda la politica, offre un’immagine fluida del suo credo, o sbaglio? Nel senso: si dichiara di sinistra, ma non sempre fedele al Pci.
Dipende, è questo il punto. Nel periodo con Roversi si associa ai comunisti, e del resto le sue canzoni quello dicono. Poi il discorso politico passa in secondo piano nelle interviste, ma perché lo fa proprio nella società. Dagli anni Ottanta nessuno chiede più a un cantautore cosa vota, mentre prima era d’obbligo. Non che Dalla smetterà di prendere posizione, per esempio contro la guerra nella ex Jugoslavia; ma sarà meno politicizzato. E, per esempio, racconterà di una cena esilarante con Enrico Berlinguer come di una, altrettanto esilarante, ad Arcore con Silvio Berlusconi. ma poteva permetterselo: era pubblico, molteplice, e legava la propria immagine ad ambienti anche molto distanti fra loro, tenendo insieme le parti con la forza del suo personaggio, apertamente contraddittorio. Non ne faceva mistero, anzi. E il bello delle sue interviste è che negli anni non si ripetono mai, anzi si ripensano in base al momento. Ma sarebbe stato triste il contrario, e la sua era una scelta consapevole.
ⓢ Sempre adattandosi al contesto, quindi. E vale anche per la fede cristiana.
Queste interviste sono interessanti proprio perché descrivono il cambiamento di Lucio e del contesto. Da una parte, le domande si sono appiattite, hanno perso il gusto di essere contraddittorie. E del resto adesso è evidente come si cerchi di essere accomodanti con l’intervistato. Ma anche Dalla, dicevamo, ha mutato toni e contenuti in base al mondo circostante: per risponderti sulla fede, prima si dichiarava esclusivamente politico, poi col successo di pubblico ha iniziato a parlare proprio di fede, accantonando la politica. Perché? Perché la sensibilità comune glielo permetteva. Figurati se un cantautore comunista, negli anni Settanta, poteva dire di recarsi a messa. Nell’ultima parte della carriera, poi, viene intervistato per dare un’opinione sugli argomenti più vari, come un “vecchio saggio”. Non che gli stia bene questa veste, ma non sta bene quasi a nessuno e non riguarda solo lui. Non a caso, sono le interviste che ho tagliato. Non era così interessante sapere cosa avesse Dalla da dire sulla guerra in Kosovo. Lo diventa, solo quando dalla stringente attualità del mondo riusciva, con le sue parole, ad aprire una finestra sulla propria, di attualità.
ⓢ Cosa lascia Lucio Dalla alla cultura italiana?
L’immagine di che cosa deve essere la vera musica pop: ovvero tantissime cose unite e distinte; leggero e serio, impegnato e disimpegnato, divertente ma stimolando sentimenti. E sempre senza parlare solo alla propria classe, ma condividendo il proprio linguaggio con tutti. È difficilissimo da fare bene, e in Italia ci sono riusciti in pochissimi musicisti. Anche per questo, Dalla è l’icona pop che ricordiamo ancora oggi.