Cultura | Dal numero

Come sarà la letteratura del futuro?

Dopo il cyberpunk degli anni Ottanta, la letteratura sembrava aver rinunciato a raccontare il futuro, ma una serie di indizi sotto forma di romanzi e racconti ci dice che qualcosa sta cambiando.

di Cristiano de Majo

Pubblicato nel 1981, all’inizio della sua carriera di scrittore, “Il continuum di Gernsback” è probabilmente il racconto più metaletterario di William Gibson (in Italia apparve nella raccolta pubblicata inizialmente da Urania La notte che bruciammo Chrome, ma anche sull’antologia di fantascienza cyberpunk curata da Bruce Sterling Mirrorshades). Gernsback deriva da Hugo Gernsback, un editore di libri di fantascienza classica realmente esistito, ma il racconto è una storia di allucinazioni, un peculiare tipo di visioni sperimentate dal protagonista, un fotografo incaricato di realizzare un servizio su «architetture futuristiche degli anni Trenta e Quaranta» che finisce per essere così ossessionato da quelle forme da vederle comparire nel suo campo visivo. “Gernsback continuum” si presta a numerose interpretazioni: la prima è quella di essere un racconto sulla fine della cosiddetta fantascienza classica e una specie di segnale di inizio del cyberpunk, la corrente letteraria che all’inizio degli anni ’80 rivoluzionò non solo la sci-fi, ma la letteratura in generale, dando al genere una dignità che forse non aveva mai avuto. La seconda è quella di essere, non si sa quanto volontariamente, una formalizzazione letteraria particolarmente compiuta del concetto di hauntology, fusione di Haunting e Ontology coniata da Derrida negli anni Settanta, per poi essere adottata e sviluppata dalla culture theory e da pensatori/critici come Mark Fisher. Sull’hauntology ci si può imbarcare in ragionamenti fluviali, ma quello che ci interessa in questo caso è la sua declinazione di come i futuri non realizzati, come quelli immaginati dalla produzione culturale – dai romanzi, dal cinema, dall’arte, dal design – possano infestare, proprio come fantasmi, il presente. «Sono fantasmi semiotici, frammenti di questo immaginario collettivo che si sono staccati e hanno preso vita autonoma, come le aeronavi alla Jules Verne che quei vecchi contadini del Kansas continuavano a vedere», dice un altro personaggio del racconto di Gibson, la critica d’arte Dialta Downes, autrice di un libro intitolato Futuropolis aerodinamica: il futuro mai realizzato, in un passaggio che sembra una spiegazione quasi letterale di questo concetto.

Contrariamente ad altri futuri immaginati, come lo space modernism di cui parla il racconto, quello visto dal cyberpunk sembra essersi praticamente realizzato. Al punto che si potrebbe dire che i mondi immaginati da Gibson, Sterling e gli altri, dove le corporation sono più potenti degli Stati-nazione e dove la rete è una realtà parallela in cui si svolgono molti aspetti della vita reale, siano stati imitati dalla realtà. L’altra cosa da dire è che dopo il cyberpunk, andato lentamente in dissolvenza negli anni Novanta, la letteratura degli anni successivi ha abdicato a quella che pure è una delle sue caratteristiche da sempre, quella che potremmo chiamare veggenza, ovvero lo speciale e inspiegabile potere di anticipare cosa succederà. In campo letterario gli anni Ottanta e Novanta sono stati fecondi non solo per il cyberpunk. Abbiamo vissuto l’ondata di quello che alcuni hanno chiamato realismo isterico, e altri avant-pop, e che corrisponde all’esplosione di scrittori sperimentali ma influenti come David Foster Wallace, Zadie Smith, Dave Eggers e altri ancora. Una fase particolarmente entusiasmante, figlia del post-moderno ma al tempo stesso molto rappresentativa di quel momento storico. La fine della storia post Guerra fredda, la vittoria del modello consumistico, l’ansia da benessere, la pervasività televisiva sono il contesto in cui prendono forma romanzi e racconti nevrotici, virtuosistici, digressivi che nel giro di poco tempo diventano “la cosa” da leggere. Una cosa interessante di molte avanguardie è la difficoltà, mentre sono al loro apice, di immaginare che qualcos’altro, qualcosa di più nuovo ed elettrizzante possa sostituirle. Eppure anche per questi libri, per questi stili e per alcuni di questi scrittori è arrivato poi il momento di essere superati, o perlomeno di risultare non più in sintonia con il tempo che nel frattempo stava avanzando e cambiando. Dall’apparente pace e prosperità mondiale – una calma che come abbiamo detto ha prodotto una letteratura nevrotica, iper-complessa, ironica –  allo squarcio dell’Undici settembre, delle guerre in Medioriente, della violenza islamica in Europa, mentre la cultura occidentale partoriva gli iPhone, i social network, i reality show. Simmetricamente gli anni Zero hanno visto, prima a piccole dosi e poi con l’evidenza di una moda, l’avanzata delle cosiddette scritture della realtà, quelle in cui la componente personale o quantomeno quella dell’esperienza vissuta sono la cassetta degli attrezzi per costruire e decostruire esperimenti letterari. Memoir, autobiografie, reportage narrativi; autori e autrici come Carrère, Knausgård, Ernaux, Lerner, Siti, Cusk, solo per citare i più celebrati.

È una sintesi estrema, brutale, di tre o addirittura quattro decenni di spinte in avanti in campo letterario. E che ovviamente sono state oggetto di trattazioni ben più ampie e approfondite di questa, ma che qui servono come piano d’appoggio necessario per arrivare al futuro, a cosa sta succedendo adesso, in un momento in cui la sbornia autobiografica sembra ancora lontana dall’essere smaltita, ma con libri sempre meno interessanti da un punto di vista formale e sempre più conformi a quello che è più che altro un gusto dominante. Rispetto al concetto di avanguardia, insomma, negli ultimi anni la sensazione è stata quella di una calma piatta. Qualcosa di simile all’esaurimento che Mark Fisher (ancora lui) attribuisce al ventunesimo secolo in campo musicale (e più in radice ai meccanismi del capitalismo): «Mentre la cultura sperimentale del ventesimo secolo era preda di un delirio ricombinatorio che dava impressione che la novità fosse disponibile all’infinito, il ventunesimo secolo è oppresso da un senso di finitezza e sfinimento. Non si ha affatto l’impressione di trovarsi nel futuro». Ed è stato così sul piano letterario: per un po’ non abbiamo avuto l’impressione di trovarci nel futuro. Mettici la sempre evocata morte del romanzo o in alternativa la scomparsa del lettore, che in epoca social ha più fondamento del solito, abbiamo disperato anche che un futuro della letteratura potesse esistere. Invece sono poi apparsi dei segnali che qualcosa di diverso stava prendendo forma. Segnali che si sono ripetuti mostrando indizi di una sensibilità comune. C’entra la crisi climatica. C’entra forse il populismo distopico che a ondate ha minacciato l’ordine occidentale. C’entra il senso nell’aria di un imminente cambio di paradigma. Ma di nuovo abbiamo avuto la possibilità di provare quella strana e bellissima sensazione di trovarci davanti a qualcosa che prima non c’era.

La nuova letteratura, chiamiamola così, è ripartita dalla fantascienza. Anche se è una fantascienza che non ha niente a che fare con lo spazio e con altri mondi, pure in un tempo in cui lo spazio – i viaggi interplanetari, le scoperte astronomiche – si è avvicinato all’esperienza umana come mai prima d’ora. È una fantascienza in cui il discostamento dalla realtà è minimo e, in alcuni casi, ancora più sottile di quello raccontato dalla letteratura cyberpunk. Una fantascienza che si occupa di alberi, di uccelli, di acque e che usa elementi fantasy. Ci sono due libri usciti tra il 2020 e il 2021 che possono essere accomunati e presi come esempio di questa sensibilità: Riaffiorano le terre inabissate di M. John Harrison (Atlantide) e Colibrì Salamandra di Jeff VanderMeer (Einaudi). Il primo, ambientato in una Inghilterra che potrebbe anche essere quella di oggi, è un romanzo acquatico, di piogge e di canali, in cui la natura, anche nei suoi aspetti mitici, esonda nella vita profondamente urbana e atomizzata dei personaggi. Il secondo si svolge in America, in un tempo che sembra imminente, con sullo sfondo gli strascichi molto sfumati di una pandemia, l’ossessione per la cybersicurezza e al centro dell’azione l’estinzione di alcune forme di vita animale. (VanderMeer è naturalmente l’autore della Trilogia dell’Area X, nonché, insieme a sua moglie Ann, il curatore di una delle antologie che hanno contribuito a influenzare questa tendenza: The New Weird del 2007). A ottobre del 2021, il New Yorker pubblica sulle proprie pagine un racconto intitolato “The Ghost Birds” scritto da Karen Russell. La storia è tanto semplice quanto strana. Un padre e una figlia preadolescente esplorano una struttura industriale abbandonata alla ricerca dei fantasmi di specie estinte di uccelli. È probabilmente solo una coincidenza, ma rappresenta una specie di chiusura del cerchio con “Il continuum di Gernsback” citato all’inizio di questo pezzo. Sono passati esattamente quarant’anni, ma anche questa è una storia di visioni, di fantasmi e di futuri non realizzati. Solo che al posto delle architetture spaziali degli anni Trenta, c’è la natura, la natura come promessa disattesa. C’è da augurarsi che queste nuove storie non si avvereranno come si è invece avverato in qualche modo il cyberpunk. Ma il fatto che queste visioni si siano prodotte significa che ci ossessioneranno, almeno come fantasmi culturali.