Attualità

Les liaisons dangereuses

"Non sono io, sei tu". La tormentata e complessa relazione tra brand e i fan di facebook

di Michele Boroni

Quando anni fa Facebook iniziò a diventare un’abitudine di navigazione per milioni di utenti ma, soprattutto, quando concesse la possibilità ai brand di creare le proprie pagine personalizzate, per il marketing di molte aziende fu una folgorazione. O meglio, un vero e proprio innamoramento.

Allora era ancora viva e popolare la teoria dei “brand come Lovemark” formulata da Kevin Roberts, gran capo globale dell’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi, che si basava sull’illusione di poter instaurare con i propri consumatori un legame emotivo, intimo e personale, una “relazione” che potesse sfociare in qualcosa di più del semplice apprezzamento che si prova per alcuni marchi preferiti. Una fedeltà oltre la ragione: insomma, amore.

Provate ad entrare dentro la testa di un qualsiasi marketing manager e immaginatevi di far accedere il vostro brand all’interno della vita online dei “consumatori”, incrociare i propri messaggi nel flusso delle loro conversazioni quotidiane con gli amici, avere un feedback continuo sul percepito del brand e dei propri prodotti, intersecare le proprie notizie con gli interessi e passioni dei fans, insomma, fare diventare il marchio un’entità viva, capace di costruire relazioni reali, aumentando awareness, credibilità e potenzialità d’acquisto su migliaia e migliaia di persone, il tutto a un “costo per contatto” irrisorio: teoricamente, il paradiso per il marketing di un brand.

Teoricamente, appunto. Perché in pratica, tranne rare eccezioni, le cose non sono andate proprio così.

A testimoniarlo è una ricerca realizzata negli States, ma i cui risultati sarebbero verosimilmente analoghi anche qui in Italia. L’indagine condotta da ExactTarget rileva una situazione di forte criticità nella storia d’amore via social network tra brand e persone. Già il geniale titolo “It’s not me, it’s you”  – che ricorda un frammento di discorso amoroso di rolandbarthesiana memoria rivisto e aggiornato – la dice lunga sull’incancrenimento del rapporto. In pratica nella ricerca si legge che le persone si sono rotte le scatole di ricevere mail e notifiche da quei brand che un tempo avevano dichiarato likeable: il 77% dei consumatori online intervistati ha dichiarato di essere diventati oggi più prudenti nel dare il proprio indirizzo mail alle aziende. Ma i dati più interessanti riguardano proprio gli unlike ai brand presenti su Facebook, perché le aziende in fondo “postano solo noiosi e ripetitivi messaggi di marketing con un’alta frequenza, senza offrire reali informazioni o vantaggi economici”. In pratica, la maggioranza delle aziende non sanno parlare o conversare con le persone e questo in parte già lo sapevamo; una rilettura di alcune delle 91 discutibili tesi di [mini]marketing scritte da Gianluca Diegoli, non farebbe male a chi si occupa del settore digital dei brand.

Facebook è quindi subito corsa ai ripari e ha presentato la scorsa settimana a New York nel corso della prima Facebook Marketing Conference una serie di funzioni dedicate ai brand, al fine di aiutare le aziende a conversare meglio con il proprio pubblico, dando la possibilità di avviare un contatto privato con gli utenti e implementando nuove forme di sponsorizzazioni di contenuti e condivisione degli update, premiando quei brand che aggiornano di più. Con il rischio però che questo vada ad aumentare il bombardamento di notizie di marketing che, come si è visto, rappresenta uno dei principali motivi di allontanamento delle persone dalle fan page.

Anche l’estensione della Timeline alle pagine delle aziende permette di vivere una nuova esperienza di navigazione e relazione: brand come il New York Times, Coca Cola e Burberry (per citare tre esempi molto diversi) ne hanno approfittato per raccontare la loro storia e creare una sorta di museo virtuale della marca.

Tutti questi nuovi tool richiedono un profondo pensiero strategico per le aziende, nonché una sfida creativa, finanziaria e organizzativa che non può essere delegata a dipendenti junior o a un’agenzia esterna. Occorre quindi che le aziende ripensino il loro approccio nei confronti dei social network, non in termine di investimenti di denaro, bensì di tempo, lavoro ed energia per la creazione di contenuti interessanti per il pubblico.

Qui si gioca anche il futuro di Facebook che ormai non può più basare il proprio sostentamento solo sul numero totale di iscritti (ormai giunto a 850 milioni) ma deve puntare sempre più ad essere una piattaforma e un media innovativo per le strategia di comunicazione dei brand.

L’amore è un’altra cosa.